L'ASINO DI BURIDANO

Massimo Parodi

Professore di Storia della filosofia medievale all'Università Statale di Milano.

Exodus

Praticamente il vero grande amore della mia vita è stato ed è la radio. E’ quasi sempre accesa e mi aiuta a pensare, a distrarmi, a concentrarmi, a sognare, a smettere di sognare, non mi costringe a subire immagini preconfezionate ma mi sommerge di parole che suscitano immagini in libertà, non necessariamente conformi alla realtà, ma disposte a farsi correggere, arricchire, colorare secondo lo stato d’animo del momento. A volte le notizie che entrano nell’ambiente suscitano flussi di antiche immagini che si mescolano, si confondono, costruiscono un film che non è mai esistito.
E’ quello che mi succede in questi giorni in cui, a ogni ora del giorno e della notte, cerco e trovo notizie sugli scontri intorno alla striscia di Gaza, sui missili lanciati contro le città israeliane, sui bambini uccisi, su quanto forse dovrebbero fare le grandi potenze, su quanto forse potrebbe fare l’Europa. I miliziani di Hamas attaccano perché si sentono deboli, la sinistra israeliana si impegna a sostegno della guerra aerea, i palestinesi di Abu Mazel non capisco dove sono e che posizione hanno, la destra israeliana sostiene la guerra di terra e l’invasione. Sotto la pioggia di notizie non riesco più a pensare, nemmeno cerco di immaginare da che parte bisognerebbe stare: sono troppe le parti che si confrontano e sono troppi gli anni in cui ho cercato di capire e non riesco nemmeno più a ricordarmi che cosa mi pareva di avere capito. Le telefonate degli ascoltatori: la povertà, la democrazia, i regimi autoritari, l’olocausto, l’islamismo, l’ebraismo, la Siria, l’Iran, il Mossad, la Gran Bretagna, il 1947; mi scoppia la testa, e allora cominciano ad apparire immagini lontane e disordinate.
Paul Newman, bellissimo e giovane, sulla nave Exodus; la musica straordinaria di quel film; Ferrante & Teicher, il duo pianistico che ho ascoltato riproporre quella colonna sonora una infinità di volte; i bambini che fuggono nella notte; i nazisti che stanno con gli arabi e uccidono l’amico arabo che aveva rivelato a Paul Newman il pericolo incombente. La folla che aspetta i risultati delle votazioni all’ONU sulla spartizione della Palestina e poi l’attentato, l’albergo, il terrorismo.
Mi compare l’immagine di Moshe Dayan nella guerra dei sei giorni, quella benda sull’occhio che – mi vergogno a dirlo – mi ricordava capitan Uncino contro Peter Pan. La forza, la potenza, nomi mitici come il Sinai. E poi Monaco, l’immagine del palestinese con una calza di nylon – credo – sulla testa che si affaccia dal balcone, le trattative, le Olimpiadi che continuano, la strage e non distinguo più quello che si era visto sui giornali e quanto invece proviene dai film visti successivamente.
E poi Sabra e Shatila, l’orrore di quelle immagini, le trattative in Libano, i patti, il tradimento dei patti, la ricerca delle responsabilità, libanesi alleati degli israeliani contro palestinesi, le condanne dell’ONU. E poi l’intifada, le pietre, il muro del pianto, Gerusalemme Gerusalemme. Sarà anche il caldo ma i pensieri e le immagini si fondono in una specie di brodo primordiale da cui non riesco a uscire.
Leggo di un cantante che, durante un concerto in Portogallo di qualche giorno fa, ha dedicato al sogno della pace quella che ha definito una delle canzoni più potenti che mai siano state scritte, vado a cercare le parole, sento nella testa quegli accordi iniziali di chitarra che rimangono inconfondibili, e me la canto da solo, cercando di ricordare dove e quando l’ascoltai per la prima volta dalla voce di John Lennon:

