Il mito del self-publishing non cura l’editoria malata

Pochi giorni fa, nel presentare il romanzo d’un amico giornalista, pubblicato con un piccolo editore, e nell’incoraggiarlo a reclamizzarlo e ottenerne recensioni, quest’ultimo mi fa: «Guardi, per i libri si fa tutto e di tutto, ma è una vera guerra. Di libri se ne vendono sempre meno e poi c’è pure da fronteggiare la concorrenza sleale degli editori a pagamento…». In che senso a pagamento? «Editori che per pubblicare un libro chiedono denaro all’autore. “Un contributo”, lo chiamano, ma spesso sono cifre che coprono l’intero costo di edizione. Fanno leva sul narcisismo o le velleità dell’autore, che pur di vedere il proprio libro pubblicato e in bella vista su uno scaffale in libreria accetta qualsiasi condizione… Si faccia un giro in Internet e troverà anche la lista degli “Eap”, Editori a pagamento… è pubblica».

In effetti, sul web c’è davvero tutto. Dal fac-simile di un contratto-tipo, allo sfogo dei turlupinati, dai casi singoli e collettivi agli appelli, le diffide, le lamentele, le dichiarazioni di guerra incrociate. C’è l’elenco delle case editrici all’indice, solo che quando si va a cliccare sul nome dell’editore una scritta avverte: «Spiacenti, impossibile trovare questa pagina». In altri casi vi si trova il logo accompagnato dallo slogan: «Pubblica con noi e risparmia» mentre altri ancora sollecitano: «Hai scritto un libro? Inviacelo! Scadenza 1 marzo 2013», mensilmente o bimestralmente «la nostra casa editrice seleziona opere letterarie per la pubblicazione».

«Solo che l’investimento è a costo zero. Mettiamo un libro di 120 pagine – fa i conti il nostro editore che preferisce l’anonimato –, il costo vivo è sui quattro euro a volume, carta più tipografia. Se vengono tirate mille copie sono in tutto 4 mila euro. Altro che contributo alle spese, è il costo pieno! E se poi magari diventa pure un caso letterario…, tutto di guadagnato…. Nessun rischio. Certo, a volte può anche capitare, come nel caso dell’editoria scolastica, di pubblicare qualche libro a carattere universitario, perché si sa per certo che poi il libro di testo verrà adottato al corso… ma è tutt’altra faccenda…».

Commenta Andrea Di Robilant, ex giornalista e oggi autore di successo di romanzi storici scritti direttamente in inglese, prevalentemente per il mercato americano e australiano, poi tradotti anche in Italia da case editrici di rango: «Del resto, con le nuove tecnologie i costi di produzione oggi sono scesi talmente che il libro te lo puoi fare anche da te. E i soldi che guadagni te li metti in tasca tutti tu. Mille copie autoprodotte sono già un successo e, per assurdo, valgono quanto le diecimila commerciate dalla grande o media casa editrice in termini di guadagno…». L’operazione si chiama self-publishing, che significa letteralmente “autopubblicazione”.

È questo il caso de Ilmiolibro.it, portale del Gruppo Espresso gestito anche con la consulenza dell’editore Feltrinelli attraverso cui si può stampare e distribuire in rete il volume (valore: circa 7 euro a copia) e persino approdare sugli scaffali delle librerie attraverso il sistema del print on demand, ovvero stampa su richiesta, che poi il libraio s’impegna a consegnare all’acquirente.

Il self-publishing si basa su alcuni principi di base: «Controllo creativo nelle mani dell’autore; copyright e diritti di sfruttamento commerciale all’autore; marketing, promozione e distribuzione curata dall’autore, eventualmente utilizzando i servizi messi a disposizione dal sito di self-publishing che ha deciso di utilizzare. Il modello di self publishing puro non prevede che l’autore debba cedere, neanche temporaneamente, i diritti di sfruttamento commerciale di quanto pubblicato (cosiddetti contratti di edizione a tempo)» avverte il sito ilmiolibro.it. In Italia, poi, grazie ad un accordo con l’agenzia italiana Isbn, il sito di self-publishing ilmiolibro.it ha reso possibile per la prima volta agli autori la facoltà di registrare un codice Isbn (che consente l’ingresso nel catalogo ufficiale di quanto pubblicato) in modalità “author’s publishing” senza quindi la necessità di ricorrere ad un editore. Il sito ha oltre 150 mila utenti che si sono registrati e finora ha dato vita a poco meno di ventimila titoli pubblicati.

