La geografia morale del pluralismo

Prefazione al libro Conversazioni con Michael Walzer (Marsilio – i libri di Reset, 2012).

Questo libro offre un’occasione davvero rara, quella di avvicinarsi con una lettura agile, colloquiale, biografica a una grande figura del pensiero politico contemporaneo – Michael Walzer – e di familiarizzare con una forma di liberalismo, specialmente aperta e accogliente verso la pluralità delle culture del mondo. Idee oggi di cui c’è un evidente bisogno in Europa. Ma a proposito di pluralismo viene subito in mente il nome di Isaiah Berlin ed è necessario allora che racconti un antefatto personale: il primo a parlarmi dell’autore iraniano del volume che avete tra le mani, Ramin Jahanbegloo, molto tempo prima che lo conoscessi e ne diventassi amico, fu proprio lui Sir Isaiah (che sarebbe scomparso nel 1997). Mentre cercavo idee per la rivista, «Reset», che stava per nascere, Berlin mi disse che aveva finito da poco un racconto fiume della sua vita e che ne era venuto fuori un bel libro. Si trattava delle conversazioni raccolte da un giovane filosofo persiano, dal nome lungo e difficile da ricordare: era per l’appunto Ramin. E mi assicurava che il lavoro aveva dato un ottimo risultato [1]. Era positivamente sorpreso che l’interesse per il suo lavoro fosse arrivato fino a Teheran e che avesse prodotto un testo che Sir Isaiah legittimava pienamente come fonte autorevole del suo pensiero.

Avrei saputo solo negli anni successivi che Ramin era un dottorato della Sorbona, che aveva studiato anche in America e che, tornato in Iran, avrebbe pubblicato saggi in varie lingue sulla storia delle idee, su Gandhi, la cultura indiana, il dialogo tra le culture e che avrebbe dato vita, nella sua città, con il concorso di qualche intelligente diplomatico, a cicli di incontri con intellettuali di alto profilo da tutto il mondo, da George Steiner a Richard Rorty, da Ashis Nandy a Michael Ignatieff. Prima dell’elezione a presidente di Ahmadinejad, nel 2004, l’Iran sembrava un luogo molto promettente per lo sviluppo del dialogo tra le culture, tra Est e Ovest, tra l’eredità gandhiana, la tradizione islamica, quella cristiana, il liberalismo europeo e americano.

Le elezioni ci fecero, con somma evidenza, cambiare idea e, ancora di più, fece l’arresto di Ramin nel 2006, per opera di un regime che spazzò via rapidamente le speranze dei democratici. Il dialogo rimaneva più che mai urgente, ma la sua praticabilità era diventata nulla. Cinque mesi e mezzo nel carcere di Evin, con le torture inflitte a un uomo del dialogo, accusato miserabilmente di spionaggio, erano un segnale chiaro. La mobilitazione internazionale delle persone (e dei governi) di buona volontà hanno fortunatamente restituito il filosofo e l’amico alla libertà, ma egli si trova ora costretto nelle condizioni di esule, in Canada. La situazione intanto nel paese, nonostante la crescita dell’opposizione «verde», non è migliorata.

Fine dell’antefatto. Come ora vedete qui, Jahanbegloo ha ripercorso il fortunato modello delle conversazioni con Berlin – dialoghi che illuminano un itinerario di vita e di idee, e l’ha fatto con un altro grande pensatore liberale, che ha, anche lui, nel nucleo centrale della sua riflessione, il pluralismo culturale. Walzer, l’autore di tanti citati saggi sulla politica, la morale, la giustizia, la guerra, la tolleranza, il pluralismo è un filosofo della politica che è molto caro, fin dall’inizio, alla rivista «Reset» e a questa collana. L’autore di Sfere di giustizia, di Esodo e rivoluzione, de L’intellettuale militante, di Guerre giuste e ingiuste, per citare solo alcuni dei più noti titoli tradotti in italiano, è una figura chiave del pensiero liberale, per il significato che la parola liberal ha nel discorso pubblico americano, e che si può tradurre con «progressista», ma solo se non si dimentica che rispetto a questo approssimativo equivalente europeo, liberal fa valere con forza, in Walzer, anche le ragioni del liberalismo in senso classico, nel senso che piaceva a Carlo Rosselli accoppiare con «socialista». E dunque include anche il polo della critica al comunismo, alla pianificazione centralizzata, all’oppressione della libertà individuale, e a ogni forma di totalitarismo.

