LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

Memento per un Paese in piena Grande Bruttezza

Dopo il pre-Oscar, oggi il post-Oscar. Due pezzi facili ma non  troppo, nonostante il nome di chi scrive :-). Nell’articolo di ieri abbiamo salutato l’opportunità di un riscatto italiano – nel pieno di una crisi tanto umorale quanto economica – che potrebbe schiudersi grazie al successo hollywoodiano di La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Intendiamoci, un film è un film: lo si vede, piace o meno, poi si va a casa e i problemi di ogni giorno sono lì ad aspettarti, con l’aggravio del compenso dovuto alla baby sitter. A proposito, sarà utile ricordare che La grande bellezza va in onda stasera su Canale 5 (Medusa è nella produzione). La vittoria dell’Oscar non segnala necessariamente un capolavoro, anzi, molte volte è il contrario. Un genio visionario quale Stanley Kubrick non se lo aggiudicò mai. Nella filmografia di Sorrentino riteniamo più icastico ed epocale Il divo (2008), grottesco e crepuscolare ritratto di Andreotti: un’autentica allegoria della recente storia patria. Pur tuttavia lo spettacolo, lo sport, la cultura, la creatività in genere riescono talora a innescare o agglutinare dei flussi di emozioni e di energia collettive.

Dalla prima proiezione di La grande bellezza a Cannes 2013 in avanti, la cavalcata «western» di Sorrentino verso Los Angeles non è stata priva di ostacoli e di battute d’arresto,  d’altro canto giovandosi dell’appoggio di italo-americani illustri come Martin Scorsese e di un diffuso marketing emozionale. Man mano che si avvicinava il traguardo della «notte delle stelle», soprattutto sui social network ha preso corpo una sorta di tifo «virale» per il film, di là dai singoli giudizi di valore. La passione si è rinfocolata alla vigilia del verdetto, dinanzi alla «diretta» notturna di Sky e ai maxi-schermi allestiti a Roma e in altre città (l’insonnia si addice all’«evento», eccezion fatta per gli insonni). Magari c’entra la teoria dei «neuroni specchio» formulata  dallo scienziato Giacomo Rizzolatti, di cui parlava giorni fa a Bari il magister creativo Alfredo Accatino. In soldoni, questi cosiddetti «neuroni specchio» si attivano quando l’animale compie un’azione e, parimenti, quando osserva la medesima azione compiuta da un altro soggetto. Il che vale per la scimmia e mutatis mutandis per l’essere umano.

In tale chiave di lettura, a ritirare l’Oscar a Hollywood non vi erano soltanto Sorrentino, il suo protagonista Toni Servillo e uno dei suoi produttori, Nicola Giuliano, per inciso tutti e tre napoletani. A essere premiata era mezza Italia che si è «proiettata» su quel palco, è sobbalzata all’annuncio di The Great Beauty, si è specchiata in  una notizia che finalmente consente di festeggiare qualcosa. Più o meno – oddio, meno – come accade al Mondiale di calcio, quando persino gli indifferenti  e gli snob si affacciano alla finestra e sventolano timidamente il tricolore urlando contro i tedeschi, chiunque sia l’antagonista in finale… Già, il calcio. Sorrentino non è salito sulle poltrone del teatro come Roberto Benigni nel 1999, ma ha toccato ugualmente le corde pop della platea. Ha infatti ringraziato i compagni di set, la moglie Daniela con i figlioli e le sue «fonti di ispirazione»: Federico Fellini, Martin Scorsese, i Talking Heads e Diego Armando Maradona.

Maradona ieri ha ringraziato  per voce del suo avvocato difensore nella causa contro il fisco italiano: «È un onore. I grandi napoletani sono esempi di bellezza e successo nel mondo. L’Oscar si colora d’azzurro e questa è una gioia per tutti. Ringrazio Sorrentino, viva la napoletanità nel mondo e i valori positivi che vincono assieme al grande cinema italiano». Ecque qua, avrebbe detto Peppino De Filippo/Pappagone. L’equivoco è già quasi perfetto. L’elegia malinconica e grottesca, la fiabesca e corrosiva discesa agli inferi capitolini del protagonista Jep Gambardella (Servillo) si vanno mutando in una specie di «Canta Napoli» o di «Simme ‘e Napule, paisà». Idem dicasi per l’omaggio a Fellini, il cui titolo più amato – La dolce vita –  è anche il più equivocato sia in America sia da noi. La dolce vita resta un film amarissimo e profetico sul malessere che covava nelle stagioni del miracolo economico italiano, nei primi anni Sessanta. Evocare Federico il Grande, il quale a Hollywood vinse ben cinque Oscar, era un tributo dovuto, eppure rischia di fomentare il malinteso. Senza dilungarsi sul fatto che i «fellinismi» simbolici di La grande bellezza – metti l’apparizione della giraffa nel sottofinale – segnano le parti meno riuscite del film.

Sorrentino è un rabdomante dell’agonia tricolore. Nella Roma dove tutto muore eppure non muore, come i resti dell’Acquedotto Claudio o le magnifiche statue nascoste nei palazzi principeschi, c’è chi coltiva l’arte di battere la testa contro i muri per dare spettacolo. Roma degli zombie e delle rovine – come intuì Fellini – è stigma e metafora della modernità. Ma nella grazia e nel genio di Fellini, nella sua  pura anarchia narrativa, non vi fu mai spazio per la nostalgia. Altro che amarcord! Oggi l’eventuale redenzione o rivincita dell’Italia in declino può giovarsi di questo film e dell’Oscar a una condizione: niente trionfalismi o eccessi di melassa. La grande bellezza vuol dire che viviamo da un bel pezzo in un’indistinta «grande bruttezza». Basta saperlo.

Articolo apparso sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 4 marzo 2014

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