LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

In cucina la fucina della memoria. Sul nuovo libro dei fratelli Carofiglio

Due dimensioni o topos letterari si danno la mano e contribuiscono al felice esito di La casa nel bosco, il romanzo dei baresi Gianrico e Francesco Carofiglio fresco di stampa per i tipi di Rizzoli (pp. 185, euro 14,00). Da una parte c’è la fratellanza che è in grado di sospendere il tempo consueto, normale, prosaico e sofferente degli adulti in nome dell’infanzia e dell’adolescenza ritrovate, con il candore poetico e l’energia vitale di allora, talora in vista della fine di uno dei due germani, ovvero di un genitore. Esempi se ne potrebbero fare a iosa: chessò, da quel piccolo capolavoro non abbastanza conosciuto che è Fratelli di Carmelo Samonà, alla commovente agnizione del talento altrui nel film La famiglia di Ettore Scola, senza trascurare le forme giovanili di narrazione tipo il graphic novel Fratelli di un altro barese, il fumettista trentenne Alessandro Tota attivo a Parigi. Dall’altra parte e fin dal titolo La casa nel bosco evoca una tradizione e delle suggestioni favolistiche tanto più efficaci perché individuano il “segreto” perturbante in ciò che di più familiare si possa immaginare. Paura e desiderio si manifestano guardandosi allo specchio, ovvero attraversando lo specchio come in Lewis Carroll o in certo Tim Burton, alla volta del “Paese delle Meraviglie” puntualmente citato nel romanzo. Qui lo specchio dell’infanzia è una villetta per le vacanze estive nella foresta Mercadante sulle colline murgiane di Cassano, a meno di un’ora di automobile dal centro murattiano di Bari dove i due autori cinquantenni – di fatto i protagonisti del libro – sono cresciuti e continuano a vivere.

D’altronde, un classico degli studi antropologici quale il russo Vladimir Propp consacrò pagine magistrali alla fiaba nei termini del rito iniziatico che i popoli primitivi celebravano nella foresta, là dove, alle soglie della pubertà, si veniva ghermiti dall’orrore delle maschere animalesche indossate dai celebranti, e, superato lo choc, si diventava finalmente grandi. Solo molto tempo dopo il passaggio d’età sarebbe stato raffinato e distillato nel Bildungsroman, il romanzo di formazione che serba Goethe e Stendhal tra le sue matrici. E’ un genere, questo, frequentato ex professo sia da Gianrico Carofiglio quando non attende ai fortunati casi in giallo dell’avvocato Guerrieri (Il passato è una terra straniera o Il bordo vertiginoso delle cose) sia da Francesco Carofiglio (Radiopirata o Wok).

Siamo insomma nell’alveo del memoir, cioè dell’autobiografia romanzata ed emozionale e a farla da padrone è il pendolare del tempo (perduto): ieri, oggi, ieri, oggi… Un movimento suggerito e scandito dai sapori del passato, a mo’ di madeleine proustiane, che i due fratelli ritrovano nell’ultimo viaggio verso “la casa nel bosco” disabitata da parecchi lustri, alla vigilia del passaggio di proprietà già sancito. Lungo la strada di andata e poi su quella del ritorno a Bari, e soprattutto nella dimora dove avevano trascorso stagioni intere con la madre e il padre alla cui memoria è dedicato il romanzo, Gianrico e Francesco coltivano e talora “scoprono” sentimenti essenziali tra le cianfrusaglie inumidite e impolverate. Ecco un vecchio ricettario di cucina della governante siciliana ricopiato dalla mano materna, buste di fumetti in cui si spera possa celarsi un mitico e introvabile numero cinque dell’Uomo Ragno, il Manuale delle Giovani Marmotte e pagine della “Gazzetta del Mezzogiorno” sull’epidemia di colera scoppiata a Napoli e in Puglia alla fine di agosto del 1973. Là intorno, nel verde di una foresta non più così minacciosa eppure altrettanto promettente, i due rammemorano o riassaporano alimenti e dolci degli anni lontani, e amori, sogni, ribellioni, amicizie, legami soluti o insolubili.

Naturalmente nel cono d’ombra del passato familiare e straniero, appunto, la sorgente puntiforme di luce, il corpo luminoso osservato alla minima distanza possibile è la medesima relazione tra i due fratelli. Essi scherzano, si rimbrottano da mane a notte (dormiranno nella casa priva di elettricità) e si incalzano, passandosi la palla del racconto che rimbalza da un capitolo all’altro, alternativamente intestati a Gianrico e a Francesco, ciascuno dei quali narra in prima persona il dialogo con l’altro. Due voci, una sola scrittura: nitida nella sua semplicità che conquista, pensosa eppure serrata, e dolce come la torta di ricotta nel cui rito preparatorio culmina la vicenda. Una specie di excusatio non petita introduce la parte finale del libro: “Ce l’hanno chiesto. Fare un’appendice di questa storia con un piccolo ricettario. Abbiamo discusso parecchio – quali ricette scrivere, quante scriverne, secondo quale criterio: primi, secondi, dolci, pizze? – e alla fine abbiamo raggiunto un accordo: sette primi piatti per sette giorni. Sono ricette che, in un modo o nell’altro, compaiono nel racconto…”.

È un cedimento editoriale all’ossessione gastronomica in gran voga grazie al Masterchef televisivo? Può darsi, anzi, sicuro. Ma le ricette sono tutte nostrane: la ciallèd (la cialda barese), il purè di fave e cicorie, e via gustando fino al “riso patate e cozze”. Ed è vero: corrispondono agli ingredienti di una “cerimonia degli addii” che, al pari di quella orientale del the, cela e rivela un quid sapienziale, non foss’altro la possibilità di “ritrovare” da adulto – dopo tutto – colui che tanto amasti/odiasti nella stessa cameretta da letto o in una casa nel bosco. Un riconoscimento dell’identità altrui che giova alla propria, in cucina. Come dire? Da fratelli coltelli a fratelli fornelli.

Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 4 aprile 2014

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