L'ASINO DI BURIDANO

Massimo Parodi

Professore di Storia della filosofia medievale all'Università Statale di Milano.

Numero riaperto

La vicenda del numero programmato introdotto alla Statale di Milano anche per le facoltà umanistiche e ora bocciato dal mitico TAR del Lazio, con una sentenza destinata con ogni probabilità a essere revocata dal Consiglio di Stato, sta diventando un quasi appassionante romanzo d’appendice. Studenti in agitazione, riunioni del Senato accademico interrotte, professori all’opposizione, professori a sostegno, consigli di dipartimento che implodono per lo sfaldarsi di maggioranze e minoranze, efficienza o diritto allo studio, cultura umanistica o cultura scientifica, tradizione o innovazione. C’è tutto quello che serve per riproporre uno di quei grandi dibattiti che percorrono la società italiana di tanto in tanto: conservare o abbandonare l’insegnamento del latino, scuola media unica o avviamento professionale, filosofia come disciplina autonoma o come strumento di altre discipline.
È confortante sapere che probabilmente non se ne uscirà mai, è confortante soprattutto per chi viene sconfitto perché sappiamo che la questione si riaprirà e vincitori e vinti si rimescoleranno. La nostra tradizione è esattamente questa: non il prevalere di una posizione sull’altra ma il continuare a discuterne per rendersi conto che forse lo sviluppo culturale consiste proprio in questa discussione. Tuttavia di volta in volta si è chiamati a schierarsi, perché bisogna pur votare negli organismi che contano, bisogna pur rispondere agli studenti che chiedono chiarimenti, bisogna pur rilasciare interviste o firmare documenti,
Uno dei passaggi più discussi, e forse tra i più infelici, di Agostino è la citazione della famosa frase evangelica compelle intrare nel contesto delle discussioni con gli eretici (Contra Gaudentium Donatistarum episcopum 25.28), come invito a costringerli a rientrare con ogni mezzo nella chiesa che hanno abbandonato, e allora mi era quasi venuta l’idea di intitolare il prossimo corso, in cui ne dovrò parlare: Compelle intrare. Agostino contro il numero chiuso, ma per fortuna talvolta si può resistere alle tentazioni.
È inevitabile schierarsi, anche quando si sa che è inutile perché il pendolo continua a oscillare e oggi oscilla dalla parte che ci piace meno. Il rettore della Statale – Gianluca Vago – in una lettera pubblicata sul Corriere della Sera di due giorni fa, oltre a informare di avere rinunciato a ricorrere contro la sentenza del TAR per garantire a migliaia di giovani il regolare avvio dei corsi e a ricordare il complesso di norme la cui stratificazione nel tempo offre margini a interpretazioni difformi che possono essere richiamate a sostegno delle due posizioni che in questo momento si confrontano, non evita tuttavia la questione centrale anche se implicita.
Sostiene infatti che inaccettabile è l’argomento secondo cui i corsi di laurea umanistici garantirebbero più di altri una crescita culturale, individuale e del Paese e questo in primo luogo perché il grado di arricchimento che viene dai corsi di area umanistica non può essere considerato superiore a quello di corsi scientifici. Il contenuto culturale, di pensiero logico, di capacità di analisi critica di una lezione sulla fisica quantistica, o sulla genetica del cancro è almeno paragonabile a quello di una lezione di storia medievale, o di letteratura latina. Ma credo che nessuno intenda negarlo; il problema è invece che la cultura umanistica non si identifica con pensiero logico e capacità di analisi critica, o almeno non dovrebbe limitarsi a questo. La storia medievale o la letteratura latina – per limitarsi agli esempi citati – hanno metodologie, riferimenti e uno spessore storico che non si esauriscono nella capacità critica, ma forniscono strumenti di lettura del passato e del presente che non posono venire dalla fisica quantistica, come le conoscenze specifiche di medicina non potranno mai venire dallo studio della storia medievale. Anche solo per supporre che la discussione in cui siamo coinvolti ponga questioni che ad esempio erano già presenti – tenendo conto ovviamente delle necessarie differenze di contesto storico – ai maestri del XII secolo o nelle università del XIII e XIV secolo, sono necessari studi con contenuti e metodi specifici.
E quando si dice che nelle facoltà umanistiche ha senso pensare possano iscriversi persone che non ambiscono necessariamente ad acquisire un titolo di studio che ha valore legale non si intende sostenere la inutilità sociale di questo percorso formativo, ma riconoscere la possibilità di percorsi paralleli in cui anche la futura commessa di supermercato o l’operaio andato in pensione, ma con desiderio di dare un ordine alla sua esperienza esistenziale, possano trovare un modo per interrogarsi sulla propria visione del mondo.
Qulche tempo fa ho assistito a un fatto – credo – eccezionale, alla laurea di un pensionato ottantenne, certamente confuso e che difficilmente potrà usare il proprio titolo di studio: in seduta di tesi parlò di Dante, di Bonaventura da Bagnoregio e di Tommaso d’Aquino con tale partecipazione ed entusiasmo che, alla fine, dopo la proclamazione, gli applausi vennero non dal pubblico, che si riduceva solo alla moglie commossa, ma da tutta la commissione in piedi.
L’aneddoto può certamente apparire mieloso e sentimentale, ma riesce difficile non pensare che anche così si contribuisca alla crescita culturale di un Paese.

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