«Socialista liberale» o «liberal-socialista» è una definizione che non dispiacerà di sicuro a Walzer [2], che ne ha tante volte parlato e scritto, promuovendo la circolazione e la traduzione in America del prototipo italiano del socialismo liberale, quello di Rosselli [3]. In verità Walzer ha sempre accolto volentieri la definizione di «socialdemocratico», concetto che rappresenta ai suoi occhi, e anche ai nostri, una eccellente invenzione europea. Quando entrò a far parte della compagine della rivista «Dissent», fondata nel 1954, epoca di maccartismo, e iniziò a collaborare con Irving Howe, come ben racconta in queste pagine, si trovò a raccogliere e sviluppare l’eredità del socialismo americano di Michael Harrington, una eredità sempre minoritaria, ma dotata di grande vitalità intellettuale. È stata per me fin dall’inizio, negli anni Ottanta, una scoperta sorprendente quella di trovare delle connessioni attive tra questa sinistra americana, la sinistra al centro dell’“impero”, quell’impero del quale si è sempre detto che non conosce socialismo, una sinistra “di nicchia”, e la sinistra realmente esistente (e spesso governante) in Europa. C’erano rapporti significativi con il Partito laburista britannico, ma anche con altri partiti socialisti, compreso quello italiano, e anche il Partito comunista veniva analizzato con grande interesse sulle pagine di «Dissent», come una formazione che derogava positivamente rispetto allo standard degli altri consimili. Questo avveniva proprio nell’89 mentre Occhetto stava per procedere allo scioglimento del Pci [4]. Purtroppo le barriere linguistiche impedivano una più chiara percezione di quanti benefici l’iniezione di una cultura liberal avrebbe potuto portare alla sinistra di casa nostra, aiutandola a superare laceranti divisioni interne e a rigenerare la propria visione della critica sociale e del cambiamento politico.

I viaggi in America dei leader politici della sinistra italiana postcomunista avrebbero ancora a lungo prodotto risultati goffi o poco conclusivi, con l’unica eccezione di Giorgio Napolitano, i cui incontri con l’élite intellettuale americana, già negli anni ottanta, avrebbero posto, per la loro parte, buone premesse della sua credibilità internazionale, e arricchito un patrimonio biografico che si sarebbe rivelato prezioso.

Le eleganti pagine di «Dissent», che tuttora campeggiano nelle più fornite biblioteche europee, ma che si possono ancora più rapidamente raggiungere e comprare sul web, potevano essere il veicolo di un dialogo liberal-socialista tra le due sponde dell’Atlantico, che è in certa misura avvenuto, ma che avrebbe potuto essere molto più efficace e intenso: vi sono circolate le firme di Albert Hirschman, Daniel Bell, Marshall Berman, Robert Dahl, Norman Mailer, Irving Howe, insieme naturalmente alla continua e sapiente produzione di quello che è da decenni il regista politico della rivista, nonché il suo attuale direttore [5]. Attraverso queste pagine e quelle dei saggi di Walzer la cultura progressista italiana avrebbe potuto persino trovare nuovi motivi per conoscere meglio e frequentare con più convinzione gli autori di una vigorosa tradizione culturale europea: oltre a Rosselli, Nicola Chiaromonte, Ignazio Silone, Camus, Orwell e tanti altri della gloriosa «compagnia dei critici». Si trattava di una tradizione della critica che si era temprata nel rigetto prima di tutto dello stalinismo e poi anche, per alcuni, che ne erano stato influenzati nella loro gioventù, del trotzkismo.

La rivista, che da sempre raccoglie il sostegno di tanta intellettualità ebrea-americana, ha un profilo ben definito nel perseguire un egualitarismo liberale, un riformismo sociale con i piedi per terra, la difesa della scuola pubblica, la riforma sanitaria. E attualmente incalza, e sostiene, Obama sui temi propri del laburismo. Sull’altro versante, alla sua sinistra, ha rifiutato in passato l’estremismo terzomondista e il radicalismo di chi non voleva saperne di votare per il sempre «troppo moderato» Partito Democratico. Ancora recentemente Walzer ha rievocato le critiche negli anni Novanta di Christopher Hitchens contro il «lesser-evilism», una formula spregiativa, equivalente a «minor-malismo» con la quale indicava il rifiuto di appoggiare Clinton nel ’96 come “male minore” rispetto ai repubblicani. Per Hitchens, se avessero vinto questi ultimi, la differenza sarebbe stata impercettibile e in ultima analisi la sconfitta avrebbe spinto i Democrats a fare una più radicale opposizione.

