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Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

La pena di morte nel mondo: rapporto 2013

Fatti.

Nessuno tocchi Caino ha presentato il rapporto sulla pena di morte nel mondo 2012, e primi sei mesi del 2013. L’esordio è incoraggiante: ‘l’evoluzione positiva verso l’abolizione della pena di morte in atto da oltre quindici anni, si è confermata nel 2012 e nei primi sei mesi del 2013’. Scende il numero dei paesi che mantengono la pena di morte (40 rispetto ai 43 del 2011, di cui ‘solo’ 22 hanno effettivamente fatto ricorso alle esecuzioni capitali), e scende il numero delle esecuzioni (almeno 3967 contro le almeno 5004 del 2011).

Al di là del dato generale, il rapporto offre un quadro articolato, che suggerirebbe molte riflessioni. Cina, Iran ed Iraq sono i paesi in cui si dà il maggior numero di esecuzioni capitali (3000 circa solo in Cina, il 76% del totale mondiale, ma in rapporto al numero di abitanti è l’Iran il paese ‘primatista’ in assoluto).  872 esecuzioni si sono date in paesi a maggioranza musulmana, molte delle quali ordinate da tribunali islamici in ‘applicazione’ della sharia – fermo restando che, come opportunamente il Rapporto sottolinea, ‘il problema non è il Corano perché non tutti i paesi islamici che a esso si ispirano praticano la pena di morte o fanno di quel testo il proprio codice penale, civile o, addirittura, la propria legge fondamentale. Il problema è la traduzione letterale di un testo millenario in norme penali, punizioni e prescrizioni valide per i nostri giorni, operata da regimi fondamentalisti, dittatoriali o autoritari al fine di impedire qualsiasi cambiamento democratico’. A dispetto dell’allargarsi del fronte abolizionista, di diritto o di fatto (altri  7 paesi nei primi sei mesi del 2013 si sono aggiunti ad esso), si registra una preoccupante ripresa delle esecuzioni in paesi che da anni ne avevano visto la sospensione. Oltre a Botswana, Giappone, India e Indonesia, hanno ripreso le esecuzioni il Gambia, il Pakistan, il Kuwait e la Nigeria. A preoccupare, e far riflettere, non è solo il dato relativo alla ripresa delle esecuzioni in paesi in cui esse sembravano destinate a essere definitivamente soppresse, ma il fatto che parte di questi paesi siano definibili democrazie liberali, ‘con ciò considerando non solo il sistema politico del Paese, ma anche il sistema dei diritti umani, il rispetto dei diritti civili e politici, delle libertà economiche e delle regole dello Stato di diritto’. Il Giappone ha visto la ripresa delle esecuzioni (7 nel 2012 e 5 nei primi sei mesi del 2013) durante il governo del partito democratico; India, Indonesia e Taiwan, hanno fatto ricorso a impiccagioni e fucilazioni pur nel mezzo di dibattiti nazionali sull’ opportunità di aderire alla moratoria internazionale. In Europa, continente altrimenti libero dalla pena di morte, la Bielorussia nel 2012 ha eseguito tre condanne capitali, mentre la Russia, che ancora formalmente la mantiene, è impegnata ad abolirla anche di diritto. Naturalmente, nel triste capitolo ‘democrazie e pena di morte’ a farla da padrone è il ruolo degli Stati Uniti, in cui però oltre a continuare la tendenza alla diminuzione degli Stati esecuzionisti e i detenuti nei bracci della morte, altri due stati hanno raggiunto il fronte abolizionista. Di fatto, ‘solo’ nove Stati (Texas, Arizona, Oklahoma, Mississippi, Ohio, Florida, South Dakota, Delaware e Idaho) hanno eseguito sentenze capitali, 43 in totale nel 2012. A tenere vivo il dibattito negli Usa, non è solo la questione degli errori giudiziari, ma anche o forse più ultimamente quella relativa ai costi economici della pena di morte, sempre meno sostenibili secondo studi recenti rispetto al costo di pene alternative come l’ergastolo. Per finire, il rapporto (che in tutta la sua ricchezza è consultabile sul sito di Nessuno tocchi Caino) si sofferma sui metodi con cui vengono eseguite le sentenze capitali, regalando una galleria di orrori e barbarie che va dalla ‘civiltà dell’iniezione letale’ (metodo ritenuto più pulito, sicuro e conveniente, la cui ‘umanità’ è pero tutt’altro che pacifica, essendo dimostrata la sofferenza delle persone uccise con questo metodo), alla fucilazione, dalla lapidazione alla decapitazione, dalle torture aggiuntive durante le esecuzioni allo ‘spettacolo’ dell’esposizione pubblica del corpo, vivo o morto.

