LIVING TOGETHER, DIFFERENTLY

Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Libertà di espressione. Tra paranoie e pluralismo

Parole.

L’ondata di proteste che i media ci dicono attraversare il mondo islamico a seguito prima del film “Innocence of Muslims” e dopo delle vignette pubblicate su un giornale satirico francese, ha naturalmente riaperto la discussione su una questione delicatissima come quella della libertà di espressione. Dico riaperto perché essa si ripropone ormai ciclicamente, e in relazione ai rapporti tra Occidente e Islam almeno a partire dai Versetti satanici di Rushdie, passando poi per il post-11 Settembre, le note e più recenti vicende delle vignette pubblicate in Danimarca, fino ad arrivare appunto alla cronaca di questi giorni. Lasciando alla filosofia del diritto e alla filosofia politica il compito di discutere di libertà di espressione in termini di principi, vorrei avanzare tre tipi di considerazioni.

In primo luogo, il dibattito che si va riaprendo sulla libertà di espressione mi sembra viziato da una distorsione mediatica della realtà. Il messaggio che i media trasmettono è quello di un mondo islamico in preda alle convulsioni e ad una reazione violenta a fronte di quella che percepisce come la profanazione di valori e simboli sacri. Nel mondo islamico quella percezione c’è, come purtroppo la reazione violenta che è costata la profanazione della santità della vita; esecrabile e inaccettabile. Ma il mondo islamico è ben lungi dall’essere in preda a convulsioni e reazioni indiscriminatamente violente. La sovra-rappresentazione delle reazioni di movimenti salafiti – dettate peraltro dall’incontro esplosivo di variabili che non sono certo solo religiose ma anche politiche ed economiche – oscura o relega in secondo piano i mille inviti alla calma, alla non violenza, alla protesta pacifica, che sono quotidianamente lanciati da leader religiosi e rappresentanti di istituzioni islamiche in molti paesi. L’idea di un Islam in guerra con l’occidente e del diritto-dovere di quest’ultimo di ergersi a paladino di valori come la libertà di espressione è né più né meno che una paranoia.

In secondo luogo, il dibattito in corso sulla libertà di espressione mi sembra viziato da una ulteriore paranoia. I paladini della occidentale libertà di espressione, che con assoluto senso di irresponsabilità mettono a rischio la sicurezza di tanti per autoproclamarsi difensori della civiltà libera, operano un clamoroso e disonesto rovesciamento dei rapporti di forza. Le leggi, in vigore in alcuni paesi o allo studio in altri, che sanzionano l’incitamento all’odio razziale, religioso, etnico, sono leggi volte alla protezione di minoranze, di gruppi vulnerabili, esposti alla violenza di maggioranze. In Occidente, in Europa, i rapporti di forza sono questi. In Europa, in Occidente, la realtà dei rapporti di forza non è quella di una libertà di espressione messa a rischio dalla furia censoria di pre-illuministiche forze religiose, ma quella di minoranze che devono essere difese dalla violenza simbolica e non solo simbolica di chi ne offende valori, credenze e tradizioni. Le leggi di cui si discute (per l’Italia si veda ad esempio http://www.lunaria.org/wp-content/uploads/2012/08/Information-paper-on-racist-hate-speech-Italian-network-on-racial-discrimination.pdf) servono a proteggere uno spazio pubblico pluralista, minacciato da maggioranze che usano la libertà di espressione come strumento per ridurre gli spazi di pluralismo. La realtà è semplicemente questa, e l’idea che la libertà di espressione sia oggi a rischio è una paranoia che omette in modo disonesto di considerare le basi sociologiche della discussione.

In terzo luogo, il dibattito sulla libertà di espressione presuntamente minacciata, come in generale molte altre discussioni che chiamano in causa l’Islam, l’Europa e l’Occidente, è viziato da una terza paranoia, quella che definirei la madre di tutte le paranoie. Rowan Williams, figura esemplare sulla quale tornerò prossimamente, ha recentemente colto (con riferimento al Regno Unito, ma il discorso è generalizzabile) sia i tratti essenziali di questa paranoia sia la sua ‘forma fondazionale’, la sua matrice per così dire: “negli ultimi anni, ancor più che al tempo della controversia sui Versetti satanici, molti commentatori sono caduti nella classica trappola ‘anti-semita’: l’Islam è percepito su scala globale come un pericolo organizzato, coerente e onnipresente, e l’Islam nella sua realtà locale in Inghilterra è visto attraverso questo prisma. Se questo è il mondo in cui viviamo, allora qualcosa come i Versetti satanici o le vignette danesi diventano una coraggiosa affermazione del diritto ad attaccare i simboli di una oppressiva egemonia globale” (Faith in Public Square, 1012, p. 144). Così come in passato (e nel presente) l’anti-semitismo è sempre stato alimentato da paranoie su globali complotti giudaici, oggi l’islamofobia si nutre di visioni altrettanto febbricitanti dell’Islam, e i manifesti e le stragi in difesa dell’identità europea minacciata muovono da paranoie di questo tipo. I paladini dell’identità europea, armati di fucili o di matite (che pur non essendo come i fucili possono essere usate con analoga irresponsabilità), costruiscono un pericolo inesistente e poi usano la violenza, simbolica e fisica, per ‘difendere’ la civiltà delle libertà contro il pericolo da loro stessi costruito. La realtà però è quella di minoranze (non solo quella islamica) che giustamente altri pensano di dover proteggere da uno spazio pubblico e mediatico in cui l’incitamento all’odio si va facendo sempre più normale, tanto da non suscitare reazioni, da lasciarci indifferenti. La storia ha mostrato quanto l’indifferenza sia il primo passo verso il baratro, e dunque ben vengano iniziative tese a promuovere anticorpi, nello spazio dei media (penso a quelle del Centre for Media Pluralism and Media Freedom ad esempio) come nello spazio sociale nel suo insieme.

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