L'ASINO DI BURIDANO

Massimo Parodi

Professore di Storia della filosofia medievale all'Università Statale di Milano.

Sous le pavé

Qualcuno aveva sperato davvero nella possibilità di unificare le culture politiche del secolo scorso, fondamentali nella storia dell’Italia repubblicana, per difendere qualcosa di quel mondo che in fondo riuscivamo a capire e cominciava a essere messo in discussione dai primi colpi del nuovo populismo berlusconiano. Qualcuno, che pure non ci aveva sperato, ci aveva comunque creduto, forse voleva discuterne, forse ne era spaventato, ma ci aveva creduto.
Ma quelle culture politiche erano legate a una struttura e a un ordine sociale che si è sfaldato sotto i colpi del pensiero unico, della globalizzazione, della finanza come motore fondamentale dell’economia e la Brexit, l’elezione di Trump, la partecipazione di Marine Le Pen al ballottaggio ci hanno costretto a riflettere ulteriormente e più profondamente sul cosiddetto populismo e a osservare la nascita e la crescita in Italia di un populismo leghista di destra e di uno pentastellato forse di sinistra.
Oggi le due linee – e avevamo sperato non succedesse – confluiscono in un esperimento di grande rilievo, difficilmente riconducibile a una qualche sintesi, in quanto segnato da simpatie per i nazionalismi dell’Europa orientale e per le destre occidentali, da momenti di attenzione per peronismi di varia ispirazione, dal Venezuela, alla Russia e magari alla Corea del Nord.
Popolo o nazione? La sovrapposizione dei due termini genera brutti ricordi, come quel discorso del 1931, in cui Mussolini parla di andare verso il popolo, usando un’espressione proveniente dai rivoluzionari russi del secolo precedente, fondendola però con un’altra idea: se ci fossero dei diaframmi che volessero interrompere questa comunione diretta del regime col popolo – interessi di gruppi e di singoli – noi, nel supremo interesse della nazione, li spezzeremo. (L. Salvatorelli, G. Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista, Mondadori, Milano 1972, p. 534)
Quando avevamo sperato o creduto in quella fusione di culture politiche novecentesche pensavamo francamente di essere vaccinati dal ritorno del nazionalismo, di esserne difesi grazie all’universalismo cristiano, all’internazionalismo proletario, al cosmopolitismo illuminista e all’unità europea. E invece oggi non riusciamo più a usare quelle culture politiche né comprendiamo con quale ordine sociale abbiamo a che fare, in un mondo che ha prodotto un nuovo paradigma del potere che assume mercato e denaro come unici principi regolatori.
Il nuovo soggetto politico che emerge in molti luoghi del mondo e che in Italia sembra dare origine a un esperimento particolarmente significativo pare trasferire a livello politico il disordine del pensiero unico e del neoliberismo apparentemente egemoni.
Forse è il momento opportuno per tornare a riflettere sulla nostra stessa tradizione populista, che pure esiste. Nell’età giolittiana abbiamo conosciuto un populismo conservatore e reazionario che diede origine ai movimenti nazionalisti e interventisti e si affermò successivamente nel regime fascista, ma negli anni della Resistenza e del dopoguerra si incontra un populismo progressista e democratico che forse non a caso tenta di accantonare l’idea di nazione.
Dal momento che, per costruire un’alternativa all’attuale esperimento di disordine nuovo – secondo il felice titolo del Manifesto di qualche giorno fa – occorre uscire dalle culture che non ci spiegano più niente, forse proprio nella nostra tradizione possiamo trovare qualcosa su cui riprendere un ragionamento da troppi decenni abbandonato.
Nel 1945 viene pubblicato l’ultimo scritto di Silvio Trentin – Stato, nazione, federalismo, La Fiaccola, Milano (edizione clandestina) – nella cui prefazione Mario Dal Pra sottolinea come emerga in Trentin un nuovo punto di vista consistente nella concezione federalista dello Stato, che rappresenta il compito essenziale della democrazia contemporanea che deve trovare un proprio fondamento nell’idea di un organismo cooperativo e federalistico basato sulla pluralità dei bisogni (p. V), capace di riconoscere e garantire l’autonomia degi istituti e delle associazioni.
Riflettendo sul processo di formazione degli stati nazionali moderni e sulle forme assunte dalle democrazie della seconda metà del XIX secolo, ci si rende conto che il mantenimento di una struttura accentratrice ha rappresentato lo strumento ideale per l’affermarsi della dittatura. Si è così arrivati a quel fatto, curioso solo fino a un certo punto, della democrazia che si seppellisce da sé e che mette in piedi colle sue mani la dittatura (p. VI), e perciò dalla guerra deve nascere una democrazia nuova in grado di costruire la forma cooperativa e federalistica dello Stato.
Le contraddizioni messe in evidenza possono essere superate se si mantiene lo slancio che ha caratterizzato la lotta partigiana, cercando nello stesso tempo di impedire che una struttura accentratrice si faccia unico gestore della vita economica. La soluzione viene individuata nella costruzione di uno stato federalista che solo può consentire una iniziativa dal basso sempre più larga, la democrazia interna agli stati e la nascita di una federazione super-statale (p. VII).
Non ci si può certo illudere di trovare una soluzione pronta per l’uso, ma forse può servire tornare all’entusiasmo con cui i padri fondatori della repubblica pensarono fosse possibile, mantenendo l’impeto della Resistenza, costruire forme di federalismo che partendo dal basso arrivassero a organizzazioni sovranazionali in grado di non rimanere impigliate nella pericolosa idea di nazione.
Fosse mai, per riprendere una delle più belle parole d’ordine di 50 anni fa, che davvero Sous le pavé, la plage!