Argomento che riflette spesso una comprensibile insoddisfazione, ma che rimane tipico di tutti i massimalismi. Per Walzer, invece, che tiene gli occhi aperti sugli assalti all’arma bianca dei Tea Parties alla riforma sanitaria, alla scuola pubblica e ad ogni accenno di giustizia sociale e fiscale, è evidente come sono proprio questi casi a mostrare come in democrazia accada appunto che il minore dei mali (allora Clinton, 1996, più tardi Obama, 2012) possa finire per somigliare molto al bene maggiore [6].

Per chi non lo avesse ancora capito, la lettura di queste pagine restituirà l’immagine non solo di un prestigioso professore di teoria politica, globalmente noto per la sottigliezza e precisione delle sue analisi, ma anche quella di un critico militante, impegnato su posizioni ben definite, «schierato», si potrebbe dire, a sinistra, se questo attributo non descrivesse a volte un atteggiamento partigiano che non rende onore all’intelligenza di chi lo riceve. Del resto la totale trasparenza della riflessione di Walzer rende conto di questa attitudine umana a prender posizione, a «tener parte», ad accogliere consapevolmente nel ragionamento prima di tutto quel che si è, per la propria appartenenza a una comunità, quella ricevuta per nascita o quelle che si scelgono per affinitá.

C’è una coerenza nel pensiero di Walzer, che è anche uno stile ben riconoscibile in queste conversazioni, che Jahanbegloo raccoglie e trasmette in tutta la loro naturalezza. Il linguaggio con il quale arrivano su queste pagine tende spontaneamente a mettere le idee «in posizione», un liberal iraniano interroga un liberal ebreo-americano e lo incalza sui problemi roventi del Medio Oriente, sulla politica estera americana, sulla politica israeliana, sulla condizione dei Palestinesi: entrambi appartengono a un mondo, entrambi sviluppano critiche efficaci, proprio perché “interne”, “vicine”, ciascuno con la sua storia: il primo sempre intento a scrutare il risveglio e la maturazione della società civile persiana, il secondo con lo sguardo puntato, lungo tutta la sua vita, su ideali di emancipazione, riformismo, pluralismo di cui sono cariche sia la cultura americana sia la cultura ebraica. La comunità, il gruppo, la nazione, la religione, la lingua. Sono dimensioni di cui a entrambi non sfugge il peso che hanno sulle idee e sui destini politici. Walzer è sempre diffidente verso chi cerca il punto di vista «da nessun luogo» per formulare giudizi morali: quella pretesa (per inciso, è quella del filosofo morale Thomas Nagel) somiglia per Walzer al sogno di onnipotenza di chi cerca «il punto di vista di Dio», sia pure in una versione atea.

Meglio tenere il gioco più basso, ad altezza d’uomo e di donna, sviluppando la sapienza e la moderazione necessarie per districarsi tra punti di vista che sono sempre ben localizzati sia materialmente sia moralmente. «Diventiamo soggetti sociali all’interno di una tradizione morale: la moralità è sempre un’eredità. Perché siamo esseri umani accomunati dalla consapevolezza della nostra vulnerabilità». Ecco la misura di un pensiero che non perde di vista gli umani limiti, ma anche la capacità propria degli individui della nostra specie di fare molte più cose insieme, specie se sotto una bandiera condivisa, di quante non ne potremmo mai fare separatamente.

Quando e se pensiamo e parliamo, siamo sempre in debito verso una serie di persone da cui abbiamo imparato a farlo, in casa, dai genitori, a scuola, dagli amici, dai compagni delle nostre imprese. La storia di questo imparare lascia visibili tracce, contribuisce a far di ciascuno di noi quel che siamo. E quel che vale per gli individui vale anche per le comunità, che imparano, anche loro, cose nuove e le innestano sulle loro tradizioni, modificandole. È il normale corso dell’esistenza umana: diffidare dei sostenitori di purezze incontaminate, sono foriere di pericolosi assolutismi, così come le avanguardie, più o meno giacobine, degli intellettuali che sanno quel che è bene per le masse. La «vicinanza» è la parola chiave per Walzer, sempre molto importante per gli effetti che ha nella vita politica. La critica sociale, per essere efficace deve muovere «da vicino»: il critico dello statu quo non è quello che, uscito dalla caverna platonica, ha visto la luce del sole e, da fuori, detta la linea di condotta ai poveretti rimasti nell’ombra. Se vuole essere capito, è bene che non se ne vada, che stia vicino ai suoi compagni di ventura e parli loro in modo che non risulti loro alieno. Si capisce perché i critici migliori sono quelli «interni», o almeno quelli che stanno ai confini. Per le stesse ragioni l’accesso di un paese alla democrazia produce risultati più solidi ed efficaci, ed anche in certa misura differenziati, «coniugati» in contesti diversi, se è espressione di un processo «dall’interno», prodotto da azioni politiche dall’interno e motivato con ragioni ricavate dall’interno di ciascuna diversa cultura.

