LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

Antonioni e l’avventura sul pianeta dello sguardo

«Sono contento di essere qui e di aver potuto finalmente visitare Michelangelo Antonioni». Taormina, un festival di ormai parecchi anni fa. Il maestro scomparso a 95 anni nell’estate del 2007, ammutolito da tempo per colpa del maledetto ictus eppure loquace grazie agli occhi dolcissimi, è seduto in prima fila al fianco della moglie Enrica Fico nella magica cornice del Teatro Greco. La frase di saluto è di un regista russo che, prima di ritirare un premio del Festival, la pronuncia in italiano. Con affettuosa premura, l’interprete lo corregge: «Lei forse vuol dire conoscere Michelangelo Antonioni…». Ma il russo, serafico sebbene commosso: «No, no… Volevo proprio dire visitare». Consapevole o meno del significato del verbo, il giovane collega venuto da lontano in fondo non sbagliava: «visitare Antonioni». Come se Antonioni fosse ciò che in effetti era: un pianeta cui approdare con rispetto ed emozione, un astro lucente e impenetrabile che riesce a orientare nella notte, un frammento di cosmogonia sfuggito alla genesi per palesare alcune leggi ineffabili della vita, a cominciare dalle relazioni tra gli uomini e le donne. Le donne alle quali – lo sappiamo – può capitare che facciano «male i capelli» (Monica Vitti in Il deserto rosso, 1964). O come se Antonioni fosse, in Terra, un paese misterioso della geografia dell’anima, ben più enigmatico della Cina che egli percorse per girarvi lo storico documentario sulla rivoluzione culturale maoista, insieme con un signor giornalista, Andrea Barbato (Chung Kuo, 1972).

Un paese, Antonioni, persino più vivace dell’America ribelle di Zabriskie point (1970) dove fu fermato dalla polizia in aeroporto per il possesso di una «canna» o, prima, della Swingin‘ London di Blow-up (1966). Fu, quest’ultimo, l’unico suo film a conquistare i botteghini, ma soprattutto il più efficace nello svelare l’ambiguità del mondo, la duplicità delle cose, ossia il rischio che quanto vediamo – un omicidio nella trama in giallo del protagonista fotografo di moda – sia invero imperscrutabile, mentre c’è, esiste, agisce ciò che non vediamo, l’invisibile. Esito sublime, Blow-up, della vena borgesiana di un racconto di Cortázar sceneggiato da Antonioni con Edward Bond e Tonino Guerra. Ma tutto il suo cinema riserva un dispositivo contro il delirio di onnipotenza del «vedere tutto» che oggi ci ammorba. Lo sguardo di Antonioni fonda una «teoria» antitelevisiva, laddove theorìa in greco significa «spettacolo» e nella Bibbia sta per «contemplazione» (Nuovo Testamento, Luca 23, 48).

Ecco perché Antonioni è una fonte limpida del cinema contemporaneo, il più poetico e l’unico necessario. Così è per Theo Anghelopulos, Abbas Kiarostami, Lars von Trier, Wim Wenders, Mario Martone, Clint Eastwood, Citto Maselli, Amos Gitai, Wong Kar-wai, Tsai Ming-liang, Ridley Scott, Kim Ki-duk, Steven Soderbergh, Gianni Amelio… Maestri di tutto il mondo, e di diverse generazioni, che non esitano a riconoscersi in debito con Antonioni: molto diversi fra loro, ma affratellati dalla ricerca dell’essenziale e dell’evidenza che si ottiene solo per svuotamento del superfluo (i francesi, poi, lo sanno perfettamente che évider equivale a scavare, svuotare, sottrarre). Altro che la presunta «incomunicabilità» divenuta la facile etichetta del cinema di Antonioni. I suoi film, fin dallo straziante capolavoro sul disagio di un operaio che è Il grido (1957), presagivano la crisi della ragione, delle «grandi narrazioni», delle ideologie e restituivano quello smarrimento con uno stile più vicino alla realtà che alla finzione. Come? Rispettando i tempi morti – di fatto vitali – propri del prediletto piano-sequenza, cioè di intere scene senza stacchi di montaggio (memorabile, in proposito, il finale di Professione: reporter, 1975).

Può darsi che avesse ragione il mordace Ennio Flaiano, quando alla domanda su quali fossero i due più importanti registi italiani, rispondeva: «Fellini e Antonioni. Peccato che il primo sia un costumista e il secondo uno scenografo…». Ma le sue scenografie sono metafisiche, ossessionate dalla segreta corrispondenza dell’uomo col paesaggio, dalla Cina al deserto americano, dalla Padania dei primi documentari alle Eolie dell’Avventura (1960) che oggi 16 agosto sarà proposto alle Corderie dell’Arsenale nell’ambito della Biennale Architettura (ore 17, stage F, sezione “Monditalia” dove il nome di Antonioni ricorre più volte).

Negli anni ‘90 Antonioni vagheggiò di girare un film di fantascienza – Destinazione Verna – ispirato a un romanzo di Jack Finney, lo scrittore dell’Invasione degli Ultracorpi, dopo Al di là delle nuvole (1995) e poco prima dell’episodio «Il filo pericoloso delle cose» nel trittico di Eros (2000). Raccontò Domenico Procacci, produttore di quest’ultimo titolo: «A tutti i costi Michelangelo voleva una scena con la neve». Come la chiedeva? «Con gli occhi». Già, sul pianeta Antonioni si comunica con lo sguardo.

 

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