Ci sarebbero molti altri elementi da richiamare del Rapporto di Nessuno tocchi Caino: i dati di cui parliamo sono incerti e approssimativi, non esistendo in molti paesi statistiche ufficiali ed essendo la pena di morte ‘top secret’; esiste ancora una quota di sentenze a danno di minori; i reati per cui la pena capitale viene comminata vanno  dal dissenso politico a quello religioso rispetto a regimi dittatoriali o teocratici, dallo spaccio di droga all’omosessualità, dal terrorismo a, ovviamente, l’omicidio.  Tra le molte riflessioni che il Rapporto sollecita, tuttavia, il capitolo ‘democrazie e pena di morte’ è naturalmente particolarmente angosciante. Che la pena di morte sia pratica ancora diffusa in sistemi dittatoriali o autoritari che vogliono impedire cambiamenti democratici, è cosa che possiamo intuire, e contro cui possiamo ‘facilmente’ far risuonare la nostra indignazione di democratici. Ma che siano le democrazie o i regimi liberali a far segnare una ripresa delle esecuzioni (e la portata dei ‘numeri’ qui è relativamente importante), o che i paesi autoritari in questione siano quelli con cui le democrazie fanno i maggiori affari (vedi la Cina), beh, questo naturalmente ci mette leggermente più in imbarazzo. Quel che mi interessa, tuttavia, non è neanche, di per sé, l’ipocrisia delle democrazie liberali – che non  fa notizia e non sorprende più quasi nessuno  –, ma le ragioni profonde per le quali le democrazie possono continuare a  includere la pena di morte nel loro orizzonte, senza che questo sia, nel migliore dei casi, nulla di più che un fatto controverso tra gli altri o, nel peggiore, un fatto contro cui anche solo  levare una voce critica è atto di anticonformismo difficile da sostenere.  Il caso statunitense è certamente il più significativo e complesso, e su questo mi riservo di tornare in un post successivo. In termini generali, però, si deve cercare di fare uno sforzo di comprensione del significato che la pena di morte può avere, ancora oggi, nelle democrazie; il che non ha nulla a che fare con la condanna più radicale e l’impegno per la sua abolizione (o forse sì, ha a che fare nella misura in cui uno sforzo di comprensione è condizione necessaria per qualsiasi politica seriamente e non velleitariamente abolizionista).

Qualche considerazione a partire da un quadro di riferimento culturalista, di ispirazione durkheimiana. Non l’unico possibile, certamente, ma un quadro che – anche nella sociologia della devianza o del diritto odierni – continua ad avere il suo corso e le sue ragioni. Tra fine ottocento e primi del novecento, Émile Durkheim fissava i tratti generali di una teoria del diritto e dell’evoluzione del sistema penale moderno (occidentale), sintetizzabile nei seguenti termini:

a)      Il diritto è l’indicatore empirico del tipo di solidarietà sociale che vige all’interno di una determinata società. Quanto più si ha a che fare con società semplici, a bassa differenziazione interna, con scarso individualismo e pluralismo, tanto più c’è da attendersi un sistema giuridico in cui il diritto penale copra una vasta area di reati e di aspetti della vita sociale. In altri termini, quanto più le società sono omogenee, sono caratterizzate da un vasto insieme di credenze, usanze, tradizioni condivise; quanto più hanno una forte ‘coscienza collettiva’, un nucleo identitario ‘sacralizzato’, tanto più sentiranno l’esigenza di proteggere questi valori condivisi ritenuti sacri attraverso il diritto penale. La pena di morte, in quest’ottica, è la violenta reazione – vendetta nel senso letterale del termine – di una società che sente di dover proteggere la sua esistenza minacciata. Al contrario, quanto più la società si fa internamente differenziata, aumenta il pluralismo e l’individualismo, tanto meno esteso sarà l’insieme di credenze, usanze e tradizioni condivise, tanto più debole il nucleo di valori comuni sacralizzato, e tanto meno ampio sarà il raggio normativo del sistema penale. In società di questo genere, cioè in società moderne, il diritto amministrativo prevale su quello penale, che si limita a regolamentare un’area circoscritta, rispetto al passato, di reati.

b)      L’evoluzione del sistema giuridico moderno vede quindi, per Durkheim, un restringersi del raggio d’azione del diritto penale, chiamato oggi (come ieri) a difendere un nucleo di valori comuni considerati sacri che però oggi (a differenza del passato) si è ristretto e assottigliato. L’unico valore condiviso e considerato oggi sacro è proprio il valore dell’individualismo: l’uomo diventa, scriveva Durkheim, oggetto e fedele di un culto nuovo, quello dell’individualismo, intendendo con ciò il rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti. Dunque, paradossalmente, la vendetta della società è chiamata oggi a esercitarsi non per una qualsiasi violazione di un valore condiviso, perché la voce della collettività ha rinunciato a farsi sentire in ogni piega della vita di individui e gruppi, ma solo laddove e allorquando viola l’unico valore davvero inviolabile, la dignità della persona. La restrizione delle libertà della persona è concepibile solo quando si deve punire un attentato alla libertà della persona stessa, fino ad arrivare a chiedere nei casi estremi la sua soppressione come strumento di difesa simbolica contro il rischio di erosione della credenza collettiva nella sacralità della persona. La pena di morte, in quest’ottica, altro non è nelle democrazie moderne che una paradossale simbolica riaffermazione della sacralità della persona.

