L'ASINO DI BURIDANO

Massimo Parodi

Professore di Storia della filosofia medievale all'Università Statale di Milano.

Bruxelles

Sta nascendo un genere letterario con i propri loci, le proprie analogie e metafore. Dopo i drammatici fatti di Bruxelles, la lunga sequenza di articoli, trasmissioni televisive e radiofoniche, commenti e approfondimenti, lascia un sapore di ripetizione e di schemi spesso del tutto indipendenti dai fatti presi in considerazione. L’altra mattina, in una trasmissione radiofonica, dopo aver discusso degli errori commessi dal Belgio nelle indagini degli ultimi mesi – destinato a diventare fondamentale argomento consolatorio – si è passati a discutere del ruolo della donna nelle società di religione islamica e ci si è soffermati sullo sviluppo della scolarità femminile in Iran e sul divieto di guidare l’automobile in Arabia Saudita. Temi interessanti, ma forse un po’ troppo vagamente collegabili alle stragi avvenute in Europa negli ultimi mesi.
Nel bar sotto casa, come per altro nelle dichiarazioni di leader politici non particolarmente portati all’analisi, la responsabilità di quanto è avvenuto viene ricondotta ai fenomeni di immigrazione, di rimescolamento di tradizioni religiose e culturali, di disagio sociale. Ricompaiono poi la responsabilità delle politiche poco lungimiranti degli stati occidentali, dell’antico colonialismo, degli interessi economici e del mercato del petrolio. Ognuno di questi temi quasi certamente ha un proprio rilievo per cercare di capire, ma nel complesso, quando si tenta di organizzarli in qualche maniera complessiva, si ha la terribile impressione di non riuscire affatto a capire.
Sembra quasi impossibile rendere coerenti i cerchi concentrici attraverso cui si tenta di dotarsi di strumenti di comprensione. Alla situazione internazionale, nella quale già è complicato tenere insieme movimenti di denaro, armi e materie prime, conflitti ideologici, inter-religiosi e intra-religiosi, movimenti di popoli, segue il cerchio rappresentato dalla politica occidentale – europea in particolare – con i problemi alle frontiere verso l’esterno e alle frontiere interne, con la rigidità di alcuni stati, con la quasi impossibile prospettiva di dotarsi di politiche comuni. Si arriva poi al cerchio delle politiche di integrazione, del degrado delle periferie abitate dagli immigrati, della violenza endemica prodotta di situazioni sociali spesso invivibili, per passare infine a quello del disagio individuale, delle storie personali, dei problemi di carattere psicologico che possono dare origine alla scelta di sacrificare la propria vita per spargere terrore fra persone sconosciute. Ed è lì che cade il sasso da cui sembrano nascere tutti quei cerchi o che forse invece viene prodotto da quei cerchi concentrici.
Anche le nostre reazioni personali non possono prescindere da quella articolazione, si collocano a diversi livelli di distanza dalla pietra che cade nel centro di Bruxelles e difficilmente riescono a essere coerenti. Se, come diceva Agostino, per cogliere pienamente il senso del mosaico che abbiamo di fronte, occorre allontanarsene per assumere un punto di vista che non si perda nei singoli dettagli, nelle singole tessere che compongono il disegno, occorre allora ricorrere a strumenti di analisi che sappiano evitare di lasciarsi modellare dal genere letterario ripetitivo di cui si parlava.
Lo studioso americano David Rapoport, in un articolo del 2006 divenuto famoso, approfondisce quelle che sceglie di definire le ondate del terrorismo contemporaneo – The four waves of modern terrorism – e propone una prospettiva in grado di fornire una visione in qualche misura complessiva e, proprio per questo, abbastanza agghiacciante. Se si riprende la metafora dei cerchi concentrici, si potrebbe dire che viene presentato il cerchio esterno più ampio di tutti. Da 130 anni fenomeni di terrorismo si susseguono nel nostro mondo e sembrano ormai profondamente radicati in esso: la prima ondata è quella del terrorismo anarchico che nasce in modo particolare in Russia e arriva fino all’assassinio di Sarajevo, che gli imperi mitteleuropei pensarono di sfruttare per punire la Serbia; la seconda è quella del terrorismo anticoloniale, nato con la pace di Versailles e rinvigorito nel secondo dopoguerra dal disfacimento degli imperi vincitori; la terza ondata è quella del terrorismo di sinistra, particolarmente attivo in Italia e in Germania; e si arriva infine alla presente ondata di terrorismo religioso.
Ognuno di questi cicli ha caratteri specifici, ma alcuni tratti si ripresentano con una loro permanenza e successive trasformazioni; sembra quasi di essere di fronte a una sorta di forma, di struttura che si propone obiettivi diversi, storicamente determinati, ma in modi che si riproducono e si perfezionano.
Così sembra ancora più difficile capire i singoli episodi e soprattutto avere qualche idea su quanto sia opportuno fare: pare quasi esistano leggi necessarie che governano la nostra storia, ma, come sempre, queste leggi si basano anche sul modo in cui si reagisce, a partire proprio dal punto in cui quei cerchi concentrici cominciano ad allargarsi.

