LA GUERRA DEI TRENT'ANNI

Lo Sguardo

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La generazione deposta

 Tra il 1618 e il 1648 l’Europa fu il teatro di una ininterrotta serie di guerre, oggi conosciute sotto il nome collettivo di “Guerra dei Trent’anni”. Il conflitto, che vide numerose fasi e altrettanti rovesciamenti di fronte, fu dei più violenti e, stando agli storici, debellò tra il 15 e il 20% della popolazione europea. Sul diretto impatto demografico della guerra la discussione è ad oggi ancora aperta; ma senz’altro essa, fra combattimenti, carestie, saccheggi e depressione economica spazzò via quasi due intere generazioni: le più giovani e quelle a venire.

I motivi di una simile carneficina erano, almeno in apparenza, teologico-confessionali: il casus belli della cosiddetta “defenestrazione” di Praga gettava le sue radici in una tensione nei rapporti tra cattolici e protestanti che durava da quasi mezzo secolo. Eppure il conflitto si trasformò quasi spontaneamente in una battaglia per l’egemonia politica sull’Europa, ed è forse più opportuno parlare di un’origine teologico-politica del disastro, ricalcando una endiadi molto cara a quei difficili anni.

Quella che con la Guerra dei Trent’anni venne allo scoperto fu una saturazione nel ventaglio delle relazioni possibili tra i due termini di cui si costituiva il concetto di potere: da una parte l’idea di Stato sovrano, che, concepito già da oltre un secolo come un apparato autonomo di uffici, diritti e leggi, stava sostituendo la nozione di res publica; dall’altra l’idea di un ordine trascendente, extramondano e sovrumano, capace di incarnarsi nella sovranità garantendo la legittimità della sua amministrazione del mondo e con ciò stesso rendendo teoricamente possibile un dominio diretto su corpi territoriali, sociali e politici.

La Pace di Westfalia, conclusione del conflitto, determinò, è cosa nota, un nuovo assetto geopolitico del Continente. Sotto l’aspetto geografico essa approssimò l’Europa a quella che oggi tracciamo sulle mappe ma, cosa ben più importante, l’esito della guerra fu il definitivo annientamento di una inveterata concezione del mondo e la costituzione di una rete di istituzioni, giuridicamente e politicamente autonome: le monarchie assolute. Così lo scontro teologico-politico ratificò di fatto una secolarizzazione degli strumenti mediante cui, fino a quel momento, era stato strutturato e veicolato il potere. Per la prima volta dopo millenni si liberavano e si mettevano a disposizione di nascenti sovrani “assoluti” categorie che sinora avevano ospitato una significazione teologico-escatologica, ponendo le basi per una vera e propria “teologia” della sovranità: un modello di potere di cui ancor oggi una società democratica costituitasi ai piedi della Rivoluzione Francese – decapitati i sovrani ma conservata per la società civile la sovranità – si serve a piene mani, in una continuità ossimorica e significativa.

Si comprenderà quanto gli inquieti giorni da cui scriviamo siano i discendenti non soltanto storici degli avvenimenti di quegli anni. L’attuale crisi in cui versa la sovranità della politiche nazionali – costantemente costrette ad adeguarsi alle direttive di enti sovrastatali e sovranazionali – non è forse che un’ulteriore fase della metamorfosi svoltasi al principio del XVII secolo e può essere letta, non solo idealmente, come una continuazione e una conclusione di quegli eventi. D’altro canto non è sfuggito ad alcuni dei nostri più illustri pensatori – e non sfugge a molti osservatori comuni – un vero e proprio rovesciamento di paradigma che ha, per così dire, invertito e sovvertito i rapporti tra il potere e i suoi strumenti di gestione e amministrazione; in primo luogo l’universo economico-finanziario, che oggi atterrisce e domina la società civile come un Leviatano, similmente a quanto Hobbes auspicava facesse proprio il suo sovrano assoluto.

In modo analogo a quanto accadeva in quella sanguinosa fucina dell’Europa moderna sono oggi le generazioni più recenti a vivere in senso viscerale, interiore, l’esperienza dello stato di guerra e di transizione del potere; uno stato in cui la vita stessa è articolata, pensata, progettata e governata in relazione al conflitto in atto, ai suoi spazi, ai suoi tempi e alle sue dinamiche.

