Può funzionare il “monocolore Dc”, ma occhio alle vecchie volpi

Il governo Letta-Alfano nasce con la ragionevole ambizione di chiudere la transizione politico-istituzionale iniziata nei primi anni Novanta. Nelle premesse, al di là delle apparenze, si propone di dare allo sgangherato bipolarismo nato nella contrapposizione tra berlusconiani e post-comunisti quello che finora è mancato: un senso di condivisione di fondo sui valori della Repubblica e dell’interesse nazionale; un reciproco riconoscimento tra le principali forze politiche; regole istituzionali che sanciscano il passaggio definitivo a   una democrazia maggioritaria in cui chi vince governa. Obiettivi per niente in contrasto. Una bella e nobile impresa di cui si discute da tempo e i cui nodi sono ben noti.

Nel 2004, con Stefano Ceccanti, abbiamo curato un libro per il Mulino che aveva proprio questo titolo (Come chiudere la transizione?) con contributi anche dell’attuale ministro per le riforme, che credo non richiederebbe d’essere riscritto. Peccato che nel frattempo il volume sia esaurito.

Non è un paradosso e non è un’iperbole dire che questa impresa ambiziosa sia stata messa nelle mani di un monocolore Dc. Lasciatelo dire senza sarcasmo a chi non è mai stato democristiano e si è sempre battuto per un chiaro sistema di alternanze.

La Dc costituisce la cultura della mediazione, ma anche il tessuto connettivo retrostante all’attuale esecutivo. Le figure politicamente più eminenti (Letta, Franceschini, Alfano, Lupi) vengono dalla stessa scuola. Quagliariello ha un passato radicale. Ma suo padre era figura di spicco della corrente morotea. Una eredità che da qualche tempo rivendica.

Personalmente non escluderei che lo stesso Presidente della repubblica ne sia rassicurato. E la lettura della sua biografia politica tracciata da Paolo Franchi per Rizzoli (in particolare il capitolo sulla solidarietà nazionale) corrobora la congettura.

Le personalità emergenti beneficiate di un ministero, non a caso valorizzate dai rispettivi leader, la Dc l’hanno frequentata o ne sarebbero sicuramente parte se nel frattempo il campo di gioco non fosse cambiato (Lorenzin, Di Girolamo, a cui si aggiungono i Letta boys che certamente avranno un ruolo rilevante davanti o dietro le quinte).

Sono invece scomparsi o ridotti a comparse i kamikaze berlusconiani, le ragazze del clan, così come i tutori dell’ortodossia della ditta bersaniana, insieme alle big beasts of the jungle (si sarebbe detto nel lessico dell’era thatcheriana) Pd e Pdl. Nella Dc o come espressione del pentapartito avremmo trovato a loro agio “tecnici” come Saccomanni, Moavero o Cancellieri. L’unica figura dissonante pare la Bonino che però in questo governo, se ne può essere certi, assumerà la postura della riserva della Repubblica, più grand commis dello stato che capo politico dei radicali.

Le premesse per raggiungere il risultato ci sono. Con un unico rischio. Che la virtù democristiana portata all’eccesso si ritorca in vizio. Che questo non sia o non sia percepito come il governo che ci porta verso la Terza Repubblica ma quello che ci riporta nella Prima. Che i secondi diventati primi, oggettivamente, senza meriti elettorali (Letta va a Palazzo Chigi mentre Bersani di cui era vice torna a Bettola; Alfano si avvantaggia della impresentabilità di un leader che non è riuscito a sostituire) provino con questo gioco di prestigio a darsi un ruolo che non sono riusciti a conquistare sul campo. Che la preferenza accordata a figure vicine e amichevoli ma ben poco sperimentate si riveli un flop di fronte ai problemi non lievi che dovranno affrontare.

Le bestie più forti della giungla politica non aspettano altro, anche perché buona parte dei loro elettori, per ragioni comprensibilissime e del tutto legittime, hanno imparato a diffidare del bipolarismo selvatico e inconcludente almeno quanto dei network trasversali costruiti dietro le quinte.

Articolo uscito sul quotidiano Europa il 29 aprile 2013

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