  1. Saranno i neuroni a specchio, ma sui giornali si fanno gli stessi discorsi che un tempo si facevano dal barbiere e gli stessi pettegolezzi che erano monopolio della portinaia. C’è approssimazione e generalizzazione. Ci si ostina – ad esempio – a definire fondamentaliste certe frange islamiche.
    Or bene, il fondamentalismo necessita una lettura alla lettera dei testi sacri e di fondamentalisti ce ne sono caterve, i più negli USA, dove impongono nelle scuole il creazionismo e la messa al bando di Darwin, ma non mi sembrano islamici.
    Come può essere definito fondamentalista chi, facendo riferimento a un libro di cui ogni capitolo si apre nel nome del Misericordioso, non sa dove sta di casa la misericordia?
    Nella seconda Sura del Corano (La Giovenca) si parla di chi ha perduto la fede e si ritrova viandante in una notte buia (una selva oscura, avrebbe detto un’altra cultura, che si vorrebbe molto diversa). Si scatena la tempesta e allo schianto di ogni fulmine, il reprobo teme l’annientamento. Ma Dio non lo folgora, anzi gli rischiara, a tratti, quella via che aveva smarrito.
    Non è dunque fondamentalista chi fa ciò che Dio non farebbe, ma un blasfemo che ripete l’arroganza di Iblīs (Iblīs/Hybris: la parola assomiglia alla parola, come la cosa alla cosa).

  2. Nella mia vita di giovane uomo lo studio della storia ha subito quattro fasi.

    Prima infanzia fumettistico-eroica: dovuta ad un bellissimo libro, molto grande, che io mi chiudevo in camera a sfogliare. Si chiamava I grandi personaggi, e conteneva un 150 nomi di grandi uomini della storia e della cultura. Ogni nominativo prevedeva una pagina enciclopedica (che non leggevo) ed un breve spezzone a fumetti; molto ben curati dal punto di vista del dettaglio storico. Ed è così che mi sono appassionato a questa materia. Dovrebbero farne ancora, di libri simili.

    Infanzia manichea. Buoni o cattivi, tedeschi ed alleati. Sebbene, lo ammetto, non fossi un bambino stupido; allora avevo l’illusione di un’Italia divisa a metà. Prima vincevano i fascisti, poi gli antifascisti. Per me, erano due cose distinte; erano persone distinte. E alla fine i buoni avevano vinto.

    Prima età adulta-scettiscimo. Ha ragione Vico? La storia si ripete? Oppure Gramsci: La storia non si ripete. Se si ripete, è farsa? Conseguente sospensione di giudizio.

    Fase attuale. Ahimè, hanno ragione entrambi.

    In questi giorni di terrore, è errato e giusto dire che questa barbarie sa di già visto; come è errato e giusto affermare che si tratta di una situazione inedita, sconcertante e proprio per questo ingestibile.

    Cosa cambia? Che cosa resta uguale?
    Cambiano i contesti economicì, le circostanze di svolgimento. I pretesti che si pretendono essere LA causa scatenante, quando in realtà non sono che le mere giustificazioni razionali di una gamma di istinti (o istinti deviati) peggio che bestiali.
    Resta uguale, appunto, la bassezza dell’essere umano: la sua violenza, la sua scissione, la sua mancanza di empatia, la sua brama di tirannia.

    In questo contesto drammatico, ci risultano profetiche le parole del grande Enzo Jannacci, che proprio ora ci fa compagnia con una delle sue canzoni più belle:

    Poco più in alto c’è un aeroplano, puzza di guerra … neanché troppo lontano. Poco più in alto c’è un aeroplano, puzza di guerra: per molti niente di strano.

    Forse la tollerabilità dei cerchi degli eterni ritorni (compreso quello economico) risiede della posizione che noi ricopriamo rispetto ad essi; nel trovarci più o meno vicini alla loro circonferenza infuocata che ci tocca attraversare e saltare, senza alcuna rete di sicurezza in grado di proteggerci.

    Come quell’aeroplano che puzza di guerra: così vicino.
    E la cosa orribile, col rischio che diventi normale.

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