Un “pensiero mediterraneo” che ama le differenze

Una delle benefiche conseguenze della postmodernità è il processo che ha visto imputata la ragione occidentale, costretta a un’autoanalisi critica e relativizzante dei suoi fondamenti. La compressione spazio-temporale operata dalla globalizzazione ha significato per l’Occidente un processo inedito di avvicinamento di mondi lontani e di costrizione alla convivenza con altre culture e forme di razionalità prima ignorate. Oggi che l’altro, il lontano, non è più facilmente eludibile, la negoziazione tra valori spesso considerati diseguali prorompe sulla scena. Lo vediamo non solo nelle turbolenze interne, ma anche sull’altra sponda mediterranea.
Installarsi non ingenuamente in un orizzonte multiculturale significa disfarsi dell’ideologia dell’equidistanza, accogliere col beneficio del dubbio ogni pensiero della comunicazione simmetrica. Intavolare discussioni alla pari; postulare veli dell’ignoranza à la Rawls per riprodurre il terreno della razionalità universale, è una strategia non sempre attuabile. Il rischio è che i tavoli siano sbilenchi, i veli fin troppo sottili, che dietro tali artifizi del dialogo si mascheri il dominio di una sottaciuta rigidità, un universalismo tanto piú etnocentrico quanto piú ambizioso nell’ergersi a paradigma “non negoziabile”.
Invece pluralismo significa anzitutto riconoscimento di asimmetria, differenza, conflitto, opacità irriducibili. Qui la condizione, qui anche la sfida. La reductio delle differenze non è detto che sia operazione utile e feconda. Franco Cassano, voce del pensiero “mediterraneo” le considera anzi risorse irrinunciabili. Crocevia di svariate culture, da sempre luogo di incontro/scontro tra civiltà, il mare nostrum che collega Europa a Paesi arabi e mediorientali è il laboratorio ideale per situarsi nel nuovo spazio di gioco inaugurato dalla contemporaneità. Invitato dal direttore di Reset Giancarlo Bosetti a partecipare a una conversazione insieme a giovani redattori e lettori della rivista, Cassano si è prestato alla discussione su questi temi.

GIANCARLO BOSETTI – Cominciamo dalla sfida del pluralismo radicale. Pensare al plurale significa affrontare un mutamento del “noi” che rende, tra le altre cose, difficile un discorso pubblico che chiami a raccolta energie solidali. Abbiamo messo a fuoco che il pensiero liberale è in grado certo di concettualizzare le differenze culturali in una società coesa, grazie anche alla lezione di Isaiah Berlin sulla pluralità di valori e i diversi modi di essere umani. Ma di fronte alle turbolenze immigratorie sommate alle turbolenze economiche, non è facile riallineare il liberalismo a una pluralità così forte e disturbante per la vita politica. I seminatori di paura incassano voti e mettono alla corda tutti gli altri. Si pone il problema di élite europee che faticano a digerire la realtà e la lezione del pluralismo. Dopo l’illuminismo, in cui i principi della tolleranza e del pluralismo politico si erano fatti strada, ora le classi dirigenti sono tornate a rifugiarsi nelle trincee nazionali. Cercano di esorcizzare il problema con un vago anatema intorno al concetto di multiculturalismo. Come può reagire la riflessione filosofico-politica?

