DA MADRID

Marco Calamai

ingegnere, dirigente sindacale CGIL, funzionario Nazioni Unite. Giornalista, ha scritto libri e saggi sulla Spagna, America latina, Balcani, Medio Oriente. All'ONU si è occupato di democrazia locale, dialogo interculturale, problematiche sociali, questione indigena. Consigliere speciale alla CPA ( Autorità Provvisoria della Coalizione, in Iraq (Nassiriya) si è dimesso dall'incarico ( 2003 ) in aperta polemica con l'occupazione militare. Vive a Madrid dove scrive su origini e identità.

Quei falsi Stati in Medioriente

Come leggere la crisi del Medio Oriente? Come spiegare il sostanziale fallimento delle rivolte arabe e i conflitti interni scoppiati in Siria, Iraq, Libano, Libia e via dicendo? Come evitare di perdersi nella confusa nebulosa di titoli e articoli che in realtà inseguono singoli avvenimenti che fuori da una visione d’insieme non aiutano a capire il “filo logico” dei fenomeni di “lunga durata” che stanno dietro l’esplosiva conflittualità che attraversa il Medio Oriente?

Un punto appare comunque chiaro: l’assetto geopolitico sortito dalla fine della prima Guerra mondiale con la spartizione forzata dell’impero ottomano non regge più al moltiplicarsi dei contrasti e dei conflitti interetnici e interreligiosi. Quell’assetto fu affidato a regimi autoritari e al sostegno “esterno” delle potenze occidentali che si erano divise le spoglie del vecchio impero creando, spesso inventando, frontiere “nazionali” che non tenevano conto in alcun modo della complessa realtà tribale e religiosa dei diversi territori. Come ha scritto a suo tempo lo storico David Fromkin al Medio Oriente fu imposta “a peace to end all peace”, ovvero un assetto (l’accordo franco-britannico di Sykes – Picot) che ha retto fin ad ora solo attraverso la mano dura di dittature (sovrapposte all’antica struttura tribale) più o meno laiche ma tutte egualmente irrispettose delle realtà locali.

Lo studioso e giornalista Robin Wright ha spiegato pochi giorni fa sul New York Times l’incombente disfacimento dell’assetto sopra ricordato attraverso un’analisi dei conflitti interetnici e interreligiosi in corso in cinque paesi della regione (Iraq, Siria, Arabia saudita, Yemen, Libia) ai quali suggerirei di aggiungere il piccolo e traballante Libano con le sue ben diciotto comunità religiose ufficialmente riconosciute.

La documentata riflessione di Robin Wright, ripresa da Francesca Paci  su La Stampa, conferma la necessità di una lettura territoriale, religiosa ed etnica, della frantumazione crescente del quadro medio orientale. Tra i diversi conflitti emerge in particolare quello sunnita – sciita che attraversa ormai gran parte del mondo musulmano. Conflitto antico che oggi affiora con estrema violenza per via del fallimento storico degli stati nazionali creati dopo il primo conflitto mondiale, meno di cento anni fa. Due esempi: l’Iraq e la Siria. In entrambi questi paesi “artificiali” non ha retto la dittatura di una minoranza (sunnita nel caso iracheno, alauita nel caso siriano) su una maggioranza (sciita in Iraq, sunnita in Siria). Dinamiche innescate da fattori specifici (l’occupazione americana in Iraq, la rivolta anti Assad in Siria) ma che in realtà ripropongono il fondo della questione: il fallimento di esperienze statuali, accentuate e accelerate dalla insofferenza nei riguardi di grandi disuguaglianze sociali, basate sulla forza e sulla sostanziale “intolleranza democratica”. Non deve sorprendere, a proposito di questi due paesi, che gli attuali confini che li dividono (quelli appunto imposti dalle potenze coloniali nel primo dopo guerra) siano minacciati dal radicalismo sunnita (che punta ad unificare una parte dell’attuale Iraq con una parte dell’attuale Siria, entrambe a forte maggioranza sunnita). Né deve sorprendere che i curdi “siriani” cerchino di unirsi ai curdi “iracheni” (stessa etnia, stessa religione sunnita – musulmana) come primo passo verso il tanto atteso Kurdistan (ambizione antica sacrificata, anch’essa, nella spartizione dell’impero ottomano).

Per alcuni studiosi la soluzione di questi problemi sta nella risposta democratica. Ovvero nella trasformazione dei paesi arabi e in generale musulmani in stati capaci di integrare le diverse comunità etnico – religiose in un quadro di tolleranza reciproca e quindi di cittadinanza consapevole dei propri diritti. Ma questa soluzione appare possibile solo come sbocco di un lungo e incerto processo di maturazione culturale e politica. Da qui il pessimismo sul futuro della regione che si è diffuso nella opinione pubblica occidentale con l’involuzione delle primavere arabe.