Ma è un’iniziatva è assai diversa da quella dell’Editore a pagamento di cui ci si lamenta sul web. Sarà forse per questo che, come spiega l’ultimo Rapporto Censis sulla Situazione sociale del Paese 2012, in base a dati Aie, tra ebook, self publishing ed editoria più o meno a pagamento, a dicembre 2011 i titoli calcolati erano 19.884 a settembre dell’anno successivo quelli pubblicati sono balzati a quota 37.662 facendo registrare un incremento dell’89,4%, pari a 17.778 titoli in più? La bella cifra di 37.662, in nove mesi fa 4.185 titoli sfornati ogni mese, poco più di 15 titoli al giorno. Un’enormità. Dov’è il mercato?

La crisi in cui versa l’editoria libraria è attualmente davvero pesante. «Oggi meno di un italiano su due (il 49,7% della popolazione) legge almeno un libro all’anno – spiega il Rapporto Censis – con un calo rispetto all’anno precedente per la prima volta molto netto: -6,5%. Non era mai successo prima di scendere sotto la soglia del 50%». Di «consistente calo dei consumi del libro» parla anche l’Aie, l’Associazione editori italiani, che certifica con i dati Nielsen fino a ottobre scorso un -7,5% a valore, pari a 82 milioni di euro di spesa in meno nei canali trade (librerie tradizionali, catene di librerie, grande distribuzione e internet). Ma a fine marzo il mercato segnava -11,7 e -8,6 a inizio settembre. Dunque un lieve recupero, dovuto soprattutto ai piccoli e medi editori, «che rallentano meno del resto del mercato» sottolinea l’Aie.

Stando a quanto dice il sito di self-publishing per eccellenza, «nei quattro anni dalla nascita, il servizio è stato utilizzato da oltre 20 mila autori e scrittori che hanno creato, tra novità e nuove edizioni, più di 63 mila diversi titoli».

In genere gli Editori a pagamento organizzano anche piccoli concorsi letterari, raccolgono i manoscritti e poi contattano l’autore meritevole per la pubblicazione. Già, “meritevole”. Ma chi lo decide che lo è? Quale giuria e composta da chi? Per lo più non si sa. «Questi editori sono spesso indifferenti alle vendite, badano semmai alla tiratura, è li che guadagnano» dice il nostro editore che ci ha fatto da guida alla scoperta di questo nuovo mondo. «Non si curano della grafica, non correggono le bozze, la povertà editoriale è assoluta».

Spesso viene anche richiesto l’acquisto di un tot numero di copie (in genere 8) «di vostri libri editi dall’Editore al costo forfettario di € 99,00 da versare tramite bonifico bancario» e all’autore «non sarà riconosciuto nessun compenso per la vendita delle prime 30 copie vendute» si avverte. Però…, però al raggiungimento delle 150 copie vendute entro i primi 6 mesi (o 200 in 12 mesi) dalla pubblicazione all’autore viene offerta l’opportunità di realizzare il libro anche in formato ebook. «Ma senza intervento di correzioni delle bozze da parte dell’Editore» dice chiaramente l’avvertenza contrattuale reperita anch’essa sul web.

Nessuna traccia di prima tiratura, né di distribuzione, tantomeno di promozione, pubblicità e quant’altro. Dunque? Print on demand evidentemente. Cioè la stampa vera e propria del libro avverrà quando qualcuno ordinerà almeno una copia. «L’editore a pagamento in realtà è uno stampatore» ha bollato il fenomeno una volta Marco Polillo, presidente Aie. Ed è ciò che fa la differenza con un editore che rischia invece in proprio, credendo nel prodotto, curando il rapporto con l’autore, facendo l’editing, allestendo il prodotto, curandone la grafica, promuovendo la distribuzione del libro, sostenendone la distribuzione e dunque anche la promozione attraverso tutte le forme che si rendono disponibili, dalla pubblicità alle promozioni, alle recensioni sui giornali e in tv, ecc… Quello dell’editore è infatti un mestiere difficile, complicato e delicato, particolare. E che certo non si può improvvisare e, soprattutto, richiede competenze. Se poi si chiede pure un contributo all’autore, che in molti casi copre l’intero costo dell’edizione, che senso ha poi sostenere del libro anche la diffusione?

