L'ASINO DI BURIDANO

Massimo Parodi

Professore di Storia della filosofia medievale all'Università Statale di Milano.

Cinquant’anni

Una delle prime aule del corridoio a sinistra dell’entrata aveva le pareti tutte decorate da una serie di avventure i cui protagonisti portavano strani nomi, come Senè o Kandebu. Una specie di ciclo giottesco che si estendeva a riempire tutti i bianchi pannelli che ricoprivano i muri. I nomi dei personaggi erano ritagliati dal famoso motto del maggio francese: Ce n’est qu’un début, continuons le combat! In quell’aula si svolgevano incontri o assemblee di poche persone perché lo spazio era assai limitato, ma probabilmente tutti gli iscritti alla Statale di Milano negli ultimi anni Sessanta ci sono passati almeno una volta, se non altro per dare un’occhiata al ciclo giottesco.
Ripensandoci a distanza di molti anni, forse su quei muri era già riassunta una contraddizione essenziale: non è che un inizio veniva congelato in personaggi, in cose, in entità; un processo dinamico si solidificava su quei muri e forse tra quei muri. Uno spettro si aggirerà per il prossimo anno e costerà grande fatica e qualche sofferenza. Sembrava impossibile ma arriva puntuale il cinquantenario del mitico Sessantotto. Sené e Kandebu torneranno a dirci che cosa fu, che cosa produsse, che cosa chiuse e che cosa aprì.
Fu la fine del dopoguerra consumata nel mito della resistenza e della lotta antifascista, il desiderio di realizzare i sogni che genitori e professori avevano lasciato a metà, come apparve evidente in quella straordinaria manifestazione del gennaio 1970 quando, per indicare la volontà di resistere ai pericoli che nascevano dalla strage di piazza Fontana del mese precedente, il corteo degli studenti fu aperto da alcuni tra i più amati dei loro docenti.
Oppure si trattò dell’avvio della grande stagione dei diritti civili che portò allo Statuto dei lavoratori, alla legge sul divorzio, alla conquista delle 150 ore per il diritto allo studio, riconosciute nel contratto dei metalmeccanici, malgrado le resistenze di alcuni padroni – come si diceva allora – che ritenevano assurdo che gli operai pretendessero il diritto di studiare il clavicembalo.
Oppure si trattò del trionfo dell’egualitarismo, di quel male oscuro che secondo alcuni avrebbe minato le magnifiche sorti che sarebbero potute nascere dalla meritocrazia, di cui oggi finalmente si parla come di una ovvietà condivisa da chiunque, ma forse ancora guardata con sospetto da quanti non hanno dimenticato tutto. Quell’egualitarismo portò all’apertura dell’università a ceti sociali che ne erano sempre rimasti esclusi, alla cosiddetta università di massa, anche questa messa oggi radicalmente in discussione da immaginifiche quantificazioni della qualità dei prodotti della ricerca scientifica – come tristemente si dice oggi – e insensati numeri chiusi. Ma giorno verrà, presago il cor mel dice – ricordi di quegli studi lontani – in cui tornerà bello sentirsi come tutti gli altri, senza essere costretti a ritenersi, ognuno nel proprio orticello, orgogliosamente migliori degli altri.
Oppure fu il trionfo dell’ideologia con le nefaste conseguenze del terrorismo, delle gambizzazioni, delle bombe, degli anni di piombo. Molti allora si presero troppo sul serio, credettero nella possibilità di una palingenesi e le conseguenze furono quelle di tutti i millenarismi della nostra storia. Umberto Eco nel Nome della rosa mette in bocca a un monaco con trascorsi dolciniani una frase quanto mai illuminante: Ci avevano detto che la verità vi renderà liberi, ci sentivamo liberi, credevamo fosse la verità. Molti, troppi anche cinquant’anni fa si illusero di avere trovato la verità.
Fu tutto questo e anche molto altro, ispirò molti ideali e anche il loro contrario, e molti ne bruciò; fu un fenomeno di grande portata e ne è testimonianza non l’amore che riaffiora nei ricordi ma l’odio che ancora è in grado di provocare in quanti vi vedono la radice di tutti i mali della nostra società degli anni successivi. Le università americane con le loro fragole e sangue, la Sorbona con l’immaginazione al potere, Valle Giulia, anche Pasolini – sì, anche Pasolini -, la mostra del cinema di Venezia, il Vietnam, la Cina, il Giappone, tutto il mondo sembrava avere vent’anni e forse aveva vent’anni perché tanto era trascorso dalla fine della tragedia della seconda guerra mondiale.
Non fu una cosa sola e dunque non se ne può descrivere l’essenza, isolandone gli accidenti, la vera realtà distinguendola dalle circostanze. Fu un processo che insegnò a mettere in relazione tra loro aspetti della vita che prima si ritenevano assolutamente isolati e regolati da norme indiscutibili. Fu un modo nuovo di guardare il mondo e i rapporti tra le persone e chi si trovò a passare di là non può che portarne i segni e condividerne la responsabilità, per avere vissuto un privilegio che implica però anche una grande pesantezza.
Sarà duro il 2018 e speriamo almeno si possa sussurrare ancora qualcosa di quei sogni, utilizzando magari le parole con cui Italo Calvino ricorda la sua lotta partigiana, riassumendo un’esperienza indimenticabile nelle parole di una canzone meravigliosa: Avevamo vent’anni e oltre il ponte / Oltre il ponte che è in mano nemica / Vedevam l’altra riva, la vita, / Tutto il bene del mondo oltre il ponte. / Tutto il male avevamo di fronte, / Tutto il bene avevamo nel cuore, / A vent’anni la vita è oltre il ponte, / Oltre il fuoco comincia l’amore.

  1. E’ stato molte cose il 68, alcune buone, altre meno, but gentle men and women in Italy should think themselves accurs’d they were not there whiles any speaks that fought with us in 1968. Buon anno Massimo!

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