DA MADRID

Marco Calamai

ingegnere, dirigente sindacale CGIL, funzionario Nazioni Unite. Giornalista, ha scritto libri e saggi sulla Spagna, America latina, Balcani, Medio Oriente. All'ONU si è occupato di democrazia locale, dialogo interculturale, problematiche sociali, questione indigena. Consigliere speciale alla CPA ( Autorità Provvisoria della Coalizione, in Iraq (Nassiriya) si è dimesso dall'incarico ( 2003 ) in aperta polemica con l'occupazione militare. Vive a Madrid dove scrive su origini e identità.

In Siria un nuovo episodio della lunga guerra civile tra sunniti e sciiti

La guerra civile in Siria è uno dei tanti episodi della lunga storia di violenze che ha diviso fin dall’inizio dell’Islam dopo la morte di Maometto (nel 632 dopo Cristo) i sunniti (la grande maggioranza dei circa mille trecento milioni di musulmani nel mondo) dagli sciiti (circa il 15% dei musulmani). Una guerra civile divise subito le tribù arabe e la stessa famiglia del Profeta per la sua eredità. L’Islam si spaccò nelle due sette che tuttora si confrontano in Medio Oriente e in Asia. Se si escludono gli ultimi secoli della storia persiana (l’unico grande paese musulmano dove gli sciiti rappresentano la stragrande maggioranza) la vicenda islamica è stata segnata da una perenne emarginazione della minoranza sciita la quale ha rappresentato la parte oppressa e più povera della società islamica.

Negli ultimi decenni il confronto/scontro tra sunniti e sciiti è stato profondamente segnato dalla rivoluzione iraniana. La quale ha espresso un originale regime, dove il ruolo primario dei capi religiosi (gli ayatollah) s’intreccia con importanti elementi di partecipazione democratica, in particolare le elezioni. Il che lo differenzia radicalmente da altri regimi autoritari della regione (Arabia saudita e i paesi del Golfo). L’Iran ha senza dubbio facilitato il “risveglio” di altre comunità sciite sparse nel grande Islam, in particolare in Iraq e in Libano. In questi due paesi gli sciiti rappresentano la maggioranza assoluta (Iraq) o relativa (Libano) della popolazione. Con l’aiuto politico e materiale dell’Iran le due comunità sciite hanno lottato con successo per arrivare al potere pur accettando in entrambi i paesi di partecipare al governo insieme a altre forze politiche e religiose.

Il risveglio sciita ha provocato profondo malessere nella comunità sunnita. Un tema sottovalutato dagli osservatori occidentali i quali hanno in generale ignorato l’importanza della religione come fattore d’identità nell’Islam. Il che ha provocato grandi errori come la formazione, dopo la prima guerra mondiale, di stati artificiali (tra i quali, guarda caso, proprio l’Iraq, la Siria e il Libano) ovvero stati-nazione che hanno raggruppato differenti comunità religiose che godevano di relativa autonomia sotto l’Impero ottomano. E che ora, per motivi diversi, sembrano incapaci di convivere in pace.

In Medio Oriente, si confrontano due blocchi di paesi islamici. Quello ad egemonia sunnita (Arabia saudita, paesi del Golfo, Egitto, Giordania, Turchia) e quello dominato dagli sciiti (Iran, Iraq, Siria, Libano). Il primo sponsorizzato dagli Stati Uniti, il secondo dalla Russia. L’evoluzione della situazione in due paesi chiave della regione (Iraq e Siria) ha alimentato una crescente tensione tra le due comunità che ora rischia di deflagrare in un grande e micidiale conflitto regionale. A meno che Russia e Stati Uniti non spingano verso la pace la guerra sembra inevitabile. Ed è difficile immaginare che la guerra si limiti al teatro siriano senza coinvolgere in qualche modo altre realtà della regione. Non si dimentichi il peso di un altro fattore chiave del Medio Oriente ovvero il ruolo di Israele, la grande nemica dell’Iran e degli Hezbollah che ha sempre spinto gli Stati Uniti verso una posizione oggettivamente anti sciita e filo sunnita. In questo momento sono all’opera negli Stati Uniti potenti lobby ebraiche che spingono per l’intervento in Siria.