Casi letterari, poi, all’orizzonte non se ne vedono. Può scapparci ma finora è accaduto? Scrivere e pubblicare significa anche confrontarsi con gente esperta, che ti valuta e ti giudica, che ti corregge, ti suggerisce e ti migliora. La tua scrittura, le tue competenze. Certo, fa da filtro, come è giusto che sia. Per la legge che, nella vita, gli esami non finiscono mai. Ma oggi la società sembra arrivata a un punto di non ritorno: io mi giudico da me. Scrivo, dunque sono uno scrittore. Penso, dunque sono un pensatore. È la società del self made, del Mi son fatto tutto da me come cantava Giorgio Gaber. Dove non esistono più le mediazioni, tutto è in presa diretta.

È pur vero ad esempio che Umberto Saba nel 1911 pubblicò, a proprie spese, il suo primo libro Poesie o, ancora, Italo Svevo pubblicò sempre a proprie spese i primi due romanzi Una vita e Senilità. Anche quando ebbe una grande notorietà Marcel Proust si avvalse dell’Édition à compte d’auteur in quanto non tollerava ingerenze da parte dell’editore. Da ultimo, Federico Moccia, che è diventato un vero e proprio caso editoriale (e non solo) quando nel 1992 ha pubblicato a proprie spese la prima edizione di Tre metri sopra il cielo. Ed è pur vero che in un’intervista dello scorso agosto su la Repubblica, ad Antonio Gnoli che chiedeva «so che il suo primo romanzo ha avuto molti rifiuti», Andrea Camilleri ha confessato: «Sono dieci gli editori che dissero no. Alla fine ne feci una riduzione per una sceneggiatura televisiva e a quel punto un editore d libri a pagamento lo pubblicò in cambio di una pubblicità sui titoli di coda. Fu come togliere un tappo. Scrissi immediatamente il secondo romanzo che inviai a Garzanti, Un filo di fumo. E poi un saggio, la Strada dimenticata, che Elvira Sellerio pubblicò. Da allora passarono otto anni senza che io scrivessi più nulla». Eppure Umberto Eco nel suo Pendolo di Foucault se la prendeva proprio con gli Aps, gli Autori a proprie spese.

Chiosa Gian Arturo Ferrari, Presidente del Centro per il Libro e la Promozione della lettura istituito dal Consiglio dei Ministri, dopo aver guidato la Divisione Libri del Gruppo Mondadori dal 1997 al 2009: «L’editoria a pagamento è un fenomeno che è sempre esistito, è un editoria minore e non è che abbia un’incidenza rilevante sul mercato editoriale complessivo. In passato, devo dire, era condotta con criteri ancor meno trasparenti e tutto sommato accettabili di quanto non sia oggi. Trovo che oggi vi siano case editrici a pagamento che molto onestamente conducono il loro business. In sé e per sé non trovo nulla di male e di moralmente deprecabile nel fatto che qualcuno paghi per essere pubblicato, quelli che si fanno pagare per pubblicare basta che dichiarano che fanno questo mestiere e che non fanno gli editori». Poi aggiunge: «Vede, il mestiere dell’editore in inglese si chiama publishing, in italiano si dice editore che è una parola che ha poco significato, mentre publishing significa “rendere pubblico”, pubblicare. Allora dall’invenzione della stampa in poi il pubblicare è un’operazione che esige un investimento e l’editore è quello che realizza questo investimento. E lo realizza a beneficio di un signore che ha scritto un libro ma che non ha i capitali per renderlo pubblico. Bene, l’editore lo rende pubblico e naturalmente ne ricava i principali benefici economici, se questi ci sono. È la configurazione, diciamo così, classica dell’editoria. Quelli che invece fanno editoria a pagamento sono sostanzialmente poco più che dei tipografi, però dal punto di vista dei loro clienti, di chi si fan pubblicare i libri, hanno il vantaggio di avere un marchio editoriale, di fare un minimo o un massimo di lavoro redazionale, mettergli un po’ a posto il testo, di sapere quali sono gli aspetti tecnici della preparazione di un libro. Curano l’illusione di avere un libro pubblicato, perché c’è questa specie di pulsione di fondo di avere un libro pubblicato. Molte persone ci tengono, non so dirle se a ragione o a torto, però di fatto è così».

