L'ASINO DI BURIDANO

Massimo Parodi

Professore di Storia della filosofia medievale all'Università Statale di Milano.

Dopo un mese

È passato un mese dai fatti del Bataclan di Parigi e abbiamo visto scorrere fiumi di parole, abbiamo sentito decine di trasmissioni e assistito a infiniti dibattiti, abbiamo cercato di approfondire il senso delle tradizioni culturali, delle tradizioni religiose, dei conflitti internazionali, del pensiero liberale, del commercio di petrolio e armi, di colonialismo e neocolonialismo. Difficile venire a capo di qualcosa, difficile soprattutto essere parte di una storia e simultaneamente esserne osservatori critici, senza eccessivi pregiudizi.
Se si leggono gli studi critici – o quelli almeno che hanno questa apparenza – sulla situazione che stiamo vivendo, come Perspectives on Terrorism, per fare solo un esempio, ci si sente sommersi dalla quantità di dati, che sono morti, bombe, spari. E ci si sente spiazzati dalla differenza che esiste tra la nostra percezione e i dati di fatto, tra il numero dei morti e degli episodi accaduti nella nostra vecchia Europa, rispetto ai numeri riguardanti l’Africa e altri luoghi del mondo.
Ma la storia si fa vivendo, cercando di capire quanto avviene intorno a noi, emozionandosi, reagendo, indignandosi anche e poi viene il dubbio che tutto ciò abbia poco a che fare con quello che gli storici racconteranno fra qualche anno sui nostri tempi.
Se ci si pensa con attenzione, forse neppure si è in grado di definire che cosa sia terroriamo. Mi frulla sempre per la testa una canzone dei Gufi del 1965: I teddy boys, signori, non è una novità / rompevano le scatole già nell’antichità: / ai tempi di Nerone giocando coi cerini / bruciaron tutta Roma / son scherzi un po’ barbini. / Durante il Medioevo bigotto e un poco nero / avevano un contratto picchiavan per il clero. / Più avanti nel seicento mollavan sganassoni / però eran tutti bravi lo dice anche il Manzoni. / Nell’ottocento invece con il romanticismo / picchiavan per la gloria l’onore e il patriottismo, / Giuseppe Garibaldi capì la situazione / ne prese circa mille e fece la nazione.
E proprio il riferimento a Garibaldi colpisce in un articolo di Linkiesta in cui ci si domanda se quello che nella nostra tradizione culturale è rimasto celebre come l’eroe dei due mondi, sia stato da qualcuno vissuto non solo come un terrorista ma addirittura come un foreign fighter, quando ad esempio nel 1837 si impegnò, al servizio della Repubblica Riograndese, ad assalire e depredare le navi dell’Impero brasiliano. Lo stesso dubbio viene anche a proposito di quei numerosi foreign fighters che accompagnavano Fidel Castro a Cuba, tra cui il medico argentino Ernesto Guevara.
Ma non ci si può accontentare della consapevolezza che la storia viene scritta dai vincitori, o almeno dai sopravvissuti, e spesso non coincide affatto con la percezione che ne hanno quanti la vivono in prima persona. Se fosse tutto qui, non ci rimarrebbe che fermarci ed aspettare per vedere come vanno le cose, ma le cose non andrebbero da nessuna parte se non dessimo il nostro contributo, e prima naturalmente di sapere chi saranno i vincitori.
Malgrado qualunque sforzo di relativizzazione, credo che di fronte ai morti e ai feriti del Bataclan sia difficile non provare un senso di disgusto e di orrore. E allora perché gli stessi sentimenti non vengono suscitati dai caduti ben più numerosi della Nigeria, del Centro Africa o del Bangladesh? Certo, la risposta è che Parigi è Parigi, è la nostra cultura, è casa nostra, anche se non ci siamo mai stati. È la rivoluzione francese, è la Marsigliese. È un errore? Sicuramente un morto di Lagos non dovrebbe valere meno di uno di Parigi, eppure è così: se viviamo è così, se studiamo non è così. Ma dobbiamo pur vivere perché anche in futuro ci sia qualcosa da studiare.
Eppure quando sento orrore di fronte ai tagliagole e a coloro che sparano a caso in una folla di giovani che ascoltano musica, mi pare proprio di avere ragione, mi pare proprio di rappresentare qualcosa di meglio di qualsiasi ideologia, filosofia o religione che li spinga a vivere la loro vita in quel modo. Non riesco a relativizzare; non si può relativizzare sempre, altrimenti non si tratterebbe più di relativismo. Dove sta il limite?
Forse la disumanità di sparare nel mucchio, la superbia di sentirsi moralmente superiori al punto da voler annullare gli altri, la ferocia, il rifiuto pregiudiziale di qualunque possibilità di mediazione, la bruttezza.

  1. La comunicazione a pioggia che ci raggiunge quotidianamente rende impossibile un’empatia egualitaria con tutte le disgrazie (con tutte quelle che con coscienza deploriamo come disgrazie) del mondo. Non è cinismo e non è una scelta, e i morti di Nairobi o di Pechino non valgono meno di quelli di Parigi. Questo mi dice la ragione, e lo approvo. Ma la mia volontà non ha energie sufficienti per attivarsi con la stessa intensità, per lo stesso motivo per cui la morte di un amico mi distrugge, quella di un conoscente mi rattrista e quella di uno sconosciuto mi spiace. La logica (?) di chi compie queste stragi, o una delle argomentazioni, sostiene che i morti in Europa siano in qualche modo, o direttamente, una risposta ai morti e alle nefandezze compiute dagli occidentali in Medio Oriente. Per inciso, è singolare come per qualcuno l’uguaglianza sia un diritto solo dei morti, e non dei vivi. Ma noi, che subiamo quegli attentati, riconosciamo come crimini disumani gli uni e gli altri, anzi, riconosciamo come orribili la strage al Bataclan o a Madrid proprio perché riconosciamo la stessa disumanità nei morti in Siria o nelle stragi compiute dalle potenze europee nella storia, e gli storici (e non è differenza da poco) inglesi, francesi, italiani, americani non mi sembra lo nascondano, almeno non sui libri che ho studiato io. Forse questa è la differenza tra noi e loro (perché anche questo diritto vorrei rivendicare, quello di dire loro e di sperare esista anche qualcun altro che legittimi il mio noi), e che può consentirci di uscire dalle secche di un relativismo vischioso: noi vogliamo essere liberi di scegliere gli oggetti e l’agenda della nostra indignazione, senza che qualcuno voglia impormi non solo cosa fare o cosa dire, ma anche quando, dove, come e perché indignarmi.

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