I fattori sopra indicati aiutano a capire il dramma siriano. Analizziamolo in sintesi. Gli alawiti, al potere da quaranta anni in Siria con gli Al Assad, sono una sub setta sciita (il che anche spiega il forte vincolo con l’Iran e gli Hezbollah libanesi), che tuttavia rappresenta una minoranza etnico – religiosa (il 12% circa dei siriani mentre i sunniti sono il 60%). Gli Assad sono riusciti a mantenere il potere combinando il controllo di uno stato totalitario, repressivo e onnipresente, con un’accorta politica delle alleanze. Parte del potere economico è stato lasciato in mani sunnite; le altre minoranze (curdi, cristiani e drusi) sono state tollerate e spesso protette ( come avviene in questo momento con i cristiani, in gran parte schierati con il regime per paura del radicalismo sunnita). Questo patto, che ha garantito ordine e stabilità per quattro decenni, è ora saltato. Il crescente malessere sociale (alti livelli di disoccupazione specie giovanile, povertà diffusa, crescente distanza tra ceti ambienti e masse), si è trasformato nella primavera del 2011 in protesta aperta contro il regime. Il quale, con la repressione sanguinosa delle prime manifestazioni di piazza, ha scatenato una reazione rabbiosa di vasta portata. In essa si sono inseriti i gruppi fondamentalisti di matrice sunnita i quali, con l’aiuto dei ribelli sunniti iracheni ispirati dalla ideologia di Al Qaeda, hanno iniziato a rispondere con le armi alla durissima repressione. Gli scontri si sono estesi a macchia di leopardo, la primavera siriana si è trasformata in sanguinosa guerra civile.

Il mondo islamico è attraversato da una crisi profonda che è insieme economica, sociale, culturale. Lo scontro storico tra sunniti e sciiti, reso più acuto da questa crisi, è sfruttato dai gruppi più radicali del sunnismo. Per i quali gli sciiti non sono soltanto “infedeli” come i cristiani ma anche “eretici”. E’ stato detto: più che a uno “scontro tra civiltà” si è di fronte a uno “scontro all’interno delle civiltà”. Dove l’appartenenza religiosa diventa momento essenziale di un’identità scossa e insicura. In mancanza di alternative politiche credibili, privo di un progetto di società che possa misurarsi con le sfide della modernità, il mondo islamico si chiude nei suoi “territori culturali” e guarda al mondo esterno con sfiducia e crescente risentimento. Ma l’esterno non è più solo il mondo occidentale il quale è comunque percepito come una delle cause principali del proprio declino. E’ anche l’altro da sé, anche se appartiene alla stessa tradizione religiosa. Come è avvenuto in Europa per un lungo periodo tra cattolici e protestanti. E qui interviene un fatto nuovo. Gli sciiti, minoranza emarginata e perseguitata fin dall’inizio dell’Islam, hanno, grazie alla rivoluzione iraniana del 1979, alzato la testa rivendicando ovunque più potere e partecipazione. I sunniti hanno percepito questa spinta come una sfida minacciosa alla propria egemonia. Poi è arrivato il “disastro” iracheno. Che ha fatto esplodere la non risolta questione del potere in un paese “inventato” che gli inglesi, negli anni venti del secolo scorso, avevano affidato alla minoranza sunnita. Con il risultato che l’Iraq è oggi un alleato dell’Iran degli Ayatollah tanto odiati dagli americani e dai sunniti.

