A BASSA VOCE

Giuliano Amato

Non c’è più religione neanche fra gli atei

Se non fosse una faccenda di atei, verrebbe da dire che non c’è più religione, ma certo sapere che gli atei vogliono fare un’intesa con lo Stato in base alla norma della Costituzione sulle confessioni religiose una qualche sorpresa la desta. I fatti: l’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (Uaar), che associa in Italia circa quattromila non credenti, si è vista respingere dalla Presidenza del Consiglio la richiesta di avviare le trattative previste dall’art. 8 della Costituzione per le intese con le confessioni religiose, da porre a base delle leggi che regolano i rapporti con le stesse confessioni.

L’Uaar ha impugnato il diniego e ne è nato un lungo giudizio della cui conclusione ci hanno da poco informato i giornali. Il Consiglio di Stato e la Cassazione hanno deciso che il ricorso dell’Uaar, inizialmente dichiarato inammissibile dal Tar, va invece ritenuto ammissibile e quindi dovranno ora essere esaminate le ragioni per le quali l’Uaar ritiene di dover essere trattata dallo Stato alla stessa stregua delle confessioni religiose e di avere perciò la sua intesa, come ce l’hanno i valdesi, i metodisti, i valdesi e tanti altri. Io ho lavorato a lungo su questa materia.

Sono stato il primo a negoziare e concludere intese con le confessioni acattoliche negli anni –erano gli anni ’80- nei quali veniva rinnovato il Concordato con la religione cattolica e diventava quindi ineludibile togliere le altre dalla vecchia condizione di culti “ammessi” ed attuare anche per loro le previsioni costituzionali, rimaste per decenni sulla carta. Devo dire la verità, non mi ha mai sfiorato il dubbio che, in ragione del principio di eguaglianza, un’intesa la si dovesse stipulare anche con i non credenti. No – ho sempre pensato- l’art.8 riguarda espressamente, e quindi, esclusivamente le confessioni religiose, in virtù di caratteri che esse soltanto posseggono. Esse soltanto uniscono le persone sulla base di una comune fede trascendente, esse soltanto, perciò, hanno luoghi di culto, hanno ministri di culto, hanno riti, tutti essenziali all’esercizio della fede.

La regolazione pubblica può rendere la fruizione di tutto ciò più o meno agevole e può rendere per ciò stesso più o meno agevole l’esercizio della fede. Di qui l’intesa, finalizzata a concordare modalità che salvaguardino questo fondamentale diritto: garantendo libertà e protezione rispetto ai luoghi di culto, consentendo l’assistenza spirituale dei propri ministri di culto quando si è in luoghi controllati dallo Stato, si tratti di un ospedale pubblico o di un carcere, arrivando a riconoscere agli effetti civili il matrimonio stipulato con il rito religioso, che è quello dal quale i credenti fanno scaturire il vincolo coniugale.

Nulla di tutto questo vale per gli atei, che non sono uniti da una fede comune e possono essere non credenti ciascuno per le ragioni e con le motivazioni più diverse, che si affidano a un’etica e a una ragione frutto della loro coscienza e della loro meditazione individuale, che non hanno né luoghi né ministri di culto e neppure riti; a meno di non identificarli con le massonerie, che avevano ed hanno luoghi, ministri e riti. Ma una tale identificazione sarebbe davvero ingiusta ed impropria. Questo – sia chiaro – non significa che gli atei, se lo ritengono, non possano associarsi proprio in quanto atei. L’Uaar è dunque un’associazione più che legittima, ma è in quanto tale coperta non dall’art.8, bensì dall’art.16, che garantisce a tutti il diritto di associarsi liberamente e di svolgere così tutte le attività, lecite, che si desiderano. Qualcuno, per sostenere invece la possibile parificazione alle confessioni, ha richiamato l’articolo del Trattato europeo di Lisbona, che riconosce “l’identità e il contenuto specifico” non solo delle chiese e delle comunità religiose, ma anche delle “organizzazione filosofiche non confessionali”, impegnando l’Unione al dialogo con tutte.

E’ vero, quell’articolo c’è, ma ciò che vuol dire è che esistono organizzazioni che esprimono visioni e valutazioni ispirate da ragioni soltanto ideali e non interessi economici e materiali. Il dialogo, previsto con i sindacati, va previsto perciò anche con loro e su un diverso terreno. Questo, certo, può accomunare fra loro organizzazioni di credenti e di non credenti. Ma non attribuisce ai non credenti i caratteri che giustificano le intese con i credenti. Se l’Uaar riuscisse ad avere l’intesa – dice chi parla a suo nome – potrebbe celebrare i suoi matrimoni. Io ho sempre pensato che per i non credenti il matrimonio fosse quello civile, conquistato a fatica dallo Stato laico molti decenni fa. E spero proprio che l’Uaar rappresenti – come mi pare – una minoranza davvero esigua dei non credenti in Italia.

