In Egitto poche ragioni per essere ottimisti

La transizione politica che l’Egitto sta attraversando continua a svilupparsi attraverso una serie di eventi in gran parte sorprendenti e imprevisti. Negli ultimi cinque mesi abbiamo assistito all’elezione di un presidente i cui poteri sono stati in larga misura invalidati da una Dichiarazione Costituzionale del Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF), poi abbiamo visto l’assoggettamento da parte del presidente Morsi dell’establishment militare egiziano, dal quale egli ha acquisito poteri esecutivi e legislativi senza precedenti, il suo incontrovertibile successo in ambito internazionale come mediatore in occasione dell’ultima crisi di Gaza, la sua Dichiarazione Costituzionale che mirava a porlo al di fuori anche del controllo della magistratura, e infine (per ora!) abbiamo assistito all’oltremodo accelerata approvazione della bozza della nuova Costituzione, che sarà sottoposta a referendum nel lasso di tempo straordinariamente breve di appena quindici giorni.

Questi ultimi due avvenimenti, in particolare, hanno evidenziato un crescente contrasto tra la mano pesante con cui il presidente Morsi ha sfruttato i suoi amplissimi poteri (e la maggioranza di controllo che i partiti islamisti possiedono all’interno dell’Assemblea Costituzionale) e una base politica non molto ampia, oltre che probabilmente meno solida di quanto appaia.

Morsi cala nei consensi

Mohamed Morsi è stato eletto presidente della Repubblica Araba d’Egitto tra il 16 e il 17 giugno del 2012, dopo aver spuntato alle elezioni una risicata maggioranza pari al 51,73% del voto popolare. Il suo avversario, Ahmed Shafiq, era un ex ufficiale dell’aeronautica, ministro sotto Mubarak e nominato premier dal Consiglio Supremo delle Forze Armate nel periodo di transizione: si trattava quindi di un personaggio che difficilmente avrebbe potuto attirare le preferenze degli elettori liberali e progressisti.

Al primo turno di quelle stesse elezioni presidenziali, però, Morsi aveva ottenuto solo il 25% dei voti, mentre un altro candidato islamista più moderato, Abd el Moneim Abd el Foutouh, aveva conquistato un 18%. I tre principali candidati laici (Shafiq, Sabbahi e Amr Mussa) avevano ottenuto nel complesso il 57% dei voti.

Questi pochi dati portano alla conclusione che malgrado Mohamed Morsi, avendo avuto la meglio al secondo turno, si sia aggiudicato legalmente la carica di presidente dell’Egitto, la sua personale base politica tra chi effettivamente ha votato è esigua (solo il 25% al primo turno!); e ancora più esigua sarà da considerare in riferimento all’elettorato nel suo complesso, dal momento che solo il 43,4% degli elettori si è dato la pena di recarsi a votare (a fronte del 54% delle precedenti elezioni parlamentari che si sono tenute a novembre 2011 e gennaio 2012).

Gli islamisti in difficoltà

Nelle elezioni parlamentari i tre principali movimenti islamisti (il Partito Libertà e Giustizia ispirato dalla Fratellanza Musulmana, il Blocco Islamista che rappresenta prevalentemente i salafiti e il più moderato al-Wasat) avevano ottenuto nel complesso uno schiacciante 69% dei voti. Questo impressionante risultato rispecchia di certo il fatto che la popolazione egiziana è comunemente considerata una delle più religiose al mondo [1].

L’innegabile successo ottenuto dai partiti islamisti in occasione delle prime libere elezioni è dipeso anche dalle divisioni e dalla carenza di leadership che affliggevano i partiti laici, a fronte dell’ottima struttura organizzativa della Fratellanza Musulmana e del supporto finanziario da terzi che pare essa abbia ricevuto dall’esterno, oltre che dei movimenti salafiti. Ma questo non significa necessariamente che l’Islam politico rappresenti la maggioranza dei votanti, e ancor di meno che la costituisca nell’elettorato e nella società in generale.

È un dato di fatto che nel primo turno delle elezioni presidenziali i due candidati islamisti (Morsi per il PLG e il più moderato Abd el Foutouh) hanno ottenuto solo il 43% dei voti: una perdita di oltre cinque milioni di preferenze, se paragonato al risultato delle elezioni parlamentari di sei mesi prima.

Secondo uno studio pubblicato dal Pew Research Center a maggio del 2012, malgrado la maggioranza degli egiziani sostenga che la religione ricopre un ruolo importante nella politica del Paese, la percentuale di coloro che ritengono tale ruolo negativo è passata dal 2% del 2010 al 25% del 2012.