FRANCO CASSANO: Partiamo dal bisogno di un pluralismo radicale: credo che quest’idea sia forse il portato più interessante e più produttivo dell’avvento del post-modernismo, che ha introdotto, rispetto alle filosofie che esaltavano il moderno come esito unico ed indiscutibile della storia, la necessità di misurarsi, attraverso un’apertura riflessiva, con il sentimento forte della relatività della propria cultura. È con il post-modernismo che si afferma la categoria di differenza culturale, sino ad allora strutturata in un campo di significati completamente diversi. Il passaggio decisivo è la percezione che il nostro “noi” sia solo uno dei tanti noi esistenti. Nel momento in cui si parla di pluralismo, il tema dell’altro diventa ineludibile, perché implica un movimento di relativizzazione di se stessi. È stato proprio questo tipo di passaggio che ha aperto la strada alla percezione che le culture diverse dalla nostra non sono dei gradi imperfetti o preliminari di essa, ma altri punti di vista sul mondo, altre immagini di esso. Già dagli anni ’70 la categoria di differenza, a partire dalla rivendicazione della differenza femminile, cominciava a farsi strada. È il momento in cui l’universo diventa pluriverso. Si è trattato di un movimento che ha attraversato più discipline e che, per quello che riguarda la mia ricerca, ha significato la necessità di misurarsi con procedure di auto-relativizzazione (ad esempio in Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro) e la problematizzazione dell’idea di progresso implicita in un certo modernismo.
Ma dopo aver sottolineato l’acquisizione epistemologica che proviene dalla categoria di differenza, così cruciale nella filosofia post-moderna, e che le conferisce quella dimensione ironica e tollerante (che è ad esempio una delle cifre del pensiero di Richard Rorty), occorre andare oltre, mettendo a fuoco i rischi che derivano dall’uso facile e privo di attriti di tale categoria. Tale uso infatti può condurre ad un impoverimento drammatico dell’analisi annegando nell’unica notte in cui tutte le differenze sono uguali anche il salto drammatico rappresentato dalla disuguaglianza e facendo scomparire le asimmetrie di potere esistenti tra le culture, risolvendo nel gioco irenistico dei reciproci riconoscimenti un processo che è invece sempre intrecciato alla dimensione tragica del potere. Le difficoltà di comunicazione tra le culture dipendono senza dubbio dalle loro differenze, da quegli assunti di sfondo che le rendono irriducibili l’una all’altra. Al fondo è proprio questo insieme irriducibile che nasce dalla diversità, questo fondo incommensurabile ed intraducibile che rende il dialogo tra le culture un compito così affascinante ed istruttivo per chi vuole mettere il naso al di là dei confini della propria cultura. Ma questa differenza può diventare un ostacolo insormontabile se ad essa si accompagna un’asimmetria di potere, una disuguaglianza di destino e di dignità tra le culture e i popoli.

BOSETTI: La scommessa pluralista consiste proprio nel puntare al riconoscimento reciproco delle differenze. Con la consapevolezza, però, di muoversi entro una situazione di asimmetria dei rapporti di potere che resta molto forte.

Non a caso nel mio lavoro ho fatto più volte riferimento ad Arnold Toynbee, che ha affrontato il tema del rapporto tra le culture in una situazione in cui una delle due è molto più forte dell’altra. La cultura più debole è vincolata ad un’alternativa che dà vita a comportamenti entrambi perdenti: sia nel caso degli erodiani, che imitano ma non riusciranno mai a diventare come l’originale, sia nel caso degli zeloti, quelli che invece rifiutano e, per certi versi, chiudono se stessi al mondo.
Il successo che il fondamentalismo ha registrato nei paesi islamici non dipende, come pretende Bernard Lewis, dalla presunta “essenza” di quella religione, ma si fonda su questo squilibrio, che favorisce nella cultura che occupa la posizione debole, l’egemonia delle posizioni più radicali, una deriva aggressiva ed integralistica. L’esistenza di tale asimmetria inquina il dialogo e lo rende poco produttivo, facendo apparire l’irenismo occidentale come una dottrina a basso costo. Il dialogo ha bisogno di una sua ecologia: dietro le differenze c’è un reticolo complesso di relazioni che non può essere rimosso e che a un certo punto può emergere in modo esplosivo. Recentemente Maurizio Ferraris ha parlato di fine del pensiero debole (e quindi del postmodernismo). Io credo che esso sia tramontato molto prima, proprio con l’11 settembre, quando l’emergere del fondo aspro e tragico della storia, ha messo fine al decennio seguito all’89, che non a caso era stato dominato dal ridicolo assunto della fine della storia.
Chi si impegna meritoriamente nel dialogo tra le culture deve quindi intrecciarlo ad un impegno per favorire tutte quelle decisioni politiche che riducono l’asimmetria di potere tra le culture. I due campi sono strettamente connessi e separarli produce solo delusioni ed insuccessi. Ma una condizione preliminare è che ogni cultura faccia i conti con il rischio del proprio fondamentalismo, rischio che non è un monopolio della cultura islamica, ma è comune a tutte le culture. Fino a quando ci sarà una cultura che vede le altre come una malattia e l’espansione di se stessa come la cura, il fondamentalismo, anche quello dell’Occidente, sarà vivo. E’ per questa ragione che, nella parte finale della mia introduzione a L’alternativa mediterranea, ho cercato di trattare alcuni casi di interazione culturale che attraverso l’apprendimento reciproco hanno prodotto posizioni nuove ed interessanti.
Conviene formulare almeno un esempio di innovazioni prodotte da questa relazione dinamica e paritaria tra le culture. Penso al femminismo islamico, che si propone partendo dal femminismo occidentale di reinterpretare i testi della tradizione, eliminando le interpolazioni maschiliste. È un modello interessante, non solo perché non è mera imitazione, ma una risposta creativa, che di rimbalzo è capace di mostrare come anche in Occidente lo sguardo maschile sia ancora potentissimo (penso a Fatema Mernissi, che ha denunciato la “tirannia della taglia 42” per le donne occidentali). La categoria di vergogna e pudore non è necessariamente legata come è accaduto nel passato al controllo dell’uomo sulla donna, ma, in un mondo nel quale la vetrinizzazione del sé è compagna inscindibile della mercificazione del corpo femminile, può diventare una strumento nelle mani della donna per difendere la sua libertà personale.