Come affrontare il puzzle siriano e medio orientale evitando il rischio terribile di una guerra su larga scala? La risposta a questo quesito sta oggi, più che mai, nelle mani della superpotenza. La quale appare profondamente incerta sul che fare. Non c’è un piano, manca un programma di pacificazione della guerra civile siriana che consideri lucidamente i fattori sopra indicati. Anche per questo sono in molti a chiedersi quali conseguenze possano provocare gli eventuali bombardamenti punitivi contro il despota di Damasco. Obama sa bene che i bad boys non stanno da una parte sola. E non ignora il pericolo che la punizione di El Assad finisca per favorire proprio loro, ovvero i militanti del sunnismo fondamentalista che si battono contro il regime. Gli stessi che provocano un giorno sì e uno no stragi d’inermi cittadini sciiti in Iraq.

Eppure, proprio in questi giorni, arriva dal mondo islamico un segnale importante. Rohani, il presidente neo eletto dell’Iran, sta dimostrando una sensibilità nuova verso la drammatica situazione internazionale. Gli auguri in rete del Ministro degli Esteri agli ebrei in occasione di una loro importante festa religiosa hanno sorpreso tutti.

E pongono Obama e il mondo di fronte a un interrogativo cruciale: ha senso trascurare questi segnali in un momento come questo? Non è forse giunta l’ora di chiudere decenni di “guerra fredda” avviando finalmente un dialogo positivo con gli Ayatollah di Teheran senza il quale nessun negoziato multilaterale per la pacificazione siriana può produrre risultati positivi?

Un dialogo con l’Iran non è certo ciò che vogliono i gruppi più oltranzisti e bellicosi della società israeliana. Sta qui un altro nodo cruciale della situazione attuale. Dietro la chiusura ormai trentennale degli Stati Uniti verso l’Iran post rivoluzionario c’è sicuramente la politica anti iraniana di Israele. Non si dimentichi che l’unica sconfitta militare subita da Israele è stata provocata proprio dagli Hezbollah, i più fedeli amici di Teheran. Obama, dal canto suo, appare sempre più condizionato dalle lobby israeliane più favorevoli all’intervento in Siria.

Ora, tuttavia, non c’è più tempo da perdere. Per fermare la guerra civile in Siria non sono importanti le armi ma è invece fondamentale la volontà negoziale. Occorre fermare il rischio di una guerra su vasta scala con l’apertura di una vera trattativa. Cercando soluzioni stabili per le quali è indispensabile il coinvolgimento degli attori regionali sia sunniti che sciiti, della Russia e degli Stati Uniti. Cercando formule di convivenza tra le diverse sette politiche e religiose, sunniti e sciiti in primo luogo ma anche cristiani, drusi, curdi ed eventuali altre comunità minori. Guardiamo al Libano, l’unico paese arabo con un regime pluralista. Sicuramente, con tutti i suoi limiti, è la democrazia più avanzata del mondo arabo. In Libano è stato identificato (1989: accordi di Taif), un assetto adeguato alla complessità politica e religiosa del paese grazie al quale è terminata una sanguinosa guerra civile di ben quindici anni (1975 – 1990). Perché non verificare la possibilità di un assetto analogo anche in Siria? La guerra civile siriana si potrà fermare quando ogni setta si sentirà finalmente riconosciuta e protetta da regole certe e condivise. Un accordo di pace coerente con questa esigenza potrebbe avere, tra l’altro, un effetto molto positivo anche in altri paesi vicini, come l’Iraq e lo stesso Libano, dove la tensione tra sunniti e sciiti rischia di precipitare in altre guerre civili.

Breve e amara conclusione finale. In questo schematico commento è stato trascurato il ruolo dell’Europa. C’è, purtroppo, una ragione. Oggi l’Europa appare più che mai disorientata, divisa tra protagonismi nazionali che prevalgono su qualsiasi ipotesi seria di politica esterna comune. Il risultato è una delega pressoché totale all’iniziativa americana. Eppure la Siria e il Medio Oriente sono molto vicini, pericolosamente vicini.

  1. Grazie sig. Calamai,
    finalmente sono riuscito a capire qualcosa del medio oriente. Grazie a questo articolo molto chiaro ed esauriente, ho conosciuto alcune cose importanti che prima ignoravo.

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