LIVING TOGETHER, DIFFERENTLY

Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Cosa c’è dietro la tangentopoli turca?

Corruzione, certamente. O almeno questo dicono le accuse. Pesanti, a carico di figli di potenti ministri e uomini vicini al governo e al suo sempre più in difficoltà primo ministro Erdoğan. Il quale, come da mesi e mesi ormai, reagisce gridando al complotto internazionale, minacciando di espulsione ambasciatori stranieri – lo statunitense Francis Ricciardone in primis –, incrinando sempre di più i rapporti con alleati storici come gli USA e la stessa Europa. Il tutto a pochi mesi dalle elezioni amministrative di marzo, dopo la crisi di Gezi park e le ripetute proteste internazionali per la stretta sulla libertà di stampa e le sortite negli stili di vita dei turchi (dalle critiche alla legge sull’aborto alla raccomandazione di avere almeno tre figli a famiglia, fino alle campagne pubbliche contro l’‘immoralità dei baci in metropolitana’, per fare qualche esempio).

Nelle ultime settimane, l’agenda politica e la discussione pubblica erano state dominate dal progetto di chiusura delle scuole preparatorie agli esami di ammissione all’università, necessarie per compensare le carenze del sistema educativo nazionale. Come è ormai chiaro, quella polemica non è affatto priva di relazioni con la tangentopoli scoppiata negli ultimi giorni. Molti infatti ritengono che l’inchiesta che scuote da vicino il governo Erdoğan e i suoi ministri sia una ritorsione del potente movimento che fa capo al predicatore musulmano Fetullah Gülen in esilio volontario da anni negli USA, alleato dell’AKP di Erdoğan fino a un anno fa circa, e progressivamente sempre più critico della linea autoritaria intrapresa da quest’ultimo una volta sbarazzatosi del potere delle forze armate e aver messo nell’angolo le vecchie elite kemaliste. Al movimento Hizmet (servizio) di Fetullah Gülen fanno infatti riferimento la gran parte delle scuole preparatorie minacciate di chiusura, così come forte è l’influenza di quest’ultimo tra le forze di polizia, a partire dal rimosso capo di quella di Istanbul e dalla trentina di funzionari responsabili delle indagini anch’essi prontamente liquidati. Del resto, dopo aver predicato calma e mantenuto un profilo basso, per la prima volta Fetullah Gülen stesso pochi giorni fa aveva lanciato un duro attacco contro coloro che “non vedono il ladro ma perseguitano coloro che cercano di catturarlo, che non vedono gli assassini ma cercano di attribuirne le colpe a gente innocente”, invocando per costoro la punizione di Allah. Una fatwa in piena regola insomma.

Che possa trattarsi di una ‘resa dei conti’ interna al campo conservatore islamico è tutt’altro che improbabile. Il movimento di Fetullah Gülen, radicato nella società civile, con un possente apparato di media e ramificato nel sistema educativo delle scuole preparatorie – dunque nei luoghi cardine in cui si produce egemonia culturale – è stato alleato centrale della coalizione tra conservatori, liberali e democratici che per quasi un decennio ha portato la Turchia a conseguire significativi risultati non solo sul terreno dello sviluppo economico, ma anche su quello della democratizzazione della forma di modernità senza democrazia e pluralismo propria del kemalismo. Quella coalizione è oggi in frantumi, abbandonata prima dai liberali e dai democratici, e ormai apertamente anche dai conservatori che si richiamano a Fetullah Gülen (ma il fronte islamico è molto più composito di così, e anche musulmani affatto vicini a Gülen sono in forte dissenso con Erdoğan). Per tutti, il punto cruciale è la critica all’autoritarismo di Erdoğan ancor più che singole politiche dell’AKP,  la sua progressiva stizza nei confronti di qualsiasi dissenso, bollato con paranoia identica a quella delle vecchie elite kemaliste come complotto internazionale contro la volontà popolare, in nome di una visione maggioritaria della democrazia che non sopporta alcun dissenso. Il punto, nel caso dell’opposizione del movimento di Fetullah Gülen, sta nel capire la vera natura di questo dissenso.

