LIVING TOGETHER, DIFFERENTLY

Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Ora di religione

Fatti.

Non più di un paio di settimane fa, commentando la proposta del Ministro Peillon di introdurre nel sistema scolastico francese un’ora di etica laica, da questo blog auspicavo, per il nostro Paese, una discussione su religioni e scuola pubblica capace di sottrarsi alle trappole dello scontro tra Guelfi e Ghibellini. L’occasione per riaprire il confronto sul tema la offrono le recenti affermazioni del Ministro Profumo, che come è noto ha sollecitato la revisione dell’insegnamento dell’ora di religione nella sua versione attuale (cioè insegnamento della religione Cattolica o Irc) e espresso le sue preferenze per una riforma in direzione di un insegnamento di storia delle religioni o di etica. Lo sfondo dell’auspicata riforma è dato naturalmente dalla modificazione del sistema scolastico nazionale, la cui natura sempre più multiculturale e multireligiosa preme in direzione di un adeguamento dell’istruzione religiosa coerente con il nuovo quadro.

Le reazioni alle dichiarazioni del Ministro Profumo sono state, come immaginabile, di segno opposto: positive quelle di forze politiche e associazioni laiche e di sinistra, associazioni espressione di minoranze culturali e religiose, ma anche dell’Associazione genitori scuole cattoliche; negative quelle della Cei, di forze politiche e culturali di centro-destra e cattolico-conservatrici. Tra le diverse reazioni e dichiarazioni, colpiscono quelle del Ministro Andrea Riccardi, che ha difeso il sistema attuale con argomentazioni che vorrei brevemente richiamare. L’Irc è disciplina incarnata nel vecchio e nuovo Concordato in virtù della storia che lega in Italia la fede cattolica alle scelte di tante famiglie. Ancora oggi, sostiene Riccardi, più di 6 milioni e mezzo di ragazzi, pari all’89,8%, scelgono l’ora di religione Cattolica. In tempi in cui la religiosità si definisce non poco sulla base della scelta, questi dati sembrerebbero chiudere ogni discussione. Ma il Ministro sa benissimo che la scelta di cui quei numeri si fanno forti non è sempre tale a tutti gli effetti. Una scelta presuppone delle alternative, che il sistema scolastico italiano per lo più non offre allo stato attuale. È sufficiente avere dei figli in età scolare per saperlo, o parlarne in aula con i propri studenti universitari, che hanno memorie ancora fresche in proposito. Entrare in classe un’ora dopo, uscire un’ora prima, o essere letteralmente parcheggiati da qualche parte in assenza di attività sostitutive reali, non configura le condizioni di una scelta. Per chi crede nell’importanza delle religioni, magari anche da non credente o non praticante, può essere una scelta più matura e ponderata optare nella situazione attuale per l’Irc piuttosto che per l’ingresso posticipato o l’uscita anticipata; ma è chiaro si tratta di casi, a buon senso moltissimi, che vanno a drogare le cifre che riporta Riccardi. In secondo luogo, il Ministro Riccardi ha difeso il sistema attuale in base ad un ulteriore argomento, ossia la composizione del pluralismo religioso italiano e del modo in cui si riflette nel sistema scolastico, composto per la maggior parte da cristiani ortodossi, e solo in seconda battuta da musulmani. Da quel che capisco, questo dovrebbe bastare a dire che l’Irc è sufficiente, perché pur sempre di cristiani per lo più stiamo parlando, e tra cristiani ci si intende. Al di là del legittimo dubbio sull’effettiva validità empirica di un simile punto di vista, l’argomento mi sembra comunque molto discutibile in termini di principio con riferimento a qualsiasi minoranza, quale che sia per altro la sua consistenza numerica.

Non convinti dalla difesa dell’Irc fatta dal Ministro Riccardi – certo non arrogante o arroccata su posizioni di privilegio, potere, o chiusura verso l’altro come spesso invece accade –, rivolgiamoci alle alternative emerse nella discussione, non nuove in un dibattito che periodicamente torna sulla scena. Il Ministro Profumo prospetta in linea di principio due possibilità: un insegnamento di storia delle religioni o un’ora di etica. Su questo punto mi sembra che sarebbe opportuno fare chiarezza, a partire dal significato attribuito all’espressione etica. Max Weber insegna che gli atteggiamenti religiosi nei confronti del mondo variano non poco da tradizione a tradizione, che possiamo avere etiche religiose mistiche e ascetiche, mondane e ultramondane, e diverse variazioni di ognuna e combinazioni tra di esse. Rientrano tutte allo stesso modo nell’ipotetico insegnamento di ‘etica’ cui pensa il Ministro? E una considerazione delle religioni intese come prodotto storico-culturale dell’azione di comunità umane coincide del tutto con la sola sfera etica o va al di là di essa? Tante e tali sono le dimensioni con cui le religioni come prodotto storico-culturale entrano in rapporto nel corso della storia dell’umanità, che includerle tutte nella sfera etica significa privare quest’ultima di ogni significato specifico e proprio.