A proposito di interventi «dall’esterno», la guerra all’Iraq ha diviso la compagine di «Dissent» tra interventisti che hanno pienamente appoggiato l’azione di Bush nel 2003, come il falco Paul Berman, un liberal poco propenso a considerare i punti di vista «interni» e protagonista di una polemica dai toni oltranzisti contro Tariq Ramadan e Ian Buruma, e chi, come lo stesso Walzer, ha criticato l’intervento pur senza condividere le posizioni del pacifismo più radicale. Il lettore di queste conversazioni troverà molti approfondimenti dello scenario internazionale di questi anni, anche sotto la spinta di Jahanbegloo che sollecita con efficacia Michael a tornare sia sul tema della identità ebraica e americana del suo interlocutore sia su quello della responsabilità morale negli interventi militari internazionali.

Vi sono situazioni estreme, come le uccisioni di massa o le carestie provocate da chi governa, che determinano non solo un diritto d’intervento armato dall’esterno, ma anche un «dovere» di farlo, come fece la Nato contro la Serbia nel 1999. Ed è tipica del pensiero di Walzer, in questo molto distante dal pacifismo e dalla dottrina della non-violenza, la sua risposta alla domanda «quali stati?» o «quali coalizioni?» abbiano i titoli per intervenire con la forza: «Chiunque può farlo, deve farlo». [7] Il problema più che nella scelta sta nel trovare uno Stato disposto a sostenere i costi dell’intervento. Non si può immaginare un obbligo rigido di intervenire, perché nessun automatismo può spingere le democrazie in gioco ad assumersi la responsabilità morale di spedire i propri soldati sul terreno mettendo a rischio le loro vite. Ma la responsabilità morale del non intervento può rivelarsi una colpa altrettanto grave di quella di un intervento non sufficientemente e onestamente motivato.

La costanza della riflessione di Walzer è ben riconoscibile nel suo evitare le insidie di un universalismo liberale che imponga, dall’alto, diktat morali o una altrettanto onerosa pressione del repubblicanesimo giacobino. Questo stile di condotta ideale si manifesta anche nel valutare la condotta degli intellettuali impegnati nella vita pubblica, nel tenere in conto le connessioni e le «vicinanze», che danno ai nostri impegni morali uno «spessore» assai maggiore di quell’impegno più «sottile» che ci coinvolge in quanto membri della specie e coabitanti del pianeta. C’è in Walzer una geografia delle relazioni morali che si distacca, in una notevole misura, dal classico schema kantiano e che lo spinge qui per esempio a condividere con Camus il giudizio sul terrorismo della rivoluzione algerina, a riconoscerlo come tale nonostante le buone ragioni della rivoluzione: un terrorismo che avrebbe potuto colpire la sua famiglia. «Credo nella giustizia, ma prima della giustizia difenderò mia madre». È una linea di pensiero, questa, che ha spinto talvolta a collocare Walzer tra i communitarians (come Alasdair McIntyre, Michael Sandel, o Charles Taylor) nella disputa con i liberali. Ma in questo confronto, che ha animato le dispute filosofiche alla fine del secolo scorso, il pensatore americano si è tenuto su una linea più moderata. E non ha certo messo a tacere le ragioni universali della tolleranza e del rispetto della dignità umana. Nella sua geografia morale contano le ragioni piú spesse della vicinanza, ma queste non mettono certo a tacere quelle piú sottili, che a loro volta intervengono a giustificare atti tanto importanti come l’intervento di una coalizione armata in un altro paese per mettere fine a un genocidio. Di lui si può dire che non è quel tipo di filosofo che rimane prigioniero del “mito della cornice”, come lo chiamava Popper, e che per amore di completezza “del suo sistema” si spinge fino a contraddire un principio superiore di sapienza e moderazione umana o a contraddire l’evidenza dei fatti e le dure repliche che essi danno alle idee.

