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Guido Martinotti

Guido MARTINOTTI, Emeritus Sociology, SUM,Florence. Urban sociologist (secondary interest Higher Education, Quality of Life in the Information Society)

Quando non si sa cosa dire è colpa degli avi

  1. Scorrendo l’articolo di Andrea Ichino “Salari, gli automatismi perversi” su Il Corriere della Sera del 4 Maggio 2012 mi è capitato di legger, con un soprassalto, queste parole: “Se a questi automatismi dagli effetti perversi si aggiunge l’atavica scarsa propensione degli italiani alla mobilità geografica e occupazionale”. Non entro nel merito dell’articolo, anche se mi sembra una esercitazione astratta di “AWHACO” (Assume We Have A Can Opener, della famosa barzelletta sugli economisti) ma ho fatto un salto sulla sedia sentendo parlare di una propensione italiana alla scarsa mobilità di origine “atavica”. Termine di cui l’articolista, forse attratto dal suono della parola, sembra ignorare totalmente il significato che, in italiano, sta per carattere genetico, qualcosa che viene dagli avi, anche molto lontani. Ora un tal Antonio Gramsci, autore forse ignoto ai professori universitari ordinari di SECS-P/01 ECONOMIA POLITICA, ma piuttosto conosciuto, appunto, in giro per il mondo, mentre era in carcere dedicò molto tempo a riflettere sulla forza lavoro italiana e una buona parte di queste riflessioni fu poi pubblicata in un volumetto intitolato “Gli intellettuali”, in cui gran parte era dedicata proprio alla grande diffusione del lavoro italiano nel mondo.

Anche lasciando stare i soliti romani (che forse non sono proprio nostri avi, viene il sospetto) che si muovevano pedibus calcantibus aux quatre coins du monde allora conosciuto, venendo più vicini ai nostri tempi, almeno a partire da tal Cristobal Colòn, che nonostante il nome spagnolesco pare proprio che fosse italiano. E così facendo un po’ di zap-browsing nella storia italiana troviamo una Repubblica Veneta che mandava galere in giro per mezzomondo, un capitalismo genovese, la prima forma di capitalismo europeo, che non era affatto genovese per stanzialità, e poi, tra i grandi nomi della nazione, dopo Colombo ci troviamo davanti a un Garibaldi “Eroe dei Due Mondi” ( e sottolineo due), ma un po’ prima di lui a tal Marco Polo. E a ben vedere anche padre Dante ha girato parecchio. Vero era esiliato e non lo faceva per piacere, ma anche in Grecia antica, civiltà fondamentalmente basata sul commercio per mare, c’erano i metechi, in parte esiliati da altre città stato. Anche questo è un muoversi. E pure Petrarca se ne dovette andare in Francia, anche lui esiliato. Ma non era esiliato Leonardo da Vinci, né lo era Bartolomeo Ricci che se ne stette parecchio in Cina se ricordo bene. Gramsci fa poi notare che gli italiani hanno fornito centinaia di migliaia o meglio milioni di lavoratori a tutti i paesi del mondo.

Del resto basta guardarsi intorno alle miniere del Belgio, alle industrie e alle imprese di costruzioni e a tutti i settori più faticosi di Francia, dove i bambini italiani a scuola venivano chiamati “macaronìs”, come Gastarbeiter nelle baracche di cantieri in Svizzera e Germania, nei paesi scandinavi. Per non parlare della colonizzazione massiccia da parte di immigrati italiani, nell’America del Nord, in America Latina, e in Australia. Con città come New York o Buenos Aires che in certi anni contavano più italiani di Roma. “Atavica scarsa propensione degli italiani alla mobilità geografica e occupazionale”: ma di cosa sta parlando l’illustre docente? Si dirà, con la mente obnubilata da quell’altro topos che è un’immagine oleografica della società americana come di grande mercato del lavoro sempre in movimento: “ma è la mobilità interna che manca, tutti vogliono stare vicino al campanile e andare all’università sottocasa e rimanere nella stessa fabbrica per tutta la vita, per la loro atavica “scarsa propensione alla mobilità”. Tutto falso, tra il 1861 (ma solo perché le statistiche comunali le abbiamo solo a partire da quell’anno, la demografia italiana è stata regolata da una semplice norma: “più grande è il comune, più cresce”. Tradotto in linguaggio concreto ciò vuol dire che per più di un secolo la popolazione italiana si è mossa dai piccoli comuni di campagna e di montagna, spesso, ma non solo, del Sud, verso i centri maggiori, spesso, ma non esclusivamente del Nord. “Atavica propensione?” Si ma a muoversi.

