LA GUERRA DEI TRENT'ANNI

Lo Sguardo

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Osservazioni (provocatorie) sul progressismo e sulle unioni omosessuali

Scorro le notizie dei giornali, e sulla maggior parte di essi campeggia l’immagine del primo matrimonio omosessuale francese. L’evento segue di pochi giorni alla vittoria a Cannes del film “La vie d’Adèle”, allo sconvolgente gesto di Dominque Venner, sparatosi – neppure Dan Brown l’avrebbe pensata, questa – sull’altare di Notre Dame, nonché ad accese discussioni in tutto l’Occidente sul tema dei “diritti” alle coppie omosessuali.

Sono molti oramai i Paesi che contemplano nel loro ordinamento giuridico coppie dello stesso sesso, e anche l’Italia sembra che sia in procinto di prendere provvedimenti in questo senso. Un passo che molti, facendo leva su un discutibile ma inveterato mix di (teleo)logica progressista e illuminismo moral-laicista,  definiscono un progresso, rafforzando non di rado i loro argomenti con puntellamenti emozionali degni del peggior populismo – vedi la lettera a Repubblica del diciassettenne omosessuale – o con i soliti ammonimenti italioti sull’arretratezza istituzionale del Belpaese e sulle ingerenze della Chiesa nella nostra società.

Chi scrive è di vocazione intrinsecamente liberale, ma crede che la parola “progresso” sia  un’espressione che tocca solo la superficie – e mai il cuore – di quel ben più complesso fenomeno che chiamerei mutamento; e ciò perché quest’ultimo, a differenza di un mero progresso lineare, è una modificazione strutturale dell’essenza storica di un fatto, una riconfigurazione che, per esser compresa, va colta in quel lungo iter di passate modificazioni che l’oggetto in divenire raccoglie e finalizza nella metamorfosi che costantemente compie. Pur trovando il tema di assoluta rilevanza, e ritenendo quindi atti doverosi tanto la lotta all’omofobia quanto il riconoscimento giuridico di coppie diverse da quelle eterosessuali, trovo davvero fuorviante approcciare simili questioni sotto la categoria, assai inadeguata, del “progresso”.

Al di fuori della logica del progresso il porre in essere un qualche tipo di legislazione riguardante le coppie omosessuali non rappresenta, a mio modesto parere, un atto intrinsecamente doveroso, come se questo costituisse di per se stesso un valore distinguibile da una peculiare e contingente forma che desideriamo imprimere alla nostra cultura; così come non costituisce in sé e per sé l’avanzamento nel cammino che ci divide da una società utopica, bensì una trasformazione dell’ecosistema in cui viviamo in funzione dell’architettura stessa che vogliamo imporre alle nostre relazioni interpersonali. L’adozione di questo tipo di provvedimenti, al contrario, è e deve essere una ragionata e ben precisa scelta – politica, culturale, sociale – nata dalla lucida e motivata constatazione di un dato di fatto, di una necessità – direi quasi ergonomica – che la struttura paradigmatica della società odierna manifesta da un punto di vista crudamente storico.

Nessuna rottura epocale, nessuna rivoluzione culturale che guarda al passato con indignazione, ma solo una sobria, pura e semplice presa d’atto che alcune strutture antropologiche fondamentali hanno preso una differente conformazione e che questa conformazione richiede, per la sua dinamica interna e per il suo equilibrio costitutivo, una differente distribuzione – diciamola così – del peso complessivo. Se poi fossi interpellato sulle necessità e le ragioni più profonde di questa riconfigurazione, dovrei senz’altro ricordare quale mutamento antropologico-politico a lungo termine abbia avviato l’edificazione, in piena epoca moderna, di quella società enciclopedica e post-metafisica di cui siamo i diretti eredi, e di cui il nostro attuale concetto di persona è frutto; ma qui entrerei in beghe genealogiche che non ho l’intenzione – né la possibilità – di toccare in questa sede, e che tuttavia, secondo me, fanno davvero scienza delle questioni in discussione.

Viceversa, mi appare che il discorso in materia sia spesso profondamente semplificato, e costantemente inquinato da una serie di argomentazioni inappropriatamente ideologiche, che portano a  confondere e fuorviare il discorso, additando al tempo stesso come “omofobo” ogni tentativo di assegnare al cambiamento precise coordinate.