Ma tutto questo non rischia di danneggiare l’editoria in generale, gli altri editori classici? «Io non penso che l’editoria tradizionale sia come il Panda, cioè una specie che vada conservata dentro particolari parchi – risponde Ferrari – non penso che sia un’attività in sé e per sé virtuosa. È senz’altro un bel modo per campare, ed io per esempio c’ho campato una vita e sono molto contento, ma non penso che di per sé abbia una qualità superiore a quella di altre forme di attività umana. Quindi non vedo francamente come l’editoria a pagamento possa danneggiare quella tradizionale. Il problema è che sia fatta con chiarezza, con trasparenza. Che si sappia che tizio è un editore a pagamento, che non venga detto a dei poveri cristi i quali si rivolgono per vedere pubblicata la storia della loro adolescenza o le poesie o il romanzo che hanno scritto, insomma non gli venga detto che quello è il modo normale di pubblicare i libri ed è la stessa cosa dei libri di Italo Calvino. Basta che tutto ciò non gli venga detto e mi pare che sia una cosa che si può far benissimo. Se poi gli viene detto, allora questo configura – non so se da un punto di vista legale, ma certamente dal punto di vista sostanziale – una sorta di truffa, e come tutte le truffe non vanno bene perché sono truffe, non perché rovinano o inquinano la editoria cosiddetta “buona”».

Quindi nessuna differenza? «Ma è ovvio, è chiaro a tutti che un editore a pagamento non è un editore come gli altri – precisa il Presidente del Centro per il libro e la promozione della lettura presso Palazzo Chigi –, nel senso che gli editori che fanno gli editori in senso proprio sono una cosa completamente diversa. Quanto al fatto che non li curino il prodotto è quasi implicito nella struttura stessa di questo business. Un editore normale quando pubblica un libro investe del suo su quel libro, quindi ha tutto l’interesse a vedere il proprio investimento ritornare, un editore a pagamento quando pubblica un libro ha già ricevuto il ritorno del proprio investimento. E quindi non ha dal punto di vista generale nessun incentivo ad adoperarsi perché quel particolare libro venga diffuso, abbia successo e così via».

Ultima curiosità: come commenta il Rapporto Censis che tra dicembre 2011 e settembre 2012 registra un balzo di quasi 18 mila titoli? Un incremento dovuto ai titoli sfornati dall’editoria a pagamento e al self-publishing? «Vede, lei punta il dito su di un aspetto fondamentale, che è poi il criterio con cui si calcolano e vengono conteggiate titoli e copie. Il libro in sé e per sé non vuole dire niente. Nessuno sa veramente quanti libri vengono pubblicati. Innanzitutto la grande distinzione è tra libri che vengono realmente pubblicati e che sono dotati di un Isbn, un codice a barre, o libri che sono stampati ma poi non risultano pubblicati» dice Gian Arturo Ferrari.

Possibile? «Possibile. Oltre tutto la definizione stessa di libro è un concetto molto labile, perché per esempio il Manuale di uso di una lavatrice è un libro o non lo è? Dipende dai punti di vista, ci sono buoni motivi per ritenere che sia valida una tesi che l’altra. Comunque uno sbalzo così forte come quello che lei cita non può essere – non so quale sia la fonte a cui ha attinto il Censis – ma non può essere considerato. Il numero di libri nuovi generalmente stimato è abbastanza stabile e in Italia è nell’ordine di 35.000-40.000 nuovi titoli l’anno. Che non è, contrariamente a quel che i più sostengono, un numero troppo alto. In media il numero di novità librarie in un paese evoluto – puntualizza Ferrari – è un millesimo della popolazione, una regola per così dire generale. Se questo numero scende molto sotto, vuol dire che qualcosa non va nel sistema culturale di un paese. L’illusione per la quale sarebbe meglio che venissero pubblicati pochi libri, e solamente quelli buoni, è per l’appunto un’illusione. Nel senso che la distribuzione è sempre uguale».

Quindi lo sbalzo indicato dal Censis non è credibile. «O è un errore o comunque non ha fondamento. In ogni caso i libri pubblicati a pagamento non c’entrano. Io non ho idea in realtà di quanti siano in un Paese come l’Italia, ma penso che non siano molti: stiamo parlando di cifre abbastanza ridotte, credo. Poi ci sono i libri che non sono in commercio, ci sono quelli che sono pubblicati e non hanno l’Isbn, quelli pubblicati, che non hanno l’Isbn e non sono nemmeno in commercio, e poi ci sono quelli che sono libri ma anche no: un orario ferroviario è un libro per esempio? Sono cose complicate…».

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