E c’è di più, questa grande mobilità non si è fermata neppure durante il fascismo, come vuole un luogo comune estremamente radicato nella cultura italiana e nonostante le famose leggi anti-urbanesimo di Mussolini. Anna Treves, in un saggio rivelatore sulle migrazioni italiane, smentisce una diffusa convinzione, solidamente consolidata anche in ambienti esperti negli anni 1960 (Anna Treves, Le migrazioni interne durante il periodo fascista, Einaudi, Torino 1976. Posso testimoniare che avendo lavorato tra il 1960 e il 1962 nel gruppo diretto da Alessandro Pizzorno all’Istituto Lombardo di Studi Economici e Sociali, Ilses, di Milano, che si occupava di immigrazione, questa idea era di comune accezione, non solo tra gli studiosi, ma anche tra i numerosi amministratori locali con i quali eravamo in contatto) dimostrando che durante il fascismo nonostante le leggi antiurbanesimo continuò il grande movimento di “correnti migratorie vastissime” verso le aree industrializzate.

I dati indagati da Anna Treves e le citazioni da fonti più attente ai dati delle usuali, ci dicono che la interpretazione di una Italia sostanzialmente “ferma” (pp.3-15) sostenuta anche da autorevoli studiosi quali Tomaso Salvemini, Stefano Passigli e in parte anche dallo stesso Galasso, Giuseppe Galasso,Mezzogiorno medievale e moderno, Torino 1965, Stefano Passigli, Emigrazione e comportamento politico , Bologna 196, citati in Anna Treves, Le migrazioni, cit, nell’ampio apparato di note dalle pp.11 alle pp.15) non corrispondeva alla realtà, di un paese di cui si poteva dire “esistono, però vastissime correnti di migrazione interna,che debbono pure essere considerate per le ampie alterazioni che producono nella composizione e nella distribuzione geografica dei vari aggregati della popolazione. Non sembra pertanto, fuor di luogo … mostrare alla luce delle cifre come la mobilità della popolazione abbia raggiunto negli ultimi anni proporzioni imponenti all’interno del regno(Luigi Arcuri di Marco, “Aspetti del fenomeno della mobilità territoriale della popolazione italiana”, in Bollettino dell’osservatorio del Banco Economico di Sicilia, 1937,n.4 cit. a p.20).

I dati riportati dall’Autrice nelle pagine che seguono confermano: a partire dal 1923 la popolazione si nuove con tassi molto elevati attorno al 2.5per mille (livelli che ritroveremo più avanti, in coincidenza con la ripresa che seguì alla crisi postbellica. Ma la migrazione interna continua negli anni trenta, che sono gli anni della depressione e “per eccellenza del regime e delle leggi vincolistiche” (p.18) si raggiungono spostamenti che vanno dal 1.000.000 (nel 1931 e 1932) al 1.2000.000 nel 1937 fino al 1.500.000 nel 1937, un tasso di 34,2 per mille sulla popolazione (pp.18-19). E se questo avveniva durante la “società statica” del Fascismo figuriamoci quando la società si rimise in moto. E infatti durante il periodo del cosiddetto “miracolo italiano”, quando l’economia italiana si sviluppò rapidamente rimediando ai guasti bellici nel quadro del grande ciclo di sviluppo capitalistico del secondo dopoguerra, l’Italia conobbe tassi di mobilità interna tra i più elevati di 22 paesi studiati da un geografo americano (superata solo da Taiwan e Corea del Sud) con punte di 15 e più per mille abitanti mentre il resto dei paesi europei misurava tassi inferiori al 5 per mille, con l’eccezione della Spagna che mostra un profilo simile a quello italiano ma inferiore di 5 punti e scalato di circa 5 anni, seguita subito dopo dal Giappone.

E potremmo continuare, ma credo sia superfluo: il punto da sottolineare è molto semplice, se si da per scontato che gli italiani siano geneticamente sedentari, allora per farli muovere occorre la frusta, o una qualche miracolosa medicina. Che al fondo è la filosofia di governo che sta sempre più emergendo, una filosofia precettoriale , di chiara impronta paternalistica e patriarcale, per cui il governare è sempre contro la società invece di essere per la società. E così si distoglie anche l’attenzione dai veri fattori che negli ultimi anni hanno frenato la mobilità, soprattutto dei giovani: la scarsa trasparenza degli accessi ai posti di lavoro, per cui la famiglia diventa l’agente più importante per le classi medie e il patronage politico per tutti gli altri, il costo drogato delle abitazioni e delle locazioni e via dicendo. Non so se vogliamo davvero una società mobile e neppure se ciò sia auspicabile, ma chi la predica dovrebbe almeno studiare più a fondo gli ostacoli istituzionali e sociali che la impediscono.

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