THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

Un referendum sull’euro per rilanciare l’Europa

E se lo facessimo sul serio un referendum sull’Euro? Un referendum almeno di “indirizzo” come lo fu quello promosso nel 1989 dal Movimento Federalista sulla trasformazione della Comunità Europea in Unione? E se fossero, come allora, gli europeisti – quelli tra di loro più modernamente convinti che l’Europa non ha alternativa e che però necessita di cambiare rotta per funzionare – a proporlo? Per sfidare Grillo e Berlusconi sul terreno del consenso, uscendo dalla difesa del fortino di istituzioni ormai logore? Per convincere i cittadini ad informarsi sui costi e sui benefici di un’unione monetaria che pesa sulle quotidianità di tutti? Per costringere i politici ad abbandonare il doppio gioco di usare l’Europa come capro espiatorio di tutti i problemi, dopo aver assunto a Bruxelles con i propri colleghi le stesse decisioni (o non decisioni) che criticano poi di fronte ai propri elettori a Roma?

È evidente che un referendum sull’Euro presenterebbe – insieme al merito di fare chiarezza in un dibattito assai confuso e strumentale – problemi legislativi e rischi significativi.

I costituzionalisti non hanno dubbi sul fatto che l’articolo 75 della Carta non preveda consultazioni che autorizzino l’adesione dell’Italia a trattati internazionale o abroghino disposizioni che vi conseguano. Esistono, tuttavia, dei precedenti. Nel 1989, appunto, fu persino fatta, una legge costituzionale ad hoc per consentire ai cittadini italiani di esprimere un parere sul mandato da dare al Parlamento europeo di redigere il trattato che avrebbe fatto nascere l’Unione.
Oggi, al contrario, ci sarebbe da chiedere ai cittadini cosa ne pensano di dare mandato al proprio Governo di negoziare un ritorno alla Lira. Un Governo interessato almeno alla sua stessa sopravvivenza avrebbe però a quel punto l’urgenza – la stessa che avrà David Cameron nei prossimi mesi per impedire un’uscita dell’Inghilterra dall’Europa – di spiegare che una scelta di questo genere significherebbe quasi certamente restare senza soldi per pagare gli stipendi e le pensioni; ma anche come intende uscire dall’altrettanto preoccupante prospettiva di rimanere in un’unione monetaria che dal 2015 richiederà sanguinose riduzioni dell’esposizione degli Stati che come l’Italia hanno, per propria colpa, accumulato debiti eccessivi.

Certo, lo scenario è oggi molto diverso: se nell’anno della caduta del muro di Berlino, il progetto Europeo celebrava il suo punto di massima popolarità e quel referendum fu un plebiscito, oggi una consultazione popolare rischierebbe di mandare l’Unione definitivamente in frantumi. Ma possiamo davvero permetterci di continuare ad osservare il declino? Ad aspettare inerti che le prossime elezioni del Parlamento europeo certifichino un nuovo record di astensione e un nuovo trionfo dei partiti per i quali quel Parlamento neppure dovrebbe esistere?

Qualche tempo fa, a Giuliano Amato, vice presidente della Convenzione che elaborò l’ultimo trattato europeo, fu chiesto come mai quel testo fosse stata scritto in maniera tanto oscura. La risposta del Professore fu, come al solito, sottile ed illuminante: “perché così le persone non possono capirlo”.

La scelta di fare a meno per anni della democrazia nel processo di costruzione dell’Europa è stata in effetti deliberata e fondata persino su valide ragioni: l’idea era che l’Europa fosse una cosa troppo complicata per essere spiegata; che non ci fosse, in fin dei conti, neppure un’opinione pubblica europea alla quale rivolgersi; che era meglio crescere in maniera “incrementale” e senza fare troppo clamore. Del resto, proprio il trattato costituzionale fu rigettato dagli stessi francesi, non appena qualcuno ebbe la sfrontatezza di chiedere ai cittadini per eccellenza cosa ne pensassero.
Tuttavia, l’Euro ha fatto saltare – come aveva previsto quel genio, pragmatico e visionario di Delors – lo schema e la crisi finanziaria ha solo reso più evidente l’insostenibilità di un progetto nel quale l’Europa diventa – senza risponderne ai cittadini – unione fiscale e politica per bilanciare quella monetaria.
L’Euro può vivere solo se l’Europa (come già sta accadendo de facto nei Paesi in maggiore difficoltà) tassa e interviene sulla spesa pubblica. Ma ciò non è possibile se chi tassa non risponde a chi è tassato. A meno che non si voglia violare il principio basilare di “no taxation without representation” e si voglia rischiare di mettersi contro la democrazia che tende a reagire male e all’improvviso. Questo rischio sarà ancora più grande quando con il fiscal compact, il fardello per rimanere nell’Europa che conta diventerà molto più pesante.

Non si può tassare senza averne la legittimità che deriva dal consenso. Lo sanno bene gli inglesi che di democrazia ne capiscono perché l’hanno inventata e che nel giro di un paio di anni chiederanno ai propri elettori di decidere letteralmente del futuro di uno dei Paesi più importanti del Mondo, con due consultazioni popolari decisive sulla permanenza della Scozia nel Regno Unito nel 2014 e di quello che ne sarà rimasto nell’Unione Europea nel 2017.

Una visione europeista nuova non può prescindere dalla questione fondamentale di come concretamente superare il “deficit democratico” delle istituzioni comunitarie. Questione che ha appassionato per anni le think tank europee senza che succedesse mai assolutamente nulla. Mettere i cittadini nella condizione di scegliere può essere rischioso ma, in fin dei conti, questo è vero per qualsiasi processo di apprendimento e di crescita collettivo e la democrazia è ancora la “peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora.”

Articolo pubblicato su Il MEssaggero e su Il Gazzettino del 30 Dicembre

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