BOSETTI: Ogni cultura alberga le sue risorse di apertura verso le altre, per cui solo tramite un processo di recupero dall’interno di queste risorse il dialogo può essere produttivo. In caso contrario entra in gioco una relazione asimmetrica. Facciamo un esempio: in Tunisia c’è stata una discussione violenta dopo che un giornale laico, Ettounsia, ha pubblicato un calciatore abbracciato a una donna nuda in prima pagina. Qui entrano in gioco la questione della libertà di espressione, la libertà “di provocazione”, cui l’arte e la creatività in generale non possono rinunciare. Sappiamo bene che anche la pornografia è un estremo test di liberalismo, ma abbiamo anche imparato che est modus…. Ci sono diversi standard, nel mondo. Dopotutto è pur capitato che una pubblicità di Toscani per Benetton fosse bandita in Germania. E c’è in effetti anche il pericolo opposto, una raffica di provocazioni di questo genere è quello che ci vuole per rianimare i nostalgici delle dittature secolari, or ora cacciate. Oppure anche il pericolo di dare una mano ai salafiti che in società molto tradizionaliste dicono: ecco, lo vedete che cosa è la democrazia secolare! Se oggi volessimo instaurare un dialogo in condizioni simmetriche sul tema del pudore dovremmo difendere certo anche Playboy, da parte nostra, ma ricostruendo una storia che anche in America era cominciata con la “lettera scarlatta”, il perbenismo, l’ostracismo ai reprobi… con tutte le complicazioni del caso.

CASSANO: Sono questioni che troviamo bene esemplificate nella cosiddetta “primavera araba”. Movimento che credo perlomeno in due Paesi, Tunisia e Egitto, abbia avuto un significato estremamente positivo (in Libia il discorso è diverso, perché l’intervento cosiddetto “umanitario” ha avuto un ruolo decisivo nella vittoria dei rivoltosi). Bene, di fronte a tali fenomeni, la reazione di una parte del mondo occidentale, l’unica comunque attenta e sensibile, è stata: “Ah, finalmente sono diventati come noi!” Un riflesso che se da un lato ha stimolato sentimenti apprezzabili di solidarietà, dall’altro muove dall’assunto dell’inferiorità di quelle tradizioni.
Questo ci porta a una questione cruciale. Succede che dopo l’euforia iniziale, alle elezioni hanno vinto non le avanguardie democratiche radicali, ma i partiti islamisti. Su questo esito ci si dovrebbe interrogare, ma non mi sembra che sia accaduto. Il punto per me è che per quei paesi il cammino verso la democrazia non passa attraverso la loro liberazione da una tradizione islamica per definizione conservatrice, ma attraverso la sua reinterpretazione democratica, proprio sulla scia di quanto fanno le esponenti del femminismo islamico. E qui ritroviamo un limite analitico tipico della sinistra occidentale: essa considera quei tratti dell’avanguardia del movimento che avverte più simili a se stessa come l’essenza del “nuovo”, l’espressione fedele dei sentimenti della maggioranza del popolo finalmente risvegliatosi dal lungo sonno della tradizione. Salvo poi deludersi di fronte ai risultati elettorali e denunciare i limiti e i pericoli che da essi derivano. Nessun cenno ai propri limiti analitici, alla necessità di capire quali sono le strade del consenso popolare, alle differenze tra città e campagna, alle differenze interne all’islamismo, ecc. E’ lo stesso limite analitico che spesso commette la sinistra da noi, quella vecchia e quella nuova: il pregiudizio di considerarsi un’avanguardia che illumina in anticipo il corso del mondo e che ben presto sarà raggiunta dal resto dell’umanità. Salvo poi meravigliarsi quando la cosa non accade.

