DA MADRID

Marco Calamai

ingegnere, dirigente sindacale CGIL, funzionario Nazioni Unite. Giornalista, ha scritto libri e saggi sulla Spagna, America latina, Balcani, Medio Oriente. All'ONU si è occupato di democrazia locale, dialogo interculturale, problematiche sociali, questione indigena. Consigliere speciale alla CPA ( Autorità Provvisoria della Coalizione, in Iraq (Nassiriya) si è dimesso dall'incarico ( 2003 ) in aperta polemica con l'occupazione militare. Vive a Madrid dove scrive su origini e identità.

Perché Madrid non è Atene

No, la crisi spagnola non è analoga a quella greca. E neanche a quella italiana. In Spagna il debito pubblico, fino al 2008, non superava il 50-60% del PIL. Inferiore a quello francese e perfino quello tedesco. Metà di quello italiano. IL PIL, inoltre, cresceva a un ritmo che superava la media europea. E il deficit era inferiore al fatidico 3%. Eppure le Istituzioni – Governo centrale, Autonomie, Comuni – spendevano con decisione in servizi pubblici. E in infrastrutture: strade, linee ferroviarie, metropolitane, aeroporti. Il paese, soprattutto con i governi socialisti, aveva compiuto un gigantesco passo in avanti. Ancora oggi, il turista che arriva in Spagna resta stupito dall’efficienza dei trasporti, urbani ed extra urbani. Idem per lʼassistenza sanitaria pubblica, a livello di quella francese. In altre parole: in Spagna non vi è stato lo sperpero clientelare di risorse pubbliche come in Grecia e in Italia.

E allora cosa è accaduto? La risposta è nota: è esplosa la bolla immobiliare. La Spagna è stata travolta dal settore produttivo, quello delle costruzioni, che più cresceva senza freni. Che tuttavia cresceva in modo drogato, artificiale, spinto in avanti dai crediti facili, anzi facilissimi, delle Banche e delle Casse di Risparmio. Il nuovo governatore della Banca di Spagna, scelto dal governo conservatore in carica, lʼha riconosciuto con chiarezza autocritica di fronte al Congresso spagnolo, pochi giorni fa. Ha detto, finalmente, che la responsabilità maggiore della crisi spagnola nasce dalla politica creditizia perseguita per anni delle banche, corresponsabili sia i governi socialisti, sia i governi di destra. E dai facili prestiti internazionali che sono piovuti sul sistema bancario spagnolo, fino a poco tempo fa considerato di grande efficienza. Ciò ha provocato una lievitazione folle dei prezzi dei terreni edificabili e delle abitazioni. Milioni di spagnoli, e con loro molti stranieri, in particolare immigrati, hanno ottenuto prestiti a tassi dʼinteresse molto bassi e per di più coperti dal solo valore, fittizio, delle abitazioni acquistate. Poi, si sa, è arrivato lo tsunami finanziario internazionale. E il sistema è crollato come un castello di carte. Lasciando sul terreno un cimitero di case abbandonate. E tanta gente sulla strada.

Ora è giunta l’ora della verità. Che riguarda banche e sistema politico. I due principali partiti, socialisti e conservatori, hanno entrambi, per anni, nascosto la testa nella sabbia, ignorando il terremoto che prima o poi sarebbe arrivato. Per le banche era molto facile prestare soldi e trasformare i prestiti in lucrosi affari: i titoli tossici in particolare, ma non solo. Già, ma perché anche i partiti? Perché era fin troppo conveniente sul piano elettorale lasciare che le istituzioni locali, i comuni in primo luogo, si gonfiassero di soldi grazie agli introiti fiscali stimolati dalle nuove costruzioni.

Con i fenomeni di corruzione che li hanno accompagnati. Nessuno ha avuto il coraggio politico e morale di avvertire il paese che il baratro era ormai vicino. Gli esperti non potevano, dʼaltra parte, ignorare quello che rischiava di succedere. E quindi anche i vertici del ceto politico. E ora la Spagna assiste allo spettacolo increscioso di due partiti che si accusano a vicenda della situazione gravissima in cui si trova il paese. Ovvero la disoccupazione che corre verso il 26% della
popolazione attiva; i giovani privi di prospettiva che cominciano a emigrare a decine di migliaia; i salari colpiti dalla macelleria sociale del governo di destra e suggerita dalle autorità europee; il degrado rapidissimo dello Stato sociale.

Eviterà la Spagna la deriva populista che la crisi sta producendo in diversi paesi europei? I sondaggi sono inquietanti. Non c’è più un punto di riferimento tranquillizzante, né a sinistra né a destra. Popolari al governo e socialisti allʼopposizione sono accusati entrambi, e ora da loro in qualche modo ragione perfino il governatore della banca centrale, di avere lucrato con la bolla immobiliare e di aver ingannato elettori e cittadini. I primi affermano che non ci sono alternative alle durissime misure di austerità, i secondi sono paralizzati dalla propria incapacità di proporre una via alternativa alla crisi. Così il disagio sociale, che cresce visivamente, appare privo di una prospettiva. L’indignazione su larga scala, non più espressione di esigue minoranze giovanili, è alla ricerca di sbocchi credibili. E già sʼintravedono nell’orizzonte due fenomeni: la frantumazione nazionalistica, ovvero di nuovo la pulsione separatista di catalani e baschi; la tentazione autoritaria di una destra che teme di non reggere alla critica di massa che cresce . Non dunque il populismo allʼitaliana, estraneo alla esperienza politica spagnola, bensì la tendenza alla divisione tra le diverse realtà nazionali e alla polarizzazione sociale.
Per la prima volta dalla fine della dittatura franchista, la Spagna appare esposta a venti contrari alla stabilità democratica.

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