In questo contesto appare di grande interesse, pur nella sua specificità e tormentata evoluzione, l’esperienza libanese. Qui è stato raggiunto un equilibrio politico -istituzionale tra le diverse comunità religiose che riflette il peso demografico di ciascuna di esse e garantisce un peculiare pluralismo. Si tratta di una formula raccolta nella Costituzione materiale libanese (il Patto nazionale del 1943, accettato da tutti anche se mai firmato), che è stata più recentemente garantita negli accordi di pace di Taif (1989) che hanno messo fine alla terribile guerra civile 1975-90) e almeno parzialmente protetto il paese dall’influenza nefasta dei conflitti esterni. Il Libano, realtà per molti aspetti simile alla confinante Siria, dimostra la necessità di assicurare con formule opportune la convivenza interetnica e interreligiosa. L’obiettivo di una democrazia di tipo americano o europeo, non è certo per il momento proponibile.

Il caso siriano. Quale soluzione all’attuale scenario a macchia di leopardo di morte e violenza? Non certo un regime democratico di tipo occidentale come vorrebbero i neoconservatori negli Usa e altrove. Il fallimento della guerra irachena da essi ispirata parla da solo. E allora? Chi scrive vede solo due possibili risposte: o la spartizione del territorio con la creazione al suo interno di nuovi paesi più piccoli (come il vecchio Alauitistan degli anni venti del secolo scorso), o un accordo tra le parti che in qualche modo recuperi gli aspetti positivi della convivenza libanese. Quale dei due esiti finirà per prevalere è assai difficile, allo stato attuale, immaginare. Una terza via, che non comporti ancora sangue e dispotismo, non s’intravede.

  1. IN EFFETTI CREDO CHE SI DEBBA CERCARE DI “ATTIVARE” LA MEMORIA STORICA PER CERCARE DI CAPIRE I FENOMENI DI OGGI. IL TEMA DEI “CONFINI ARTIFICIALI” IMPOSTI DAL MONDO COLONIALE, LA CREAZIONE DI STATI AUTORITARI PER MANTENERE L’ORDINE INTERNO E SALVAGUARDARE INTERESSI TRIBALI, I NON RISOLTI CONFLITTI TRA DIVERSE ETNIE (VEDI QUESTIONE CURDA ) E RELIGIONI ( VEDI SCONTRI TRA SUNNITI E SCIITI) SONO TEMI CHE RICHIEDONO ATTENTA RIFLESSIONE E STUDIO. APPROFITTO PER AGGIUNGERE UN ALTRO DATO CRUCIALE: NEI PAESI MUSULMANI IN GENERE NON E STATO CREATO UNO STATO SOCIALE CHE GARANTISSE A TUTTI IN EGUAL MODO DIRITTI E SERVIZI. LA DINAMICA POLITICA -RELIGIOSA SI INTRECCIA CON LA CARENZA DI UNO SPIRITO DEMOCRATICO DI CITTADINANZA…….

    • Caro Marco,
      interessante il tuo approccio “storicistico” alla questione, e pieno di giuste
      riflessioni. Ma continuiamo a guardare, da questa sponda , e poi? Alle colpe, gravi, del
      colonialismo aggiungiamo quelle del post colonialismo, ebasta. Affidiamo tutto al Grande Fratello e poi vediamo i risultati:
      non un granchè, appunto.

      • CARO GIANCARLO,
        IL GRANDE FRATELLO, OVVERO GLI USA, NON PUò AFFRONTARE DA SOLO LE COMPLESSE “SFIDE” CHE CI VENGONO DAL MONDO MUSULMANO. L’EUROPA DOVREBBE REAGIRE, COSTRUIRE UNA POLITICA ESTERA, METTERE IN GIOCO IDEE E RISORSE. SE NON ALTRO PER VIA DELLA IMMIGRAZIONE DI CUI TANTO, POUR CAUSE, PARLIAMO IN QUESTI GIORNI. CHIUDERSI IN UN “FORTINO” NON SOLO E’ UNA “VERGOGNA”, COME HA DETTO FRANCESCO, MA E’ ALLA LUNGA PERDENTE. IL DIALOGO NON PUO’ SIGNIFICARE SOLO DIBATTITO E GENERICI SCAMBI CULTURALI. OCCORRONO PROPOSTE POLITICHE ED ECONOMICHE DI FRONTE AD UN MEDITERRANEO SEMPRE PIU’ “PICCOLO”.
        EUROPA, ESCI DAL TUO TORPORE !!!!!

  2. Rimettere “ordine” nella conoscenza di ciò che sta avvenendo dopo la cosiddetta “primavera araba” è importante anche perchè nei media nostri ed occidentali in generale è calato il silenzio sull’evoluzione, purtroppo, negativa della situazione che pur tante speranze aveva suscitato nel mondo…non posso dimenticare il discorso di Obama all’università del Cairo (se non ricordo male) e il grande dibattito sviluppatosi nella società egiziana in quel periodo..ma se vedo oggi a quel che sta accadendo sono esterrefatto e amareggiato, deluso per lo sorti di quel grande popolo..l’articolo di Marco Calamai aiuta a capirci di più del perchè e del come e, soprattutto, realisticamente a vedere meglio nella nebbia attuale, che piega stanno prendendo avvenimenti che hanno ed avranno sempre più una forte influenza sui paesi del Bacino del Mediterraneo, a partire dall’Italia.

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