BOSETTI: Qui entra in gioco il principio di libertà e prima di tutto della libertà religiosa. Un problema di qualsiasi agenda di tipo liberale, e che in realtà riguarda entrambe le sponde del Mediterraneo. Libertà di religione in presenza di una forte religione di maggioranza.

CASSANO: La risposta è semplice e non può che essere la difesa della libertà di espressione di tutte le minoranze religiose. Ma se si vuole ridurre il peso fortissimo della religione sulla vita politica in quei paesi bisogna avere una strategia più complessa e di lungo respiro, riconoscere che, in una società che non conosce il welfare occidentale, la comunità religiosa offre degli importanti meccanismi di protezione e di solidarietà sociale. Per questo bisogna fare in modo che alla rivendicazione della libertà individuale si affianchi anche l’attenzione alla rete complessa dei suoi bisogni. La tutela delle libertà è fondamentale, ma ad essa occorre accompagnare l’importanza cruciale della protezione sociale, le cui forme laiche e statali del resto sono sotto attacco anche in Occidente.

BOSETTI: Tu parli di “cultura della responsabilità” rifacendoti a Gayatri Chakravorty Spivak. Spunti molto interessanti anche per noi europei, che abbiamo però un ostacolo: è la fatica con cui sia le classi dirigenti che l’intera popolazione prendono atto della fine di una stagione, che è stata quella del più o meno dichiarato nazionalismo. Nazionalismo è anche la cultura sottostante, non dichiarata ma non meno forte delle politiche socialdemocratiche. L’ideologia europeista, sovranazionale, appartiene a una minoranza di élite, ma fatica ad affermarsi nelle classi dirigenti e tra i cittadini. A questa sfida ora non possiamo sottrarci.

CASSANO: Certo. La nazione è il presupposto implicito del pensiero repubblicano, che si pensa universalistico, ma in fondo contiene, nella sua matrice francese e non solo in essa, un rapporto cruciale con lo stato nazione. Io non sono sicuro che il nazionalismo sia in crisi e vedo il problema su uno sfondo più complesso. Da un lato negli ultimi decenni gli stati nazionali si sono moltiplicati, dall’altro i processi di unificazione (e qui ovviamente penso alla UE) fanno fatica a procedere incontrano resistenze e rallentamenti. Quello che tu dici è vero: alla base del Welfare State, e cioè delle grandi conquiste sociali c’è lo stato nazione. Lo stato nazione quindi non è mai stato solo nazionalismo, ma anche stato di diritto, e anche una formidabile costruzione laica di protezione sociale. Ma se è così, ad esso non si può contrapporre un internazionalismo degli spiriti e delle anime, come in parte anche la sinistra fa, distaccandosi dal problema di come sia possibile una difesa europea dei diritti dei lavoratori. Io questa sinistra del lavoro non la vedo, vedo solo una sinistra ideale, più legata al “ceto medio riflessivo” teorizzato da Paul Ginsborg. Non credo quindi che si possa ignorare il tema della protezione sociali, che è poi il tema delle classi più deboli, una conquista egualitaria del Novecento. Le istituzioni storiche costruite nel secolo socialdemocratico, come lo definiva giustamente Dahrendorf, sono fortemente legate allo stato nazionale.
Per riassumere il nazionalismo costituisce sì un passo indietro, ma per batterlo occorre che la UE costruisca meccanismi di protezione sociale europei. Lo Stato nazionale non lo si supera esaltando la nobiltà d’animo e la larghezza di vedute. Per carità, esse sono necessarie, ma non anche sufficienti. E’ importante costruire un Welfare europeo. Ma l’Europa mi sembra molto lontana da questo obiettivo.