  1. Grazie per aver riproposto un testo di ispirazione federalista, quello di Silvio Trentin, in cui trovo molte assonanze col Manifesto di Ventotene. Sì, credo anch’io che possa essere una via, più che per dare ordine a quello che sta succedendo, non solo in Italia ma su scala mondiale, per indicare una, ora più che mai attuale, risposta politica. Infatti credo ancora che le vecchie culture politiche non siano del tutto superate e che possano ancora servire a farci capire quello che sta succedendo, a patto di non cedere alla subdola formula dell’insignificanza, ormai, dell’opposizione destra/sinistra. Ma su questo punto ritornerò poi.
    Tu giustamente sottolinei le analogie tra le nostre ultime elezioni e l’elezione di Trump, la Brexit e l’arrivo della Le Pen al ballottaggio in Francia. Ma a mio avviso ciò è dovuto alla mancanza di risposte da parte della sinistra tradizionale ai devastanti effetti sociali delle politiche economiche neoliberiste globali. Gli stati nazionali — nemmeno gli Stati Uniti — hanno più il controllo della politica economica e tanto meno della finanziaria globale. Di qui le risposte sovraniste, che si illudono di potervi porre rimedio, ma che riescono a convogliare il disagio prodotto dalla sempre maggiore scarsità di risorse per politiche sociali efficaci. E ciò proprio attraverso l’occultamento del persistente conflitto sociale con la formula antipolitica del superamento dell’opposizione destra sinistra.
    In un articolo del 31 maggio scorso, il New York Times scrive che Bannon, l’ex stratega di Trump, coinvolto anche nell’ affair di Cambridge Analytica, ha dichiarato in un’intervista di essersi incontrato per molte ore, dopo le elezioni del 4 marzo, con Salvini e altri esponenti della Lega, per spingerli ad allearsi coi 5Stelle col dire: You are the first guys who can really BREAK THE LEFT AND RIGHT PARADIGM. You can show that populism is the new organizing principle.
    L’illusorio, se non consapevolmente complice paradigma della terza via, adottato dalla sinistra tradizionale fin da Blair e Clinton, non ha fatto altro che favorire questo esito, rinunciando a una politica di opposizione all’affermazione del neoliberismo su scala globale.
    La miopia e la grettezza dell’illusione sovranista è palese nelle prime esternazioni della neonominata ministro degli Affari regionali, la leghista Erika Stefani, che propone già che Veneto e Lombardia facciano alle altre regioni italiane quello che la Germania sta facendo con gli altri stati europei: socializzare gli oneri e privatizzare gli utili.
    Il federalismo, quello vero che tu hai evocato, mi sembra l’unica risposta seria a questa situazione, se mai la sinistra battesse un colpo invece di criticare Mattarella, che ha quanto meno cercato di attutire l’impatto della nuova alleanza populista, con buona pace dei filo 5Stelle e di chi parla di disordine nuovo, privo evidentemente di categorie culturali e politiche adeguate per interpretare i fatti.

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