c)       Può piacere come no, e non è questo il punto. Un po’ di intelligenza dovrebbe bastare per capire che di tutto si tratta meno che di una giustificazione per la vendetta di Stato. La stessa cosa vale per l’ulteriore argomento durkheimiano: efferati reati che ledono la sacralità della persona suscitano nell’opinione pubblica uno sdegno ardente, una esaltazione collettiva che chiede una compensazione del danno e un gesto catartico. La pena di morte rappresenta una messa in scena drammaturgica (nel senso più completo dell’espressione) tramite la quale un’uccisione più giusta ‘pareggia i conti’, canalizza l’effervescenza collettiva verso il piacere di punire, offre un palcoscenico al bisogno di festeggiare per la riaffermazione del diritto della collettività a non vedere lesi i suoi valori essenziali ed irrinunciabili. Nel caso della modernità, torno a ripetere, questi valori hanno a che fare proprio con il rispetto dell’individualismo, ed ecco allora che anche la sentenza capitale – con tutto il valore simbolico di canalizzazione di una effervescenza collettiva, di un bisogno collettivo di catarsi e protezione – deve adeguarsi al rispetto di questo valore: da qui consegue l’‘incivilimento’ delle procedure di uccisione, la morte ‘pulita, sicura e conveniente’ prodotta dall’iniezione di una dose letale di Pentobarbital, preferita a fucilazioni e decapitazioni che urtano contro i nostri presupposti morali.

Contro questi presupposti morali urta anche l’angosciosa possibilità di un errore giudiziario, di una distribuzione classista delle pene capitali, l’inefficacia assodata della pena di morte quale strumento di deterrenza, e così via per tutti gli argomenti che spingono oggi con sacrosante ragioni a lottare per la sua abolizione. Ciò non toglie, tuttavia, che le democrazie forse meno ma in modo non del tutto dissimile da altre società, semplicemente in quanto società con certe leggi di funzionamento, necessitano e di strumenti di protezione del proprio nucleo di valori condivisi, di canali di messa in scena collettiva di sdegno e riprovazione per la loro violazione, e di strumenti giuridici per dare forma e visibilità all’espiazione collettiva di un’offesa ritenuta inaccettabile. Il diritto è e rimane, in forma mite forse, uno strumento di vendetta collettiva di cui la società ha bisogno. Non meno di qualsiasi altra società le democrazie hanno bisogno di drammatizzate forme di affermazione e riaffermazione della propria solidarietà interna, e di forme drammatizzate di espiazione della colpa. Non comprenderlo rischia solo di essere un ‘buonismo’ che non giova alla causa dell’incivilimento di queste forme. Negli anni Ottanta e Novanta del Novecento, quelli che hanno visto l’apice dei dibattiti filosofico-politici intorno ai fondamenti normativi delle società liberal-democratiche, risultava assordante il silenzio dei filosofi intorno alla pena di morte: il meglio della filosofia politica liberal statunitense, per esempio, da Dworkin a Rawls, non mi risulta abbia mai sfidato in modo significativo  il consenso sociale diffuso in quegli anni sulla pena di morte. Se a questo conformismo si associa un generico buonismo che porta a condanne moralistiche disattente nei confronti dei meccanismi profondi di funzionamento del sociale, si rischia di rendere la battaglia contro la pena di morte velleitaria e inefficace. Un pizzico di psicologia del profondo riferita al sociale è forse opportuno proprio per rendere quella battaglia, nelle democrazie come altrove, più capace di incidere negli immaginari collettivi. Un contributo sociologico alla lotta contro la pena di morte dovrebbe consistere in un’analisi di tipo culturalista dell’intera drammaturgia delle sentenze capitali. Dovremmo guardare sì, con rabbia e sdegno, al dramma che si consuma nelle celle della morte, ma anche a quanto si consuma fuori dal braccio della morte, alle opposte veglie di preghiera, alla messa in scena complessiva tramite la quale un corpo sociale ritualizza, tra l’altro, la paura della morte, ne fa argomento di discussione collettiva e ne esorcizza il peso anomico. Senza la capacità di individuare i bisogni, anche funzionali, cui queste rappresentazioni devono dare soddisfazione, non ci può essere modo per sviluppare alternative al loro soddisfacimento più in tono con le nostre intuizioni morali.

  1. La Giustizia e lo stato li ho sempre visti come dei genitori impegnati a difendere i propri figli=popolo, ad educarli, a correggerli, ad amministrare la casa per garantire a tutti un benessere e la sicurezza necessari a vivere. L’utilizzo da parte dello stato di un atto da esso stesso ritenuto illegale, aberrante e punibile, non fa altro che creare confusione nella società. Punire l’omicidio con un omicidio legalizzato, premeditato e attuato a sangue freddo stimola nella fantasia collettiva l’idea che nell’ottica di una giustizia umana sia lecito uccidere colui o coloro che hanno compiuto il male ai loro occhi… Anche sotto forma di giustizia privata.

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