BOSETTI: Torniamo al lavoro filosofico. Tu hai scritto: la filosofia postmoderna ha aperto la strada al relativismo. A mio parere si deve tenere in conto la via americana. Il pragmatismo americano, penso soprattutto a William James, ha un’apertura al tema del pluralismo che permea a fondo la classe dirigente americana. Anche perché parliamo di un pensiero affermatosi nei decenni delle grandi migrazioni sul territorio americano, in una fase di miscela sociale che proprio il pragmatismo concettualizza. La mia suggestione è che la via pragmatista si sia prestata bene alla costruzione di un’idea di cittadinanza inclusiva, che poi ha trovato affermazione viva e concreta con i presidenti Kennedy e Johnson. L’America di oggi con l‘immigrazione inglese protestante che va in minoranza è stata resa possibile da questa idea radicalmente inclusiva della cittadinanza, sconosciuta in Europa. Il pragmatismo americano, intriso di pluralismo, fonte di pluralismo piú del postmodernismo continentale, è la cultura che ha generato quella svolta.

CASSANO: La situazione americana, secondo me, non è simile alla nostra (ricordi Tocqueville?) e anche la filosofia degli Stati Uniti risente di questa diversità. Gli Stati Uniti nascono come un paese multiculturale, la cui popolazione è composta da immigrati che hanno conquistato la terra e costruito la propria nazione, scegliendo la forma federata come elemento costitutivo della propria organizzazione politica. Certo, c’è una élite wasp che considera gli altri come “ospiti”, ma l’espansione, di fatto, è avvenuta in uno spazio vuoto, anche se la parola “vuoto” mi ripugna perché rimuove il massacro dei nativi americani. Né ovviamente quella coesistenza è stata sempre facile o pacifica. La filosofia continentale non nasce in uno spazio vuoto e poco affollato. La filosofia moderna nasce contemporaneamente all’affermarsi dello stato nazionale, anzi degli stati nazionali, in perenne contesa tra loro, alcuni dei quali protagonisti dell’espansione coloniale che non costituisce certo un paradigma di riconoscimento dell’altro. E’ anche per questo che io ho proposto di vedere nel Mediterraneo non un mare del passato, ma una possibile forma per il futuro.

BOSETTI: Proprio negli Usa un presidente di origine irlandese, Kennedy, promuove la campagna per abolire le quote di immigrazione. E a meno di 50 anni dall’affermazione dei diritti civili, un nero è diventato presidente. Per questo, io credo, non possiamo non guardare agli Stati Uniti come a una esperienza che ci parla del presente, della globalizzazione e del futuro. Soprattutto in Italia, con una classe dirigente che fatica ad accettare persino l’idea che gli immigrati debbano votare almeno alle elezioni amministrative. Questi politici attuano una resistenza inerziale che è catastrofica. Ecco perché il percorso culturale che introduce una visione pluralistica non può non considerare la strada americana, pur con tutti i necessari distinguo.

