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Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Le molte Santa Sofia turche: chiaro-scuri e semplificazioni

Fatti.

La notizia viene data dal quotidiano (non certo filo-governativo e con tradizione kemalista) Hürriyet venerdì scorso: il museo ex chiesa ex moschea di Santa Sofia di Trebisonda potrebbe presto riaprire come luogo di culto, nelle vesti di moschea. Omonima della più famosa Santa Sofia di Istanbul e di altre cinque sparse per il paese, la Santa Sofia di Trebisonda con tutte il medesimo destino: chiesa prima, convertita in moschea, poi in museo dopo l’avvento della Repubblica. Delle sette Santa Sofia esistenti in Turchia, cinque sono attualmente moschee, le restanti due musei, chiusi al culto. L’ultima a essere riconvertita in moschea è stata quella di Iznik, un tempo Nicea, sede di due noti e importanti concili della cristianità, e dunque sito dall’alto valore simbolico. Anche Trebisonda non è un posto come un altro, essendo stato lì barbaramente ucciso il 6 febbraio 2006 Padre Andrea Santoro, per mano di un fanatico nazionalista, mentre celebrava il culto. Un luogo, in sostanza, simbolo delle discriminazioni che le minoranze cristiane patiscono nella Turchia moderna e contemporanea.

La notizia fa rumore, e infatti viene raccolta anche dalla stampa cattolica italiana, che la interpreta come l’ennesimo segno di un progressivo scivolamento del governo Erdoğan verso una china di re-islamizzazione del Paese. Soprattutto, la si legge come passo propedeutico alla riapertura della Santa Sofia di Istanbul al culto islamico. Cosa che, indubitabilmente, avrebbe un ben più significativo impatto simbolico. Se si pensa che pochi giorni fa è stata depositata al Parlamento turco richiesta in tal senso da (tre) cittadini, che si fanno forti di un sondaggio effettuato su 400 persone di cui il 97% ne chiede la riapertura come moschea, i sospetti appaiono fondati.

I segnali che vengono dalla Turchia sono contraddittori, tanto che non se ne può fare lista completa nello spazio di un post: mentre si aprono nuovi negoziati sulla questione kurda e il kurdo viene ammesso come lingua nei tribunali e nei comizi politici, leggi draconiane sul terrorismo consentono di tenere in prigione persone accusate di terrorismo senza prove;  mentre si tentano in varie direzioni politiche consequenziali con proclamati programmi di democratizzazione, si prospettano possibili richieste di adesione a club non propriamente democratici come l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO), cui aderiscono Cina, Russia e altri paesi che non brillano per rispetto dei diritti umani, qualora l’Europa continuasse ad avere una politica iniqua nei confronti della richiesta turca di adesione alla UE (come, insomma, se UE e SCO fossero la stessa cosa). Si potrebbe continuare a lungo; la verità, a me sembra, è che il quadro turco è un quadro in chiaro-scuro, gravido di possibili sviluppi incerti e multiformi. I segnali preoccupanti non mancano, come non mancano le spinte democratizzatrici, che vengono soprattutto dal fronte liberale alleato con L’AKP di Erdoğan negli anni in cui la spinta riformista di quest’ultimo era più forte, e dalla parte dello stesso campo islamico che quella spinta riformista coniuga con i suoi valori più profondi (a partire, sembra di capire, dal presidente Gül, anche sulla questione SCO in dissenso con Erdoğan). Quello che sorprende è però come un quadro complesso e in chiaro-scuro come questo venga semplificato ad esempio sulla stampa italiana.

La notizia della possibile riapertura come moschea della Santa Sofia di Trebisonda viene data da Avvenire, e il tono generale è quello di un ‘attacco alla laicità’. L’articolo è corredato da una serie di informazioni sui fatti turchi non proprio neutrali o complete: un box ricorda l’assassinio di Padre Santoro, un altro le dichiarazioni di Erdoğan sulla ‘scelta’ tra UE e SCO, e lo stesso articolo centrale inanella una serie di sintesi alquanto approssimative (che lasciano intendere tra l’altro che l’allontanamento dei militari dalla vita civile sarebbe uno degli indizi dell’avversione dell’attuale governo nei confronti della laicità).

La riapertura eventuale della Santa Sofia di Trebisonda (non una città come un’altra, ma un centro del nazionalismo turco) come moschea non mi sembra una buona notizia; tanto meno lo sarebbe la riapertura con le stesse funzioni della Santa Sofia di Istanbul. Ma non è per il mantenimento di questi siti, gravidi di memorie, come musei che passa la difesa della laicità. È strumentale attaccare come anti-laica la loro riapertura eventuale perché di segno islamico. Non è meno dolorosa e mortificante, in una prospettiva pluralista, la loro condizione museale. Hrant Dink, a proposito della Santa Sofia di Istanbul, sosteneva che: “Multiculturalità non è trasformare un luogo di culto in un museo in nome della laicità, è rispettare le persone devote e tenere aperti i luoghi di culto per loro. A patto che su quel punto non si faccia una discriminazione in senso negativo per nessuno” (L’inquietudine della colomba, 2008, p. 64).

In Turchia si sta a prendo un dibattito importante sul neo-nazionalismo, il veleno capace di tenere insieme vecchi e nuovi centri di potere, di cementare secolaristi e Islam anti-riformista. La vera sfida al nazionalismo, vecchio e nuovo, non è tenere chiuse le diverse Santa Sofia come luoghi di culto, né ovviamente riaprirle solo come moschee, ma farne simboli pluralisti di una Turchia multi-religiosa e multiculturale.

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