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Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Sociologia di un’enciclica

La lunga e bella intervista rilasciata da papa Francesco al direttore della ‘Civiltà Cattolica’ padre Antonio Spadaro, nonché il dialogo di giorni fa con Eugenio Scalfari, sono pienamente comprensibili solo alla luce della recente Enciclica sulla Fede Lumen Fidei.  Viste con occhi profani, si potrebbe anche dire che si tratta di abili operazioni di ‘lancio’ dell’‘ultima enciclica’ di Benedetto XVI e della ‘prima’ di papa Francesco, come è stato detto a proposito della Lumen Fidei. Anche un’enciclica può essere letta in diversi modi. Ispirandomi ad una tradizione sociologica, quella durkheimiana, che decodificava il discorso religioso per leggervi in controluce e via parallelismo simbolico le ‘leggi’ di funzionamento del sociale, vorrei provare a leggere appunto in controluce la Lumen Fidei, per cercarne la nascosta grammatica del sociale che l’occhio del sociologo può cercare di decriptare.

La Lumen Fidei inizia con una critica alla moderna pretesa di considerare illusoria la luce della fede. In altri termini, il punto di partenza è dato dalla critica a ingenue teorie della secolarizzazione, che pensavano di poter spazzare via la religione una volta per tutte dall’orizzonte sociale, o di poterla relegare nel privato della coscienza individuale. Poco a poco però, sostiene l’enciclica, la luce della fede ha ritrovato il suo spazio anche per l’uomo moderno, non più contro ma accanto a quella della ragione, a condividere un percorso (un cammino, continuamente evocato) di ricerca e di edificazione (costruzione feconda, anch’essa parola chiave di tutta l’enciclica) della città. L’orizzonte dell’enciclica sembra essere postsecolare, nel senso molto preciso di riconoscimento di una coesistenza di fatto (per alcuni normativamente desiderabile) di fede e ragione nel medesimo spazio sociale.

Il secondo passo, naturalmente centrale, consiste nel chiarire natura e significato della luce della fede, da considerarsi un dono – che deve essere nutrito e rafforzato – di Dio. Un dono miracoloso e fragile al tempo stesso. Nel testo biblico fede è indicata, ricorda l’enciclica, con la parola ‘emunah, “derivata dal verbo ‘amàn, che nella sua radice significa ‘sostenere’. Il termine ‘emunah può significare sia la fedeltà a Dio, sia la fede dell’uomo. L’uomo riceve la sua forza dall’affidarsi nelle mani del Dio fedele” (LF p. 31). La fede è allora un rapporto di fiducia e un legame che si sviluppa da Dio all’uomo. Per quella tradizione sociologica che in dio vede l’immagine simbolica che sta per (non che è) la società, ciò significa che la fede indica il legame che dalla società lega l’individuo ai suoi simili e al tutto in cui vive. La fede, come con straordinaria precisione l’enciclica stessa sostiene, “fa comprendere l’architettura dei rapporti umani” (Lf, pp. 96-97), ci dice che la società è il risultato di un legame che muove dal sociale verso l’individuo (che da esso è ‘creato’ e ‘plasmato’) ma che va nutrito e rafforzato ogni giorno, essendo altrimenti in sé fragile e contingente.

Il terzo passo consiste nel sottolineare, anche qui con forza, l’importanza della memoria (che l’enciclica chiama memoria futuri, una memoria legata alla promessa di liberazione, anzi meglio una memoria della liberazione dall’Egitto già avvenuta nella tradizione ebraica, ma reiterabile con riferimento a ogni nuova schiavitù) nella trasmissione della fede. La persona “vive sempre in relazione. Viene da altri, appartiene ad altri, la sua vita si fa più grande nell’incontro con altri” (Lf, p. 77), e così come la fede – dono di Dio – è anche il frutto dell’incontro con altri, allo stesso modo essa va trasmessa nel tempo. Esiste “un mezzo speciale” per trasmettere la luce della fede, un mezzo che mette in gioco tutta la persona, “corpo e spirito, interiorità e relazioni” (e infatti altrove l’enciclica ricorda come la fede chiami in gioco molti sensi, come sia ascoltare e vedere, ma anche toccare: non è cosa ‘disincarnata’ e solo spirituale), e questo mezzo sono  i Sacramenti; “la fede ha una struttura sacramentale” (Lf, p. 80), che passa cioè per la dimensione liturgica, rituale. La fede – il codice dell’architettura dei legami umani – può essere attualizzata solo attraverso la dimensione rituale, che assicura – laddove riesce – la durata nel tempo di un legame tra gli uomini e tra gli uomini e dio altrimenti sempre fragile.

Da ultimo, ma come si suol dire non certo per importanza, la Lumen Fidei enfatizza l’ecclesiologia della fede. “È impossibile credere da soli. La fede non è solo un’opzione individuale che avviene nell’interiorità del credente, non è un rapporto isolato tra l’“io” del fedele e il “Tu” divino, tra il soggetto autonomo e Dio (…) È possibile rispondere in prima persona, ‘credo’, solo perché si appartiene  a una comunione grande, solo perché si dice anche ‘crediamo’ (…) Ecco perché chi crede non è mai solo (…)” (LF, p. 78). Sarebbe pedante mostrare gli impressionanti parallelismi con la definizione della religione offerta da Durkheim ne Le forme elementari della vita religiosa, ed è d’altro canto sufficiente sottolineare come, anche qui, la dimensione ecclesiastica della fede dice, sociologicamente, che dove c’è una fede condivisa c’è un noi, una comunità, e che perché ci sia un noi e non individui atomizzati ci deve essere una fede condivisa.

La Lumen Fidei dice molto di più. Parla della verità di Cristo e del rapporto tra questa verità e il pluralismo moderno; parla del rapporto tra fede, dubbio e valori più o meno negoziabili; ma per il sociologo essa dice in modo straordinariamente lineare i termini essenziali della grammatica del sociale: la fiducia come risorsa pre-contrattuale che fonda i legami sociali, la memoria e il rito quali strumenti di cura nel tempo di legami fragili e bisognosi di nutrimento, la natura collettiva e comunitaria delle credenze e delle pratiche sacre e al tempo stesso la natura ‘religiosa’ del sociale. Durkheim non era cattolico, malgrado speculazioni biografiche e teoriche su presunte influenze del cattolicesimo sulla sua concezione della religione, bensì ebreo per nascita e laico per scelta; ma non sorprende che il suo sguardo sulla religione fosse più in sintonia con ebraismo e cattolicesimo che non con il protestantesimo.

Ci sono alcuni parole chiave che ricorrono nella Lumen Fidei, così come nell’intervista a padre Antonio Spadaro e nel dialogo con Scalfari; frontiera, cammino, fecondità: papa Francesco vuole una Chiesa in movimento, capace di uscire da se stessa e andare anche verso chi non la frequenta, capace di generare fede e di edificare la città. Nelle sue parole si sente la stessa retorica, lo stesso sapore, che c’è in quelle del miglior Obama. Non è un caso: ogni qual volta si ha la capacità – anche carismatica, sì, individuale e ‘straordinaria’ – di mobilitare energie sociali, di indicare frontiere e orizzonti, di tentare di incidere criticamente sul reale, è perché si sa attingere alla grammatica profonda del sociale, si sa andare alle radici della natura religiosa della società come anche viceversa vedere nella religione l’architettura dei rapporti umani.

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