Imagine there’s no heaven / It’s easy if you try / No hell below us / Above us only sky / Imagine all the people / Living for today…
Imagine there’s no countries / It isn’t hard to do / Nothing to kill or die for / And no religion too / Imagine all the people / Living life in peace…
You may say I’m a dreamer / But I’m not the only one / I hope someday you’ll join us / And the world will be as one
Imagine no possessions / I wonder if you can / No need for greed or hunger / A brotherhood of man / Imagine all the people / Sharing all the world…
You may say I’m a dreamer / But I’m not the only one / I hope someday you’ll join us / And the world will live as one

  1. “MI PIACE” “COMMENTA” “CONDIVIDI”

    Singolarmente questo articolo del professor Parodi si intreccia con alcune riflessioni che mi riguardano proprio in questi giorni, in cui sono al lavoro per un ciclo di incontri che avranno per tema la comunicazione, in cui studio ancora il buon vecchio Platone e in cui, mio malgrado, egualmente cerco notizie che mi permettano di discendere qualcosa sul conflitto di cui sopra. Il pungolo, nel mio caso, non viene dalla radio ma, principalmente (e non nascondo una certa vergogna) da facebook, dove puntualmente vi sono post, dei più disparati. Pacifisti, antisemiti, antipalestinesi, bambini morti, bambini che si abbracciano ecc. ecc.; il che non fa che ribadire quanto questi mezzi siano fortemente legati all’immagine. Immagini che, lo confesso, non fanno altro che ricordarmi le ombre della caverna platonica: cercarci una verità nei titoli bianchi in grossetto, semplicisti o raffazzonati, o peggio ancora nei commenti significa farsi dal male.

    Ricordo ancora con vero orrore il brivido che provai, pur da deista, leggendo un commento ad un video su Youtube, sul film Agorà: non a caso la Chiesa ha sempre impedito la circolazione di testi neoplatonici; frase che provocò orrore nel mio spirito accademico e, da semplice cittadino, una gran profusione di latte alle ginocchia.

    Similmente, fra commenti post e immagini, leggo almeno di quattro guerre diverse, ossia di una guerra sola vista attraverso mille pregiudizi diversi.
    Naturalmente, cerco altri mezzi: giornali, radio… non televisione (e la vergogna si riscatta un po’), alla ricerca dei FATTI. Ricerca che mi riesce molto più difficile di tante conclusioni filosofiche. Perché la storia la scrivono i vincitori e, soprattutto, i giornali non vengono solo letti con i nostri occhi ma anche scritti con i nostri occhi.

    Farsi almeno un’opinione diventa difficile, almeno per due ragioni. In primo luogo, non ci giungono tutte le notizie e quelle che arrivino mi sembra non vengano nemmen lontanamente commentate. In secondo luogo, E’ TUTTO TREMENDAMENTE COMPLICATO. Ossia, non riesco ad avere piena percezione di tutti i nessi causali, di tutte le forze coinvolte, degli interessi in gioco. Perché? è già una domanda troppo evoluta. Cosa succede? è la domanda basilare a cui, non so voi, ma io non riesco pienamente a rispondere.

    E mentre io tento di farmi un’idea, nello svolgimento della mia giornata quotidianamente assisto a questa sfilata di ombre luminose sullo schermo del mio terminale, e rifletto sull’attualità di Platone e sull’atteggiamento di forte sospetto che il filosofo aveva nei confronti della scrittura. Non solo per la sua incapacità di rispondere a delle domande, ma anche per la sua potenziale capacità di finire nelle mani di chiunque. In un singolare parallelismo, oggi assisto alla potenza con cui queste ombre si possono moltiplicare. Basta una banale iscrizione ad un social network per avere a disposizione una vasta gamma di ombre da condividere, in una singolare triade di mi piace (ombroforo in sè ), commenta (ombroforo per sé) e condividi (ombroforo in sé e per sé).

    Lungi per questo dal demonizzare un mezzo, come internet, assai comodo. Del resto la bontà e la cattiveria non risiedono nel mezzo in sé ma nell’utilizzo che se ne fa. Un po’ come la polvere pirica, oggi utilizzata a Gaza per ammazzare i bambini di quattro anni, alle origini usata nelle corti di Pechino per ammaliarli con i fuochi d’artificio.

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