Il pericolo di una contraddizione politica

La contraddizione esistente tra l’autoaffermazione del presidente islamista e i limiti del supporto elettorale su cui possono contare lui e i due principali partiti islamisti (il PLG e il Partito Nour salafita) sta iniziando a emergere, e appare potenzialmente pericolosa, non solo per il ruolo del presidente, ma anche per la stabilità del Paese.

Piazza Tahrir – che negli ultimi due anni aveva visto così tante manifestazioni contro il presidente Mubarak e dopo di lui contro lo SCAF – è ora scenario di massicce manifestazioni contro il primo presidente democraticamente eletto. Ma quel che è più preoccupante, stiamo assistendo a scontri tra gruppi islamisti e laici in diverse regioni del Paese, ad assalti alle sedi della Fratellanza Musulmana e alle inevitabile rappresaglie che ne conseguono. Nonostante tali nuovi fenomeni siano stati finora relativamente contenuti, è innegabile che le azioni del presidente Morsi abbiano diviso e polarizzato la nazione.

È difficile credere che l’approvazione della nuova Costituzione, se mai ci sarà, possa dirimere queste crescenti tensioni. La legittimità dell’Assemblea Costituzionale è in dubbio fin dal suo insediamento, le riunioni sono state disertate da più di un quarto dei suoi membri come forma di protesta contro il predominio islamico, le sessioni di discussione sono rimaste discontinue per settimane, fino alla definitiva approvazione del testo a cui ci si è affrettati a giungere con una sessione durata una notte intera. Oltretutto il referendum è in larga misura percepito come un “dilemma del diavolo” che prevede o l’approvazione della bozza così com’è ora oppure il prolungamento a tempo indeterminato dei poteri eccezionali che il presidente Morsi si è “provvisoriamente” attribuito con l’ultima Dichiarazione Costituzionale.

D’altro canto, una bocciatura della Costituzione in occasione del referendum non alleggerirebbe affatto le tensioni, ma al contrario lascerebbe l’Egitto in un duplice vuoto. Un vuoto istituzionale dovuto alla mancanza di una Costituzione, di un’Assemblea Costituzionale e di un Parlamento. E un vuoto politico, perché ciò significherebbe una dura sconfitta per la presidenza, l’unica istituzione politica ancora esistente in Egitto.

L’altra conseguenza delle recenti iniziative del presidente Morsi è quello che sembra un inizio di cooperazione tra le forze di opposizione. Nei primi giorni di dicembre si è assistito alla costituzione di un Fronte Nazionale che riunisce decine di movimenti e partiti dell’opposizione, sia piccoli che grandi. Tra i suoi principali leader ci sono Mohamed el Baradei, Hamdeen Sabbahi e Amr Mussa. Il Fronte include esponenti di tendenze politiche molto diverse tra loro: riformisti e conservatori, liberali e socialisti/nasseriti, laici, islamisti moderati e cristiani copti. In virtù di questa sua caratteristica, esso incarna la difficoltà per l’opposizione (o le opposizioni) di costituire al momento attuale un’alternativa politica alla Fratellanza Musulmana. Ma al tempo stesso rappresenta una porzione molto ampia dell’opinione pubblica egiziana, forse la maggioranza, e potrebbe comunque avere il potere di mandare a monte l’unilaterale tentativo della Fratellanza di accaparrarsi la supremazia.

Al momento sembra ci siano ben poche ragioni di essere ottimisti. Un passaggio alla democrazia richiederebbe un approccio politico inclusivo capace di prendere in considerazione gli interessi e le aspirazioni di tutti i principali attori della scena egiziana. E un approccio politico del genere dovrebbe essere garantito da un bilanciamento di poteri e dallo stato di diritto.

Nessuna di queste alternative sembra praticabile, e si iniziano ad avvertire segnali di preoccupazione da parte dell’establishment militare che teme di trovarsi ancora una volta nella posizione di ultimo garante rimasto di un’autorità politica ormai screditata.


[1] l’Egitto è risultato “il Paese più religioso del mondo” da un sondaggio Gallup condotto nel 2008. Il 100% delle persone intervistate ha dichiarato che “la religione svolgeva un ruolo rilevante nella loro esistenza”.

(Traduzione dall’inglese di Chiara Rizzo)

Immagine: Piazza Tahrir (foto di Gigi Ibrahim, cc)

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