THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

Spostare la battaglia della flessibilità sul fronte della ricerca

“Per vincere le battaglie è decisivo guardare le cose con gli occhi del tuo avversario”. Il celebre trattato sull’arte della guerra attribuito ad un generale cinese vissuto circa duemilacinquecento anni fa, può fornire un’indicazione molto utile a chi – come il nostro Presidente del Consiglio – rischia di impantanarsi in un conflitto che non puoi vincere con la logica della prova di forza.

La soluzione potrebbe, allora, essere quella di spostare la richiesta di flessibilità da problemi veri ma che abbiamo solo noi italiani (il cofinanziamento dei fondi strutturali, il pagamento dei debiti della PA), ad un terreno nel quale potremmo intercettare le preoccupazioni e le semantiche degli stessi tedeschi: quello della debolezza strutturale dell’economia europea, della necessità di dover ritrovare un vantaggio competitivo di conoscenza diffusa che la stessa Germania vede evaporare nei confronti dei più aggressivi concorrenti asiatici. Per questi motivi è la revisione della strategia per l’Europa del 2020, la partita più importante che il Governo italiano si gioca nei prossimi sei mesi di presidenza dell’Unione.

Europa 2020 è il nome del documento con il quale i capi di stato europei definirono – proprio mentre la crisi esplodeva cinque anni fa mettendo in ginocchio prima le banche, poi gli Stati ed, infine, le economie reali occidentali – il progetto per rispondere alla depressione. La crescita che gli Europei dichiaravano di voler perseguire era qualificata da una serie di specifici obiettivi che si traducevano in risultati quantitativi da raggiungere entro la fine del decennio: essa sarebbe dovuto essere “intelligente” perché fortemente basata sulla conoscenza e sulla ricerca,“sostenibile” dal punto di vista ambientale e legata ad una riduzione dello spreco di energia fossile; “inclusiva” in quanto la società che ha inventato il welfare continua ad essere convinta di dover contenere le diseguaglianze per conservare la propria coesione e la propria stessa identità. Una strategia, alla cui realizzazione l’Unione affidava, nelle parole del Presidente della Commissione Europea, la sua stessa sopravvivenza

Dopo cinque anni, però, alle aspettative di un rilancio è corrisposto un fallimento che spiega i risultati delle ultime elezioni europee: il prodotto interno lordo dell’Unione non è ancora riuscito neppure a raggiungere il livello al quale lo avevamo lasciato nel 2008;  il  numero di persone a rischio di povertà è aumentato di sei milioni – laddove l’obiettivo era quello di diminuirlo di venti – ed oggi sono centoventisei milioni i cittadini europei che sono in una condizione che gli istituti di statistica definiscono di esclusione. Il tasso di occupazione che sarebbe dovuto salire al 75%, si è addirittura abbassato e la disoccupazione giovanile sta producendo uno spreco di risorse che riducein maniera permanente la capacità dell’Europa di produrre benessere per i propri cittadini; infine, se l’idea era di raggiungere questi obiettivi aumentando la propensione dell’Europa a spendere in innovazione, la percentuale del PIL che viene spesa in ricerca è rimasta inchiodata al 2%, lontanissima dal 3% che era l’obiettivo da raggiungere entro il 2020.

In una parola, un disastro di fronte al quale la stessa commissione Europea ha, qualche settimana, fa dichiarato di non voler fornire raccomandazioni per l’“enormità dei cambiamenti che l’Unione, gli Stati, le Regioni e le Città d’Europa hanno vissuto a causa della crisi “, rimandando, però, l’onere di farlo a chi guiderà questo semestre, e quindi, all’Italia.

Su questo terreno, abbiamo in teoria la possibilità concreta di realizzare il miracolo di sfondare il muro tra custodi dell’austerità e cantori della crescita: sarà però necessario uno scatto fatto di idee, di talento e di lavoro su quella che è forse la riforma più importante.

Lo spazio è quello per una proposta – come quella che il think tank Vision e CEPS presenteranno a Brussels dopo l’estate insieme al ministro della ricerca Giannini e al sottosegretario alle politiche europee Gozi–che faccia pesare di meno nel calcolo del deficit pubblico l’investimento in ricerca, scuola, asili, università, e di più il trasferimento di rendite al passato – ad esempio pensioni, sussidi finalizzati al puro mantenimento di imprese e posti di lavoro superati dalla tecnologia e dai mercati.

Ma non meno urgenti sono indicazioni che si pongano contemporaneamente l’obiettivo di rendere efficiente la spesa in ricerca che non è esente dalla categoria dello spreco. I fondi strutturali, ad esempio, sono in parte consistente destinati all’innovazione in regioni in ritardo di sviluppo e però scontano la carenza di competenze da parte di molte amministrazioni pubbliche che non sono abituate a governare politiche così sofisticate: un’idea forte potrebbe essere quella di stabilire che le risorse si utilizzano per finanziare progetti e imprese innovative solo quandosu queste iniziativedecidono di scommettere insieme allo Stato i propri soldi operatori finanziarispecializzati(venture capitalist) che, per mestiere, hanno sviluppato una visione globale di settori produttivi e ambiti di ricerca.

Ma anche questo non basta se l’Italia non fa la sua parte. La distanza del nostro paese rispetto ai traguardi che la strategia della crescita intelligente, sono superiori rispetto a quello degli altri: del resto una società che spende tuttora in pensioni tre volte e mezzo di più di ciò che spende in educazione dagli asili alle università, non è più – tecnicamente – una società basata sulla conoscenza.

Ma ancora più preoccupante è il fatto che nessuno dice che quello che fa il capo del Governo italiano con la sua personalità è regolarmente disfatto dai suoi ministeri che, ad esempio, sulla programmazione dei finanziamenti europei da spendere in innovazione nei prossimi sette anni, sono già in ritardo rispetto a gli altri paesi europei: non parliamo di un adempimento burocratico ma di un ragionamento mai davvero cominciato sulle “specializzazioni intelligenti” che l’Italia potrebbe esprimere e che avrebbe dovuto fare leva sulla conoscenza di migliaia di persone che vivono di innovazione in Italia e all’Estero e che mai hanno avuto a che fare con le amministrazioni pubbliche.

Può essere questa dei prossimi sei mesi la partita decisiva che può fare del nostro Presidente del Consiglio un leader di livello europeo. La sfida però è creare in corsa – sia a livello europeo che nazionale – una classe dirigente che non può essere quella ereditata dalla Repubblica dei Mandarini.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 7 Luglio

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