Sono molte le ragioni che rendono preziose le pagine che seguono. E una vale sopra tutte le altre specialmente per i lettori europei: esse ci consegnano una lezione di pluralismo e di “multiculturalismo soft”, della cui utilità nel nostro contesto faremmo bene a prendere finalmente atto, invece di trincerarci dietro formule di propaganda politica come quelle impiegate da governanti europei (Cameron, Merkel, Sarkozy) per coprire il fallimento delle politiche di integrazione. Al posto di formule ed esorcismi faremmo bene a utilizzare la visione lucida e realistica che ci offre la migliore tradizione americana, democratica e pragmatica di James, Dewey e, non ultimo, quel Horace Kallen, cui si deve il concetto di “pluralismo culturale”. Inutile agitare visioni estreme che lasciano immaginare alternative assurde tra societá assimilazioniste del tutto omogenee o “omogeneizzate” da una parte (i miti del nazionalismo e del repubblicanesimo) e società frantumate in un mosaico di gruppi etno-religiosi separati. Siamo tutti immessi, anche in Europa, dentro processi assai più fluidi e complessi. Qui la lettura in trasparenza di Walzer è davvero eccezionalmente chiara: le identità mutano e lo fanno in vari gradi, sia nei singoli individui sia nei gruppi; le identità si ereditano, ma possono modificarsi di fatto, possono essere adottate per scelta. In condizioni di libertà, che vanno tutelate, gli individui possono sentirsi piú o meno impegnati nel difendere, organizzare, mantenere o lasciar cadere una identità. E possono anche decidere diversamente in diverse fasi della loro esistenza.

Anche i gruppi non sono un blocco omogeneo, hanno per lo più un nucleo centrale di militanti più impegnati e una periferia più o meno legata a questo centro, dove i legami della comunità si fanno più blandi. I militanti hanno diritto di perseverare in un’azione organizzata per tutelare l’identità, la periferia ha il diritto di scegliere con quanto calore seguirli, lasciarli fare o dedicarsi ad altro. E alla periferia avvengono scambi e mescolanze che fanno di una società tutt’altro che un blocco uniforme e tutt’altro che un mosaico di blocchi. Non vi sono cornici del cui mito rendersi prigionieri, né in Europa né negli Stati Uniti né in Europa. Le conversazioni tra Walzer e Jahanbegloo ci aiutano in tanti modi, anche a vedere meglio noi stessi e i nostri guai, quelli di un continente, che si riteneva al riparo dai problemi “americani” dei grandi flussi migratori, ed è invece alle prese con le turbolenze di un cambiamento, sempre più intenso, della sua stessa popolazione.

[1] R.Jahanbegloo, Conversations with Isaiah Berlin. Recollections of an Historian of Ideas, Londra 1992. La traduzione francese era uscita l’anno precedente.

[2] In questa medesima collana è uscita una raccolta di saggi sul socialismo liberale e le sue fonti in Europa e negli Stati Uniti, a cura di Nadia Urbinati e Monique Canto-Sperber, Liberal-socialisti, Il futuro di una tradizione, con saggi di Steve Lukes, Otto Kallscheuer, Mitchell Cohen, 2004.

[3] Di Carlo Rosselli, Socialismo liberale è stato tradotto nel 1994 in inglese: Liberal Socialism. A cura di Nadia Urbinati, Princeton Un. Press.

[4] Lewis Coser , The Death Throes of Western Communism: A Major Event in Recent European History, Dissent, Spring 1989

[5] Walzer ha continuato a dirigere la rivista dopo la scomparsa di Irving Howe nel 1993, affiancato prima da Mitchell Cohen e poi dallo storico Michael Kazin.

[6] M.Walzer, Social Movements and Election Campaigns, Summer 2012, trad. It su Reset.

[7] Il tema è svolto in un articolo di Walzer uscito in italiano su Reset, luglio-agosto 2004, pp.42-45 con il titolo «Una lista breve di casi da difendere a oltranza» e comparso poi in inglese nella raccolta a cura di David Miller Thinking Politically, New Haven 2007 (Pensare politicamente, Laterza 2009)

  1. ma perché la sinistra italiana continua ad essere così poco obiettiva nei confronti dei cosiddetti “liberal” americani? così propensa cioè a ignorare come una classe di intellettuali (in prevalenza ebrei, da Partizan Review in poi) avesse stabilito un vero e proprio patto con il potere, invitando gli intellettuali a un nuovo nazionalismo e a chiudere un occhio se non due sui drammi del maccartiosmo? E’ solo ignoranza, pigrizia o calcolo ideologico? Vi siete dimenticati il commento caustico che faceva su Dissent e Commentary Woddy Allen in “Io e Annie”: le fondeva in “Dysentery”…luca

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