C’era una volta la Gabanelli
I limiti della democrazia diretta

«Uno vale uno» è il mantra della stagione politica in corso. La politica deve aprirsi alla partecipazione, trovare nuove vie per ascoltare i cittadini, i referendum sono l’iper-democrazia nella quale tutti decidono. Un ritornello che protagonisti e commentatori hanno imparato a maneggiare sempre più spesso, cimentandosi in canti e critiche di quella che prende il nome di democrazia partecipativa o democrazia diretta, come fossero sinonimi.

Ovviamente, lo spazio della neo-democrazia è il web che la retorica millenaristica di Casaleggio vuole in qualche decennio frontiera finale della storia mondiale.

Ma di quale partecipazione si parla? Prendiamo le Quirinarie che hanno aperto la scelta dei candidati del M5S alla presidenza della repubblica a una platea di poco meno di 50mila militanti: si sono selezionati i partecipanti, si è offerta la possibilità di contribuire ad una decisione (la scelta dei candidati) e si è scelto un mezzo per raccogliere le risposte (il web, ovviamente). L’esito della consultazione è stato chiaro: Milena Gabanelli. Una bravissima giornalista, amata da molti per la sua capacità di realizzare programmi d’inchiesta di prima qualità, ma che c’entra con il Quirinale? Secondo arrivato un famoso medico, Gino Strada, fondatore di Emergency giustamente apprezzato per il suo lavoro in territori di guerra ma che ha dichiarato che «si occupa d’altro e al Colle non ci vuole neanche pensare».

Al netto di tutti i più che legittimi dubbi sulla fragilità e trasparenza del meccanismo di voto messo in piedi da Grillo e Casaleggio, quel che non convince è proprio l’idea di partecipazione che c’è dietro. Ammettiamo pure che tutto sia filato liscio, che l’attacco hacker sia stato un caso, che la trasparenza sia assodata, quale democrazia si mostra nelle Quirinarie e, qualche mese fa, nelle Parlamentarie?

Il modello democratico espresso da questo genere di partecipazione alle scelte pubbliche rischia di confondere la tecnica con il fine, come se l’obiettivo finale non sia tanto quello di produrre scelte migliori in quanto riflettute e condivise, ma di esibire la partecipazione come una buona pratica a prescindere dai risultati. Sarà un caso che i primi due arrivati hanno preferito rinunciare alla candidatura? Non sarà un meccanismo di democrazia diretta come quello del M5S non aiuta a scegliere il meglio e l’adeguato? La questione è complessa e la confusione sembra diffondersi a macchia d’olio.

«I militanti di 5 Stelle preconizzano l’immissione nella democrazia rappresentativa di esperienze sempre più estese di democrazia deliberativa, diretta». Così scriveva ieri Barbara Spinelli su Repubblica. Ma di democrazia deliberativa, nei tentativi a cinque stelle, non se ne vede nemmeno l’ombra. Innanzitutto perché “democrazia deliberativa” e “democrazia diretta” non sono sinonimi. Non si tratta infatti di aprire semplicemente il microfono e lasciare che cittadine e cittadini possano esprimersi, mandare una mail con il nome del proprio candidato presidente scelto secondo la propria inclinazione, simpatia o gusto estetico.

Nella democrazia deliberativa il focus è sul processo e non sul risultato. Deliberation è, in lingua inglese, il momento della discussione che precede la decisione, non tradisca l’uso italiano della parola (che rappresenta invece il momento in cui una decisione viene approvata e ratificata). Il modello deliberativo prevede tutta la fatica della democrazia, il lavoro di trovare informazioni, di ascoltare le varie opzioni in campo, di avere il coraggio di argomentare le proprie posizioni di fronte agli altri.

Una fatica che le sperimentazioni democratiche non possono far finta di ignorare e che, quando messe in campo, producono risultati confortanti, sia per i partecipanti che per i decisori. Guardate ad esempio il deliberative forum realizzato dalla scuola di formazione politica del Pd Cortona, quando un centinaio di persone si confrontarono e dialogarono con esperti di politiche del lavoro dandosi la pena di migliorare la propria competenza prima di esprimersi. Innovazioni come queste, ispirate dalla democrazia deliberativa (non diretta, né semplicemente partecipativa), chiedono a partiti e movimenti di aprire il microfono innanzitutto per esprimere più chiaramente quello che hanno da dire, evidenziare quanto complesse possono essere certe scelte e poi lasciare che le persone si esprimano. Altrimenti, possiamo riempirci la bocca di partecipazione, ma sarà la solita vecchia canzone che la politica, di qualsiasi partito e movimento, canta e suona tutta per sé.

Questo articolo è uscito su Europa il 18 aprile 2013.

  1. E’ un grande piacere leggere un articolo che informa,spiega,in modo piano,chiaro e intelligente su di un argomento che di solito iene trattato esattamente in modo opposto! Si ha tanto bisogno di opinioni, non di risse e urla.

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