Per l’intelligentsia uscita dalle fila del movimento Hizmet – che innerva la società civile, la stampa, ma anche gangli dell’amministrazione pubblica – il dissenso va al centro della visione del rapporto tra islam e istituzioni statali. Benché l’AKP non sia un partito islamista tradizionale, ma anzi debba le sue fortune e la sua legittimazione anche internazionale ad una revisione dell’ideologia del movimento Milli Görüs di Erbakan da cui pure provenivano i suoi fondatori, avrebbe mantenuto l’impronta dell’Islam politico, orientato a usare il potere politico per opere di ingegneria sociale volte a plasmare la società civile in accordo con i valori di un Islam tradizionale. In questa visione del potere come strumento di ingegneria sociale, un Erdoğan sempre più simile al vecchio e un tempo sconfessato Erbakan toccherebbe ironicamente le a lungo combattute elite kemaliste, ben esperte di uso ingegneristico del potere politico. Una perfetta sintesi, in sostanza, di kemalo-islamismo. D’altro canto, il movimento di Fetullah Gülen viene dall’Islam sufi, e in particolare affonda le radici nel pensiero di Said Nursi (1878-1960), un predicatore che tentò di conciliare Islam e scienza, che non cercava una islamizzazione della allora neonata Repubblica via islamizzazione dello Stato, ma sosteneva la necessità di armonizzare Islam e modernità attraverso un’opera dal basso di educazione e assistenza (https://www.reset.it/blog/said-nursi). Più egemonia, costruzione del consenso, e meno coercizione. Ma non solo. Per i gülenisti, l’Islam professato e praticato dal movimento Hizmet avrebbe interiorizzato – non da ultimo in virtù della sua radice Sufi – quel pluralismo che, alla lunga e nonostante importanti progressi, darebbe oggi prova di non aver genuinamente fatto proprio l’AKP di Erdoğan, o forse Erdoğan in particolare. Meno Stato e più società civile, più pragmatismo e moderazione, ricerca del consenso e lavoro di educazione, ma anche più pluralismo e rispetto delle differenze culturali e religiose: questi gli elementi che spiegano le critiche del movimento di Fetullah Gülen alla disastrosa gestione da parte di Erdoğan della protesta di Gezi Park, ma anche alle interferenze negli stili di vita individuali, all’insofferenza nei confronti della libertà di stampa, e da ultimo alla stretta contro le scuole preparatorie.

Naturalmente, altre letture sono possibili. Sul fronte laico o laicista, si sostiene che le differenze tra l’Islam politico dell’AKP – da sempre tacciato di avere una agenda nascosta di re-islamizzazione del paese, e di cui rotti gli indugi starebbe venendo fuori la vera natura – e l’Islam moderato e accomodante di Gülen sarebbero questioni di lana caprina, e che basta entrare in un dormitorio delle scuole gestite dal movimento Hizmet – in cui la distinzione tra i sessi è rigidamente fatta osservare – per capire di che pasta è fatto anche quest’ultimo. Per la sinistra più tenacemente affezionata alle lenti marxiste (e in Turchia il panorama è vasto e articolato) le differenze sarebbero di lana caprina perché in gioco sono questioni di interesse economico degli uni o degli altri: le rette delle scuole preparatorie gestite da Fetullah Gülen contro i progetti di privatizzazione del sistema educativo di Erdoğan. Il limite di queste letture, che pure contengono frammenti di verità, è che come al solito impediscono di cogliere differenze e sfumature che pure contano e su cui si gioca probabilmente il futuro della Turchia e, data l’importanza di quest’ultima nello scenario globale, non della sola Turchia. In molti guardano al Presidente Gül, sovente critico seppur in modo cauto nei confronti di Erdoğan e delle sue prese di posizione intransigenti, da Gezi Park ad altre occasioni, per capire se intorno a lui potrà coagularsi una posizione conservatrice libera dalle idiosincrasie di Erdoğan. Che posizione prenderà in relazione all’ultima vicenda, quella delle inchieste sul sistema di corruzione, e alle misure censorie prese da Erdoğan per bloccare le inchieste?

Intanto la fine dell’anno si avvicina a grandi passi, e un’altra questione torna a farsi calda, quella armena. Sì perché con l’avvicinarsi del 2015, a cento anni dallo sradicamento degli armeni dall’Anatolia, le grandi manovre sono iniziate. Chi conosce anche solo un po’ il contesto turco sa quanto la questione sia importante per l’autocomprensione turca, per un vero processo di democratizzazione, per ragioni simboliche – che poi sono sempre di sostanza. Il ministro degli esteri Davutoğlu nei giorni passati ha pronunciato parole importanti in proposito, e il 19 gennaio – anniversario della morte di Hrant Dink – si avvicina. Di questo torneremo a parlare, presto. Ma è abbastanza, credo, per invitare a riflettere sulle sfumature, e farsi cauti verso quei giudizi che fanno dell’Islam turco una notte in cui tutte le vacche sono nere.

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