Se il reazionarismo non rappresenta mai una soluzione e la tragedia di Notre Dame è prima culturale e poi umana, va detto anche che non è sufficiente affidarsi alla troppo facile retorica del cambiamento, così come non basta dileggiare e abbandonare strutture passate brandendo il mutamento come un feticcio, per dire e fare scelte appropriate. Nello specifico, ad esempio, pubblicare (non scrivere ma pubblicare) l’appello di un diciassettenne omosessuale – vero o falso che sia – sulla prime colonne del maggiore quotidiano nazionale è un atto di superficialità e di inconsapevolezza storica, là dove pone alla base del dibattito su materie tanto delicate categorie antropologiche di tipo elementare, quasi primitive, che dinnanzi alla strutturale complessità della faccenda appaiono profondamente inadeguate, schiacciano su un solo piano problemi che andrebbero trattati isolatamente  e paradossalmente pescano a piene mani nel medesimo immaginario – quello della famiglia, dell’infanzia, dell’identità sessuale – a cui attinge proprio il reazionarismo omofobo.

Ne è prova, a mio parere, la risposta fornita in quanto donna e non in quanto Presidente della Camera da Laura Boldrini, che, allineandosi al tono sensazionalistico della comunicazione di Repubblica, è costretta a rinunciare in buona parte alla dimensione politica della replica, che invece esigerebbe, e ancora secondo me reclama, tutto il suo ruolo istituzionale. Allo stesso modo, scrivo a poche ore dal tragico gesto del ragazzo romeno che, nell’impossibilità di vivere serenamente la sua omosessualità, ha tentato di togliersi la vita a Roma. Con il massimo rispetto e senza voler negare in alcun modo il dramma di chi è vittima dell’omofobia, né tanto meno le gravi responsabilità che le discriminazioni di questo tipo hanno riguardo all’accaduto, mi chiedo se il messaggio così fortemente emozionale lanciato dal quotidiano – che non a caso, già nell’apertura della lettera, accennava proprio al suicidio – non abbia contribuito a rendere il dolore del giovane meno elaborato e lucido, meno articolato e riflettuto, e pertanto più lancinante e tragico.

Un risultato più generale di questo approccio semplificazionista al problema è infine quello di una mescolanza indistinta di più questioni, inerenti rispettivamente piani differenti e deprivate del loro reale significato. Ha tristemente ragione Vittorio Sgarbi laddove sottolinea che quando, nel tentativo di rivendicare un diritto più strutturale di quello di sola unione, le persone omosessuali richiedono il matrimonio, pretendono di maneggiare un’istituzione arcaica, quella della famiglia, dalla quale probabilmente le prossime generazioni chiederanno di essere liberate, o che comunque è destinata a sopravvivere solo se capace di articolarsi in funzione di ritmi sociali ed esigenze culturali differenti da quelle su  cui è ancora oggi poggiata. Quella che residua sul fondo di questa richiesta è d’altra parte una visione sostanzialmente astorica – o comunque storica in un’accezione deformante della storicità stessa – che appiattendo il tema della parità su quello del diritto e interpretando il piano del diritto in senso esclusivamente astratto, non si rende conto della sua paradossalità costitutiva.

Una paradossalità prima di tutto logica, poiché mira a forzare l’unione omosessuale in una forma non sua, irreversibilmente strutturata in senso paneterosessuale, e poi storica, giacché non comprende (addirittura Sandro Bondi l’ha rimarcato) che il matrimonio non è un diritto – in alcun modo – ma piuttosto una prassi con una ben precisa identità storica, che sigla un dovere tra precipue tipologie di individui. Una consuetudine ben differente dalla semplice costituzione di un nucleo parentale da parte di due persone, una prassi che giunge a siglare l’avvenimento di un fatto già accaduto e rispetto alla quale non ha molto senso esibire un diritto di accesso.

Insomma, qui si stanno discutendo questioni estremamente serie, che necessitano ponderazione. Con la retorica del “finalmente” si ha forse l’illusione di andare “avanti” pur non andando in una direzione precisa e consapevole, e non è di certo sulla scorta di un’emotività più generica che generale che il problema va affrontato e risolto.

Ciò tuttavia – lo sottolineo – non significa che non vadano individuati e posti in essere, al più presto e con il massimo sforzo di tutte le parti, gli strumenti adatti a un riconoscimento giuridico e anche sociale delle coppie dello stesso sesso e dei nuclei parentali costituiti intorno ad esse. Strumenti, come una ben legiferata unione di fatto o una tipologia di unione familiare, differente da quella eterosessuale ma convergente con essa sui diritti fondamentali, che siano davvero in grado di appartenere al tempo in cui ci troviamo; un tempo che dobbiamo costruire nel modo più solido e duraturo, e che ha bisogno di riflessione e intelligenza, dato che si nutre fin troppo di clamore.

Simone Guidi | @twsguidi

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