Giovanni Pascoli, il papà degli italiani

 

Se si vuol capire qualcosa intorno ai sentimenti che corrono forse non è improprio leggere queste parole lette e ascoltate un secolo fa.

“La grande proletaria si è mossa” (…) “Il mondo guarda attonito o nasconde sotto il ghigno beffardo la sua meraviglia. – La Nazione proletaria, la nostra fornitrice di braccia a prezzi ridotti, non aveva se non il piccone, la vanga e la carriola. Queste le sue arti, queste le armi sue: le armi, per lo meno, che sole sa maneggiare, oltre il coltello col quale partisce il pane e si fa ragione sulle risse. Si diceva bensì che era una potenza; e invero aveva avuto un cotal risveglio che ella chiama risorgimento. Qual risorgimento? Dalla
vittoria d’un benefico popolo alleato aveva ottenuto Milano; da quella d’un altro, Venezia. In un momento che questi due alleati si battevano fieramente tra loro, ella aveva ghermito Roma. Così la nazione era risorta. E risorta, volendo dar prova di sé, era stata vinta da popoli neri e semineri. E ora … –
Ecco quel che è accaduto or ora e accade ora.

Ora l’Italia, la grande martire delle nazioni, dopo soli cinquant’anni ch’ella rivive, si è presentata al suo dovere di contribuire per la sua parte all’umanamento e incivilimento dei popoli; al suo diritto di non essere soffocata e bloccata nei suoi mari; al suo materno ufficio di provvedere ai suoi figli volenterosi quel che sol vogliono, lavoro; al suo solenne impegno coi secoli augusti delle sue due Istorie, di non esser da meno nella sua terza era di quel che fosse nelle due prime; si è presentata possente e serena, pronta e rapida, umana e forte, per mare per terra e per cielo.

Nessun’altra nazione, delle più ricche, delle più grandi, è mai riuscita a compiere un simile sforzo”. (…) “Chi non ha visto qualche volta i nostri bei ragazzi armati dividere la gamella e il pan di munizione con qualche vecchio povero? Chi non ha visto qualche volta uno dei nostri cari fanciulloni soldati con un bambino in collo? Chi non li ha visti accorrere a tutte le sventure, prestarsi a tutte le fatiche, affrontare tutti i pericoli per gli altri? Ora ecco che in pochi giorni sono divenuti masnadieri …
Sì: noi sorrideremmo se l’accusa, per quanto assurda, ma immonda, non toccasse ciò che abbiamo di più caro e di più sacro. Hanno detto, rivolgendosi al tuo esercito, turpi parole contro te, o pura o santa madre nostra Italia! Per quanto elle non giungano all’orlo della tua veste, noi non possiamo perdonare, o madre d’ogni umanità, o madre tanto forte quanto pia!

Noi ce ne ricorderemo. Ricorderemo che voi, o stranieri, avete voluto prestare i fermenti di barbarie che forse ancora brulicano nel vostro cuore, al popolo che con San Francesco rese più umano, se è lecito dirlo, persino Gesù Nazareno; che coi suoi soavi artisti fece dell’inaccessibile cielo una buona tiepida raccolta casa terrena piena d’amore; che col Beccaria abolì la tortura; che, quasi solo nel mondo, non ha più la pena di morte; che in Garibaldi ebbe un portentoso guerriero che odiava la guerra e preferiva la vanga alla spada e piangeva sul nemico vinto e sceso dal trono e perdonava al suo tortòre e non faceva distruggere un campo di grano, dove i nemici potevano nascondersi, perché il grano era quasi maturo e vicino a divenir pane”.

È il 21 novembre 1911 quando Giovanni Pascoli legge queste parole nel Teatro comunale di Barga (gli italiani le leggeranno sul quotidiano “La Tribuna”, alcuni giorni dopo, per la precisione il 27 novembre). È il discorso in cui si delinea non solo la dimensione dell’“Italia piccola” (che ha bisogno di raccontarsi la propria oppressione da parte di forze del Male), ma è soprattutto il luogo retorico in cui si costruisce tutto il pantheon di immagini, di parole, di figure e di scene del “riscatto nazionale”. Un crogiolo che avrà lungo corso nella storia italiana sia nella retorica della “vittoria mutilata”, sia nella autorappresentazione di noi italiani in questo secondo dopoguerra: nella ricca galleria di “italiani qualunque” che costituiscono l’autoritratto complesso della “commedia all’italiana” in cui eccelleranno i grandi interpreti del cinema popolare che accompagna l’Italia della Ricostruzione e poi del boom, ma anche quella che si consegna ai feuilleton cinematografici attuali. Ovvero i cinepanettoni di Natale.

Forse può sorprendere che sia Pascoli a dare forma a questa retorica. Una figura che nel nostro immaginario è rimasta come il cantore del villaggio, il versificatore di Myricae, la raccolta di versi in cui si concentrano le tematiche della morte (su cui pesano i lutti privati di Pascoli) ma soprattutto quelle del mondo del villaggio piccolo, della natura agreste.

Ma non casualmente dovremmo prestare attenzione a questo fatto ovvero che è proprio quella poetica che ha in Pascoli la sua figura essenziale (anche se non la sola e unica) a spiegarci molti lati di ciò che chiamiamo “carattere italiano”. Una poetica che sempre troverà ampio spazio nella retorica del “poveri ma belli” (rinforzata da quella per certi aspetti contigua e omologa proposta da Giovanni Guareschi) ma anche in quella, che avrà molta fortuna nella cultura diffusa della sinistra italiana, del “fatalismo storico” che fa dire nei momenti della sconfitta non solo che domani andrà meglio. Non è questo il significato di “Addavvenì Baffone!”?), che “la storia lavora per noi”, che non c’è niente da cambiare e che alla fine la nostra fedeltà a ciò che siamo oggi ci riscatterà della nostra attuale miseria (una delle cause non ultime della debolezza del riformismo nella mentalità della sinistra italiana, una cultura che vive non sul principio della moderazione, bensì su quello che se sconfitti, si indaga sui propri deficit e si cambia).

È Giovanni Pascoli, questa figura spesso tralasciata e trascurata della letteratura italiana perché considerato cantore del mondo piccolo che è determinante, nel corso del Novecento, nella costruzione dell’immaginario collettivo degli italiani. Il tema è il riscatto della nazione reietta, il diritto a che gli altri riconoscano che anche l’Italia vale qualcosa, che non è plebe dispersa.

I toni e le parole di quel discorso hanno lavorato nel sottofondo della cultura italiana tanto da rimanervi. A lungo quel testo non è stato considerato come un testo di letteratura civile – a suo modo – come un luogo mentale dell’identità nazionale. Giustamente Vittorio Vidotto lo ha ricompreso nella antologia che lo rende un documento non solo della storia nazionale, ma anche un prototipo della retorica e della lingua dei nazionalismi del primo Novecento includendolo nella opera da lui diretta Atlante del Ventesimo secolo (Laterza) da poche settimane in libreria (per la precisione si trova nel primo volume, quello che copre gli anni 1900-1918 alle pagine 173-177).

È un testo che dice molto della retorica che ancora in questi giorni gira con facilità tra noi e che ha cittadinanza in chi si fa portavoce del fatalismo, ma anche in chi rivendica uno spazio politico proclamando progetti di secessione. E in cui si scopre alla fine che non è Carlo Cattaneo il grande ideologo del carattere degli italiani (da Gemonio a Lampedusa) ma, appunto, Giovanni Pascoli, il cantore delle plebi in marcia per il riscatto e la conquista del proprio “posto al sole”.

Pubblicato su Linkiesta.it, 22/11/2011.

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