A BASSA VOCE

Giuliano Amato

Ma davvero siamo razzisti?

In un articolo dedicato agli insulti ripetutamente scagliati contro la nostra ministra per l’integrazione, Cecile Kyenge, l’Economist ci svela  che gli italiani contrari ad avere vicini di altre razze sono oltre l’11%, contro il 4.9% degli inglesi e il 6.9% degli spagnoli. Ma come,  noi ci siamo sempre considerati immuni dal razzismo. Ci sbagliavamo?  Ha ragione chi dice che anni fa  non c’erano manifestazioni di razzismo in Italia semplicemente perché eravamo noi ad emigrare e non gli altri a venire da noi?

Un fondamento di verità la nostra convinzione di non essere razzisti lo possiede senz’altro e riguarda il nostro passato non prossimo, ma remoto, quando l’Italia era terra di insediamento per popoli e tribù provenienti da altri paesi e da altri continenti e quando la vita italiana era la vita delle sue repubbliche marinare, la classica vita dei porti di mare. Eravamo abituati a vivere fra diversi e ad integrarci fra diversi. Non a caso italiani sono divenuti nei secoli gli etruschi, i latini, i franchi, i normanni, gli arabi, i goti e gli ostrogoti. E a differenza che in altri paesi, nessuno da noi si è mai lamentato perché il sangue della stirpe originaria è stato contaminato dai sopravvenuti.

Poi però sono subentrati dei fattori che hanno sedimentato una cultura, e quindi una percezione di noi stessi, più chiusa e più esclusiva.  Il primo è stato indubbiamente il processo di unificazione nazionale, che ha fatto crescere l’identificazione dell’identità nazionale con quella di una stirpe, di una etnia italica. Non furono pochi i padri fondatori che espressamente la negarono e dettero della italianità una nozione storico-culturale e non etnica. Ma è innegabile che nella retorica risorgimentale l’unità di sangue, vera o presunta che fosse, è stata fatta giocare e ha piantato il suo seme, che nel ventesimo secolo, col fascismo, ha dato poi i suoi frutti più robusti e perversi. A quel punto inoltre, con l’avventura coloniale, con altre etnie abbiamo instaurato il pericoloso rapporto del padrone coi servi e questo, quando ce ne sono le premesse, è da solo un veicolo di razzismo.

C’è stata poi la solidificazione delle nazionalità separate che è insita nella formazione e nell’affiancamento degli Stati nazionali. Ciascuno Stato aveva la sua comunità nazionale, i suoi cittadini,  diversi da quelli degli altri. Alberi diversi, ciascuno con i suoi rami. E chi arriva è altro  rispetto a un precostituito “noi”. Non sottovalutiamo, infine, l’effetto del welfare, che è per definizione nazionale, perché i cittadini di ciascuno Stato pagano il proprio.  Capita allora che ci siano  “contribuenti” scontenti quando il diverso che arriva viene reso partecipe di un sistema di tutele sociali e sanitarie , che non ha contribuito a pagare. Le Corti Costituzionali fanno fatica a far accettare che i diritti della persona sono eguali per tutti, e non solo per i cittadini.  E  non meno facile è far capire che gli stessi  cittadini, da giovani, usufruiscono di servizi che ancora non hanno contribuito a pagare.

Su queste premesse e in questo contesto, l’accettazione dei diversi non viene necessariamente da sé. E tanto meno viene quando la prima reazione all’immigrazione è la paura, o perché si temono dei concorrenti per il lavoro, o semplicemente perché non si capiscono i nuovi arrivati, non se ne capiscono né la lingua né le abitudini.

All’integrazione  fra diversi ci siamo disabituati da secoli e molti di noi, forse tutti noi, la dobbiamo reimparare. E’ questo il nostro problema e ha ragione Cecile Kyenge che la mette proprio in questi termini. E’ fondamentale la scuola, perché abitua i bambini a vedersi eguali al di là delle differenze di abbigliamento o di pelle ed è inoltre un formidabile polo di attrazione, e quindi di educazione, per i loro genitori. E’ fondamentale poi il luogo di lavoro, così come sono fondamentali i mezzi di comunicazione, ad una condizione, alla quale i bambini arrivano di istinto, mentre gli adulti imparano a praticarla e non mi pare che noi italiani lo abbiamo fatto abbastanza: quella di considerare  il vivere insieme fra diversi una cosa normale  e non  il frutto della particolare bontà di qualcuno. Chi scrive fiction che pretendono di insegnare l’integrazione farebbe bene a tenerlo presente.

Lo può aiutare una storiella che circola fra quanti  si occupano di queste cose. E’ quella di un bambino che ha, fra gli altri, un compagno di classe nero e che, all’inizio dell’anno scolastico, mostra al padre una foto di gruppo. Il padre punta il dito sulla foto e gli chiede: “Come si chiama quello?”. E il figlio, a sua volta: “Chi, quello nero?”. Qualche mese dopo mostra al padre una foto scattata nella ricreazione e il padre, puntando il dito sullo stesso bambino, chiede: ”Ma gioca bene a pallone anche lui?”. E il figlio:  “Chi, quello col maglione rosso?”.

Dal blog di Giuliano Amato.

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