CASSANO: Io credo che le classi dirigenti italiane, ma vorrei dire anche le classi dirigenti europee, debbano tornare al futuro. L’Europa-fortezza è una forma di suicidio tipica di un paese per vecchi. Il sud dell’Europa non è un problema, ma, con il suo richiamo al Mediterraneo, una soluzione, il suo futuro. Ripararsi da esso significa chiudere la porta in faccia ad un ruolo planetario dell’Europa, rinchiudersi in un’idea dell’Europa ancora eurocentrica anche se non più coloniale. E devo dire che le dispute di questi mesi sembrano tutte dominate da una logica contabile, che è sicuramente degna del massimo rispetto, ma che vuol dire piccola, piccolissima politica, paura del futuro. Anche i passi in avanti dell’Unione politica sono tutti legati al calcolo dei costi e dei vantaggi del singolo stato.
Per l’Italia poi il problema del Mediterraneo non è un’opzione tra le altre, ma in primo luogo la riscoperta della nostra storia e della nostra identità. Al momento poi noi non abbiamo più una politica estera, che anche sommersa, negli anni della guerra fredda pure avevamo. E la questione mediterranea se pure c’è mai stata negli ultimi venti anni, non è più nell’agenda dei nostri governanti. Durante la conferenza di fine anno, il problema è stato posto due volte a Monti, che ha risposto: “Affronteremo il problema con calma”. Io credo che, proprio in una fase di crisi, posporre un tema di questo tipo voglia dire, di fatto, tranciare un pezzo di futuro.
Ma come si fa a rilanciare un paese se si condanna ad una posizione periferica e marginale una parte decisiva di esso, quella che, essendo già da sempre nel nostro mare comune, potrebbe ripartire solo attraverso la costruzione di un’area mediterranea di collaborazione e sviluppo? E le “rivoluzioni arabe” non trarrebbero giovamento e stabilità se incontrassero una disponibilità europea e italiana, una decisa volontà politica di costruire quest’area comune?

BOSETTI: A questo riguardo, sarebbe utile una riflessione sulla cultura postcoloniale e sul suo testo di origine, Orientalism, di Edward Saïd. Se i paesi arabi si risvegliano alla democrazia, non si preannuncia la possibilità di superare una stagione di risentimenti e di aprire un’epoca di dialogo in condizioni di pari dignità?

CASSANO: Saïd ha un atteggiamento di radicale diffidenza riguardo alla categoria di differenza, che ritiene in buona misura una costruzione artificiale che non solo è stata creata dall’Occidente, ma oggi viene strumentalizzata dai satrapi locali, per perpetuare il controllo delle popolazioni in senso tradizionalistico e autoritario. Tuttavia la mia idea è che la differenza culturale esista e non possa essere pensata solo come un espediente costruito dall’Occidente o dai leader conservatori dei paesi extra-europei. Il valore del lavoro di Said è incalcolabile, ma confesso che l’unanimismo non è un atteggiamento in cui mi riconosco. Said ha avuto almeno due meriti di grande importanza: a) tramite Orientalismo ha decostruito un dispositivo culturale che aveva a lungo fuorviato la percezione occidentale dei paesi extraeuropei; b) ha denunciato al mondo le ingiustizie e le prevaricazioni subite dal popolo palestinese, decostruendo anche qui i meccanismi di rimozione dell’opinione pubblica occidentale.
Ma l’idea che le differenze culturali siano necessariamente una costruzione orientata ad organizzare il dominio di qualcuno su qualcun altro mi sembra troppo rapida e semplice. Le differenze culturali esistono, sono legate spesso anche a sentimenti popolari che si riproducono nel tempo, e possono essere usate anche dalle classi dirigenti emergenti non necessariamente in senso repressivo. Oggi esiste una discussione sul capitalismo confuciano, visto come un equivalente funzionale di quello che nel decollo del capitalismo europeo era stato, secondo la celebre analisi di Max Weber, il ruolo del calvinismo. Mi sembra quindi che occorrerebbe essere più prudenti prima di liquidare l’idea di differenza culturale come un dispositivo di controllo.
Io credo invece che il pluralismo culturale richieda l’apertura delle culture, l’incessante curiosità di una nei riguardi delle altre, lo sforzo, sempre imperfetto, di tradurre l’una nell’altra, la lotta contro le asimmetrie di potere e infine la costruzione di una cultura planetaria a più mani, nata da un’interazione tra le diverse civiltà, capace di tenerle lontane dalla deriva del fondamentalismo e dello scontro. Credo non all’universale, ma al comune.
E potrei dire anche in campo musicale: non esiste solo la grande tradizione classica europea, come sembra credere Said in una straordinaria discussione con Barenboim, ma esistono le musiche del mondo e le loro interazioni, le creazioni a cui esse danno vita mentre accompagnano le vicende degli uomini e delle donne del pianeta.

(A cura di Laura Cervellione e Noemi Trino)

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