Poniamo che su quest’ultimo punto si faccia la necessaria chiarezza, l’alternativa all’Irc rappresentata dall’ora di storia delle religioni, che per molti (me incluso) rappresenterebbe un traguardo ambito e un fattore di crescita culturale e civile, si troverebbe ancora davanti sfide non da poco. In termini di potere, si tratterebbe da un lato di sottrarre la formazione degli insegnanti all’attuale monopolio del Vaticano, e dall’altra di attrezzare il sistema universitario italiano con corsi idonei alla formazione di figure professionali di questo tipo, che allo stato non esistono.  Non poca cosa. Tuttavia, si tratta di difficoltà ‘fattuali’, serie certamente, ma non di principio. Di principio è la scelta del sistema, non le condizioni di realizzazione. Dal punto di vista della discussione sulle scelte di principio, rimangono ancora almeno due possibilità sul tavolo (e in realtà una discussione approfondita dovrebbe considerare in chiave comparativa tutti i diversi modelli esistenti nei sistemi scolastici europei e non, così come le forme di sperimentazione ‘sommersa’ e i casi di buone pratiche). Una, ovvia, prevede la semplice espulsione delle religioni dal radar dei sistemi scolastici: la versione francese della neutralità, laicità delle istituzioni pubbliche etc. Legittima, e con l’indubbio vantaggio della semplificazione della complessità; mortificante tuttavia da una prospettiva pluralista, multiculturalista e postsecolare, come quella qui perorata. Più coerente con quest’ultima è una possibilità mai discussa, che però meriterebbe approfondimenti specialistici e maggiore considerazione nel dibattito pubblico. Si tratta di una scelta (oggetto di sperimentazioni extra-curriculari e di studio) che implica una revisione dei meccanismi di governance dell’ora di religione, e in parte anche della sua natura. Si tratterebbe di introdurre un insegnamento delle religioni affidato alle stesse comunità religiose, chiamate ad auto-presentare le proprie pratiche e credenze agli studenti, introducendo quindi un meccanismo di gestione dell’insegnamento della religione che – in quanto auto-gestita (entro una cornice di regole e principi condivisi, in primis l’impegno a non fare proselitismo) – si differenzia sia da un insegnamento di tipo confessionale mono-religioso (come nel caso dell’Italia prima che i tratti confessionali venissero ‘ammorbiditi’) sia da un approccio culturalista pluralista gestito dallo Stato (come nel caso dell’ipotesi di insegnamento di una storia delle religioni). In questo caso, l’insegnamento non sarebbe solo about religions, ma anche in un certo senso from religions, in quanto pratiche e credenze verrebbero presentate dalle stesse comunità religiose, chiamate e a misurarsi con un contesto pluralista e con uno spazio sociale che – non cieco alle differenze religiose – rimane secolare nel senso di imparziale rispetto a preferenze verso l’una o l’altra tradizione. Il vantaggio sarebbe non solo la fine di una condizione di monopolio religioso e un di più di pluralismo; non solo un coinvolgimento delle comunità religiose che responsabilizza includendo; non solo un arricchimento che rifiuta la neutralità intesa come cecità alle differenze, ma anche un passo (in uno spazio cruciale come quello scolastico) in direzione di una scuola (e una società) postsecolare.  Se è vero infatti che postecolare significa, non da ultimo, ‘apprendimento complementare’ tra visioni religiose e visioni secolari, la considerazione delle religioni quale dato ‘soltanto’ storico-culturale, che esclude la dimensione propriamente religiosa – e cioè il confronto con le pretese di verità delle diverse tradizioni – può precludere o restringere la possibilità di innescare un processo di apprendimento complementare, giacché non espone ad alcuna pretesa di verità. Quello che una società pluralista e postsecolare deve garantire non è la non-esposizione ai contenuti di verità avanzati dalle tradizioni religiose, ma l’educazione reciproca a quella modestia epistemica che impedisce la volontà di tradurre una pretesa di verità in legge positiva per tutti valida.

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