Dal blog di Giuliano Amato.

  1. L’articolo del professor Nicola Colaianni comparso sulla rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti il 6 dicembre 2013, intitolato “Ateismo de combat e intese con lo Stato” (http://www.rivistaaic.it/articolorivista/ateismo-de-combat-e-intesa-con-lo-stato) rende giustizia al punto di vista del prof. Amato chiarendo il senso del pronunciamento della Cassazione, volto a stabilire l’obbligo di inizio di trattativa da parte del governo, ma assolutamente non quello di una conclusione positiva e/o di conversione in legge. Si tratta sì di una pronunciazione garantista, ma che non afferma affatto un diritto all’intesa.
    Inoltre il professor Colaianni spiega approfonditamente perché l’intero ragionamento dell’UAAR a sostegno della sua richiesta di intesa con lo stato è inficiato da un profonda incomprensione della distinzione che la Costituzione compie fra “confessioni religiose” e associazioni di cittadini, religiose o no.
    Le confessioni religiose sono le sole entità, ricordiamo, depositarie del diritto di giungere all’intesa con lo Stato, in forza dell’articolo 8 della Costituzione.
    Non solo all’UAAR manca l’autoqualificazione di confessione religiosa, dato che il suo statuto la definisce “organizzazione filosofica non confessionale”, ma sono assenti anche altri elementi di riscontro oggettivo, quali riti, cura dei fedeli, contatti a rete fra aderenti, opere letterarie religiose, eccetera. Si ha confessione religiosa, solo in presenza di una comunità di credenti, cioè di aderenti sul piano interiore, in contatto reciproco, favorito dalla comune fede, che fornisce loro vie collettive per ottenere quanto non potrebbero singolarmente. Sulla base della Costituzione (articolo 8), all’UAAR non sarà mai riconosciuto il diritto alla stipula di un’intesa, perché non ne ha semplicemente i requisiti.
    E’ l’articolo 18 della Carta a garantire lo spazio di libertà dell’UAAR, come quello di qualsiasi altra associazione di cittadini, ma esso non ha attinenza con le intese.
    Quanto al livello internazionale, l’interpretazione dell’evoluzione della giurisprudenza presentata nel documento UAAR è molto superficiale. La Corte suprema americana ha iniziato a considerare in modo particolare solo alcune associazioni ateistiche a orientamento “comunitario”, dotate quindi di riti e di religiosità, anche se non riconoscono entità trascendenti. Ma questa è proprio la direzione che l”UAAR ha sempre negato di voler intraprendere.

  2. La risposta dell’Uaar a Giuliano Amato, Avvenire e Tempi
    http://www.uaar.it/news/2013/07/01/intesa-stato-uaar-reazioni/

    «Peccato che proprio la Costituzione e i pronunciamenti degli ultimi decenni della Consulta si muovano proprio per riconoscere ad atei e agnostici pari diritti e dignità rispetto ai credenti. Anche se si è ancora molto indietro. E così facciano la giurisprudenza e la legislazione europea, con la vigilanza della Federazione umanista europea proprio per avere pari dignità in sede Ue. Ma Amato minimizza tutto questo. Non sorprende la nonchalance del dottor Sottile. È lo stesso che, da presidente del consiglio, nel rispondere a un’interrogazione di An contro il gay pride del 2000 a Roma si lasciò sfuggire: “purtroppo dobbiamo adattarci a una situazione nella quale vi è una Costituzione che ci impone vincoli e costituisce diritti”.
    Non si preoccupi comunque il professor Amato, l’Uaar non vuole celebrare i “suoi matrimoni”: vuole semplicemente consentire, come le associazioni umaniste stanno cercando di fare in altri paesi, che gli sposi possano organizzare nozze civili in luoghi non istituzionali, con il supporto di celebranti preparati. Proprio gli esempi che Amato fa — matrimonio, ora di religione, assistenza religiosa negli ospedali o nelle carceri — dimostrano che i temi trattati nelle intese non riguardano affatto il culto, ma tutte questioni molto terrene e umane, che interessano anche noi, anche i dieci milioni di non credenti che vivono in Italia. E su cui Amato in più di trent’anni di politica al vertice si è sempre dimostrato inerziale, per la gioia della Chiesa. Il problema è che alle confessioni vengono riconosciuti privilegi per il solo fatto di avere una presunta natura “sovrannaturale”. Vogliamo per atei e agnostici pari diritti, il discorso è molto semplice. Il giurista ha qualcosa da suggerirci e da suggerire ai legislatori per vederli concretizzati?»

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