Eppure, al di là dei corsi e ricorsi storici, si tratta qui di uno stato di emergenza – quotidiana e del quotidiano – che si somma a una condizione di benessere basilare che il mondo occidentale non aveva conosciuto in precedenza. Da questo paradossale incontro scaturisce forse quell’improvviso impasse della capacità di investimento e di devoluzione del potere che assegna oggi alla dimensione dell’esistenza collettiva l’aspetto di un ricco e pasciuto conato di sussistenza; una stasi che sospende, nell’ingenua illusione di dedicare la totalità delle proprie risorse alla stabilizzazione del proprio assetto, tutto ciò che mira al di là dell’attuale, dell’odierno, o, peggio ancora, di un recentissimo passato.

Quella che sembrava presentarsi come una necessità di guardare al presente si è così trasformata in una radicale impossibilità di pensare e progettare un futuro, ma soprattutto come la tragica incapacità di una generazione di predisporre un lascito per i suoi figli. Una simile crisi – che potremmo dire “perfetta”, giacché media in sé, al tempo stesso, i più rilevanti luoghi delle crisi “dinastiche” e dei conflitti padre-figlio – sta impedendo al mondo occidentale, e in particolare al vecchio Continente, di liberare a suo vantaggio ciò che storicamente è stato il suo più grande potenziale: la capacità di elaborare autonomamente modelli, schemi progettuali e relazioni culturali in grado di sfalsare i precedenti, producendo mondi nuovi e fecondi.

Ed ecco che oggi le nuove generazioni occidentali, diversamente da quelle che un tempo trovavano la morte per ragioni intrinsecamente ideali (o, se si vuole, per ragioni politiche, ideologiche ed egemoniche annacquate nell’idealità) rischiano una lenta morte per assideramento. Assideramento che è in primo luogo culturale e a cui le costringe una condizione planetaria di precarietà e desertificazione valoriale, che archivia con un anticipo davvero paradossale aspirazioni, ideali e progetti ancora neanche espressi. Con molti aggettivi le nuove generazioni sono oggi definite trasparenti, perdute, truffate – addirittura dissolte; ma sembra che esse possano innanzitutto esser dette deposte: una deposizione che ha al tempo stesso il triplice senso di una (ideale) tumulazione, di una rimozione forzata da una carica a cui si ha diritto e infine di una testimonianza – ovvero di una narrazione di sé – realizzata dalla bocca e con le parole di altri. Una generazione, insomma, senza potere: che non può – realizzarsi, esprimersi, riprodursi, raccontarsi – e la cui impotenza è in fin dei conti la tragedia segreta dei padri.

Noi giovani donne e uomini di cultura, ma anche e soprattutto rappresentanti di quella generazione che va oggi dai venti ai trenta, ci proponiamo, qui, di sovvertire questa deposizione, raccontando e condividendo i nostri pensieri, le nostre valutazioni, e in particolar modo i nostri progetti per un mondo a venire.

Abbiamo deciso quindi di intitolare questo blog “La Guerra dei Trent’anni” a sottolineare con un gioco di parole quel duplice senso del conflitto, dell’instabilità e al tempo stesso del punto di svolta storico che rappresenta e rappresenterà, nonostante tutto, il nostro percorso dalla seconda alla terza decade della vita. Quanto vorremmo affermare e dimostrare è che la nostra generazione, oggi intimidita e trasparente, può rivelarsi dotata di un eccezionale coraggio: quello di un quotidiano sforzo per lasciarsi indietro ogni vittimismo e credere in un domani, facendo di questo inquieto frangente storico una straordinaria opportunità di crescita e di rinnovamento. Perché già oggi vi sono al mondo giovani donne e giovani uomini che sono in grado di presentare una personale e articolata riflessione su temi e questioni rilevanti del proprio tempo, irrorando il panorama in cui si situano di idee, riflessioni, proposte, ma soprattutto gettando su di esse quello sguardo inattuale e intrinsecamente proiettato in avanti che è anche e non soltanto la filosofia e che rappresenta la più devastante delle ribellioni.

Questo è infatti per noi il pensare nella sua accezione speculativa e critica, e segnatamente è il suo fine ultimo, politico; lo slancio gratuitamente orientato verso il domani, è un gesto – ci impegniamo a crederlo con forza – del tutto rivoluzionario, che contribuisce oggi e contribuirà un giorno a modificare il vigente. Un processo inarrestabile, a cui chiunque può dare inizio, e a cui, senza clamore, senza voce e senza annunci, qualcuno ha già dato inizio. Ne siamo certi.

Simone Guidi

con Federica Buongiorno, Marzia Caciolini, Lorenzo Ciavatta, Libera Pisano.

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