CROCE E DELIZIE

Corrado Ocone

Filosofo

Nuovo e vecchio realismo. Una chiarificazione in risposta a Berardinelli

Su “Il Foglio” di sabato 8 luglio è comparso un articolo di Alfonso Berardinelli intitolato: Ferraris e il New Realism come forma estrema di populismo culturale (http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=1Z78YG&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1). Il titolo forza un po’, a mio avviso, la posizione dell’autore. Egli, infatti, pur criticando il filosofo torinese, non fa proprie, al contrario di quanto il titolo lascerebbe immaginare,  nemmeno le tesi dei sei autori  del pamphlet di cui si parla nell’articolo: Il nuovo realismo è un populismo, appena uscito per i tipi de Il Melangolo a cura mia, di Donatella Di Cesare e Simone Regazzoni. D’altronde, le posizioni degli autori sono fra loro molto distanti, avendo come minimo comun denominatore solamente la critica al cosiddetto “nuovo realismo”. In particolare, Berardinelli non coglie fino in fondo lo spirito con cui si sono mossi alcuni di loro, ad esempio il sottoscritto: “Se per attaccare il New Realism e la sua New Epic -scrive- si deve tornare a Derrida e valorizzare Slavoj Zizek, allora mi metto a dubitare di tutto e di tutti, scoraggiato e perplesso”.

Bene, fugo ogni dubbio: io non credo affatto che l’alternativa al pensiero che cerca di imporre Ferraris possa essere né certo pensiero postrutturalista francese né il pensiero radicale contemporaneo di cui il post-marxismo confuso e modaiolo di Zizek è quasi un paradigma. Io non solo non voglio soggiacere alla rigida alternativa fra postmodernismo e nuovo realismo (imposta al discorso filosofico da Ferraris in primo luogo per meglio condurre la battaglia contro il suo maestro Gianni Vattimo), ma ritengo più radicalmente di essere io il vero realista. Voglio dire un realista nel senso vero e pregno del termine: quello che non a caso si è affermato storicamente. Con buona pace di Ferraris, infatti, quando si parla di realismo in tutto il mondo si intende non certo il nuovo realismo (che nessuno sa cosa sia), bensì quel realismo politico che fra l’altro viene considerato, da Machiavelli in poi, la cifra caratteristica del pensiero italiano (nella misura in cui ovviamente è possibile parlare di un carattere nazionale del pensiero). (Sul realismo politico si svolgerà, a cura di Alessandro Campi, un convegno a Perugia il prossimo settembre: http://www.istitutodipolitica.it/wordpress/wp-content/uploads/2013/05/PROGRAMMA-DEL-CONVEGNO.pdf)

La mia posizione è quindi: critica sì del postmodernismo, intendendo questo termine nell’’accezione vaga e ad ampio raggio che ne dà Ferraris e che comprende tutte le filosofie variamente relativistiche o nichilistiche della contemporaneità (diciamo le “filosofie della crisi”); ma critica anche di un realismo che considera la realtà come un insieme di dati e fatti irrelati e “incolori”, semplicemente a nostra disposizione “lì fuori” per essere enucleati e “tecnicamente” manipolati (il legame del nuovo realismo con lo scientismo e il positivismo è a mio modo di vedere forte e indubitabile).

In un primo tempo pensavo che questa posizione, che appunto non è propriamente la mia ma di una lunga tradizione di pensiero, si collocasse giusto a metà, come una sorta di “terza via”, fra quelle di Vattimo e Ferraris. Oggi invece, come argomento nel mio saggio nel volume citato, credo piuttosto che quella di Ferraris sia alla fine una forma sofisticata e mascherata di postmodernismo, nonostante si ponga apparentemente in antitesi ad esso. O meglio, si tratta forse di una forma di “pensiero debole”, cioè una posizione eticamente indifferente ai contenuti. Se è vero che il pensatore debole considera infatti le idee a mo’ di abiti in armadio che possono essere presi e indossati o dismessi a piacimento, potremmo dire che questa volta l’abito scelto è quella antidebolista ma che, trattandosi di una scelta arbitraria e non motivata, sempre di debolismo si tratta. In breve: la forma rimane debole, nonostante il contenuto sia forte. Proprio per questo tipo di considerazioni, se fosse toccato a me, io avrei fatto riferimento nel titolo al pensiero debole piuttosto che al populismo, anche se è evidente che il primo può essere ricondotto nella categoria del secondo se viene interpretato come noi facciamo come “una banalizzazione del pensiero che mira a riscuotere il consenso del vasto pubblico” (dalla Premessa).

Opporre, come io credo sia giusto fare, il realismo vero al nuovo realismo e al postmodernismo significa pertanto far riferimento da una parte appunto al realismo politico che si sviluppa da Niccolò Machiavelli e dall’altra al realismo storicistico che ha il suo campione in Giambattista Vico. Tradizioni che trovarono all’inizio del secolo scorso un punto di parziale e provvisorio punto di approdo, o meglio di sintesi, nella filosofia di Benedetto Croce, ma che comunque rappresentano ancora oggi un importante e vitale terreno di approfondimento e orientamento (quello di Croce è anche uno storicismo dialettico perché, se è vero che la realtà è composta di fatti non irrrelati ma storici, solo la logica dialettica non quella intellettualistica può “adeguarla”). In definitiva: l’alternativa al nuovo realismo va trovata, da un punto di vista teorico, sul solido terreno dei fatti, per quanto storici (non quindi, come vorrebbe Regazzoni, su quello della decostruzione à la Derrida; da un punto di vista pratico, su un terreno lontano da ogni moralismo ma anche da ogni “pensiero alternativo”, à la Zizek o no poco importa (fra l’altro ritengo non filosofica la categoria di “pensiero reazionario” usata da Di Cesare). Detto per inciso è questo il motivo per cui non mi convincenemmeno  il “risvolto pratico” della pur apprezzabile Italian Theory propugnata da Roberto Esposito.

In conclusione, ha ragione Berardinelli nell’affermare che “il problema non è se la realtà esiste, ma come esiste, di caso in caso, a quali condizioni di temperatura e di pressione”. Ma la risposta per me è chiara ed è tutta nella tradizione del realismo politico e storicistico.

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