THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

La nuova frontiera della sharing economy

Quando John Lennon scriveva, mezzo secolo fa, la canzone destinata a diventare il simbolo della sua generazione, non poteva certo prevedere che, un giorno, la tecnologia avrebbe reso possibile l’utopia che minacciò di scardinare il capitalismo. Oggi una rete che collega telefoni, oggetti e persone, rende possibile “immaginare” la sostituzione di un’economia fondata sul vecchio principio del possesso, con nuovi settori produttivi fondati sul principio della condivisione. Comprendere la portata di trasformazioni di questo genere diventa fondamentale per istituzioni, come la Commissione Europea, il cui compito primario sarebbe quello di guidare una globalizzazione che nessuno più governa.

Per capire quanto sia potente l’idea della condivisione basta pensare al prodotto attorno al quale organizzammo intere società e che, prima di altri, sta transitando verso utilizzazioni condivise: l’automobile. Una delle prime cose che sorprenderebbe un marziano in visita sulla terra è che per decenni abbiamo usato una macchina che pesa mediamente dieci volte di più degli oggetti che sposta; per il novanta per cento del suo tempo essa è fermae nove volte su dieci utilizziamo non più di un terzo della sua velocità potenziale. La cosa curiosa è che, ad ogni passaggio, troviamo percentuali molto simili di spreco per quasi qualsiasi bene: dalle case ai computer, dagli acquedotti alle strade. L’idea è quella, dunque, di procedereal contrario convertendo, in ogni fase, la dissipazione in valore, cedendo la capacità in eccesso a chi ne ha bisogno: un’ipotesidifficile da resistere, laddove crisi economica e ambientale ci impongono l’efficienza e le tecnologie abbattono i costi di transazione.

Il progresso è, tuttavia, sempre accompagnato da contraddizioni: grandi sono le opportunità, ma anche i rischi e l’innovazione ha bisogno di un regolatore intelligente per non morire dei suoi paradossi. La Commissione europea ci sta provando da qualche mese, ma lo fa applicando a criteri vecchi a problemi nuovi.

In realtà quando si parla di “economia della condivisione” mettiamo insieme cose molto diverse. Uno schema concettuale possibile è quello che considera tre nodi importanti.

Conta, innanzitutto, la reale autonomia di chi eroga pezzi del proprio tempo o dei propri beni. Nel caso, ad esempio, di UBER, i prezzi e gli standard di servizio sono stabiliti dall’azienda che fa incontrare domanda ed offerta di passaggi in automobile. È giusto tutelare i consumatori, ma la pretesa della Commissionedi far assumere tutti quelli che mettono a disposizione spazio nella propria vettura, equivale a buttare con l’acqua sporca di possibili abusi, il bambino della imprenditorialità individuale che definisce la natura stessa dell’iniziativa.

In secondo luogo, conta chi controlla la piattaforma digitale attraverso la quale consumatori e produttori si incontrano. Queste infrastrutture sono l’equivalente di ciò che furono nella società industriale le grandi reti di comunicazione: esse erano di proprietà di Stati che si formarono proprio per garantirne l’accesso. La proprietà delle piattaforme si concentra, paradossalmente, nelle mani di una sola impresa, quella scampata alla selezione naturale che per ciascuna tipologia di scambi fa emergere un unico vincitore. Questo “patto con il diavolo” ha consentito al fenomenodi crescere e, però, crea il pericolo che il sogno della condivisione si capovolga nell’incubo di un monopolista dotato di un potere superiore a quello detenuto dai vecchi intermediari. È curioso, a questo proposito, che l’accordo di libero scambio (TTIP) che Stati Uniti e Europa stanno faticosamente negoziando ignora una questione su cui ci giochiamo un pezzo di futuro.

In terzo luogo, fa differenza la presenza o meno l’utilizzazione nello scambio di moneta. Nelle versioni più innovative della condivisione ci si cede reciprocamente servizi; ci si incontra per progettare insieme nuovi beni (come succede con Wikipedia); ci si dona tempo senza chiedere corrispettivo o si parcheggia il diritto di acquisto che ne deriva in un sistema di pagamenti anch’esso condiviso. In questi casi gli scambi creano ricchezza che, per definizione, sfugge alla contabilità del Prodotto Interno Lordo che assilla i governi e i banchieri centrali. Ma mette in crisi, anche, gli stessi sistemi fiscali che nascono dal presupposto che la capacità contributiva di un individuo o impresa sia misurabile registrando trasferimenti di denaro.

Il problema è che un modello di sviluppo che promette il superamento di alcuni dei principi del capitalismo tradizionale, pone un problema cognitivo grosso. Nonché un conflitto di interessi a istituzioni che rischiano di essere scavalcate dal futuro. La chiave di successo sta in una combinazione di pragmatismo e di visione che è indispensabile per guidare la transizione tra un mondo che sta scomparendo ed uno che facciamo ancora fatica ad “immaginare”.

Articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 30 Giugno

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