Una prospettiva globale: oltre la società del lavoro

Dalla tavola rotonda organizzata nel gennaio 2001 da Reset in occasione della uscita di quattro diversi volumi in italiano di Ulrich Beck, La società del rischioEuropa Felix (da Carocci editore), I rischi della libertà (il Mulino), Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro (Einaudi), e alla quale il sociologo partecipò insieme a Giuliano Amato, Alessandro Pizzorno e Angelo Panebianco.

 

La globalizzazione sta accentuando l’avanzata delle economie tecnologico-informatiche in tutto il mondo, aumentando il rischio soprattutto per i lavoratori. Numerose istituzioni socioeconomiche sono diventate “zombie”, vivono ma non funzionano come si deve. La domanda di lavoratori specializzati sta superando l’offerta; al tempo stesso, molti lavoratori sollevati da incarichi meno tecnologici non sono riqualificati abbastanza velocemente, mentre altri non sono neanche preparati per la riqualificazione. “La sicurezza del posto di lavoro” è una cosa che appartiene al passato. A un certo momento, praticamente tutti si troveranno a dover cercare un lavoro fra le attività non tradizionali. Questa situazione implica un passaggio dal lavoro dipendente al “lavoro cittadino” e richiede nuove istituzioni per far rientrare tutti i cittadini in attività che la comunità apprezza ritenendole auspicabili. All’obiettivo della società della “piena occupazione” deve subentrare quello di una società del “lavoro multiplo” perché ogni cittadino abbia un senso e un posto in un ambiente sempre più a rischio.

 

Il processo di globalizzazione dovrà superare numerose “istituzioni zombie” che sono “morte” ma ancora funzionanti e non possono essere “messe da parte” facilmente. Non sono adatte a un’economia mondiale aperta ma verranno mantenute da coloro che le hanno trovate utili in economie orientate verso l’interno della nazione. Esse rappresentano un ostacolo di fondo alla comprensione delle dinamiche e delle sfide del nostro tempo. L’istituzione zombie che trovo più problematica è quella della “piena occupazione”. È stata per decenni un principio per gli economisti ed è stata istituzionalizzata mediante la legislazione che la imponeva come politica obiettiva per la gran parte dei paesi aderenti all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE).

Voglio unire due argomenti che a prima vista potrebbero sembrare assolutamente estranei. Il primo viene dal sociologo francese André Gorz: «Ogni politica, non importa su quale ideologia si fondi, è falsa se non riconosce il fatto che può non esserci più la piena occupazione per tutti e che il lavoro dipendente non può più restare il centro della esistenza, anzi non può neanche restare la principale attività di ogni individuo». Il secondo viene da Immanuel Kant: «Considerarsi secondo il diritto civile nazionale un membro associato di una società cosmopolita è l’idea più sublime che un uomo possa avere della propria destinazione. Uno non può pensarci senza provare entusiasmo».

Sosterrò che la fine di una politica della piena occupazione nel classico senso del termine non deve necessariamente catastrofica. Può diventare la base di un costrutto politico per una società civile cosmopolita, specialmente nei paesi più progrediti. La democrazia europea, in particolare, potrebbe trovare la propria anima mediante quello che io chiamo “lavoro cittadino”. Come prospettiva globale ci dovrebbe essere un’espansione di questo tipo di lavoro per tutti in una comunità mondiale. Ma questa prospettiva rimane ancora molto distante.

Il mio discorso si svilupperà in tre fasi. Per prima cosa, mi avventurerò un po’ nelle “categorie zombie” in generale. Subito dopo attaccherò direttamente lo zombie della piena occupazione che domina il dibattito pubblico e soprattutto il pensiero dei governi di centrosinistra in Europa. Infine ipotizzerò forme alternative di inclusione e spiegherò la mia idea di “lavoro cittadino”.

 

Categorie zombie

Discutendo il ruolo della comunità contro quello dell’individuo si può rimanere coinvolti in una complessa varietà di concetti legati alla società civile e all’azione collettiva. Per esempio, che cos’è una famiglia? Che cos’è un nucleo familiare? Che cos’è una classe? Che cos’è uno stato? Che cosa significa vicinato? Tutte queste sono categorie zombie, vale a dire che sono morte ma continuano a vivere impedendoci di vedere le realtà della nostra esistenza.

Prendiamo come esempio la famiglia. In questi giorni tutti esaltano la famiglia, in particolare i politici. Ma che cos’è una famiglia con la normalizzazione del divorzio? Di chi sono i figli, per esempio: tuoi, miei, nostri? E che cosa ne è di nonna e nonno? La normalità del divorzio significa che ciascuna di queste relazioni di parentela viene automaticamente moltiplicata senza alcun intervento di ingegneria genetica. Quindi, più sono i divorzi, più nonni e nonne ci sono. Ora esistono nonni di primo e di secondo grado! Così nonni e bambini vengono esclusi da una famiglia e inseriti in un’altra senza avere alcuna voce in capitolo. Che cosa significa “democratizzazione della famiglia” per i nonni di primo e secondo grado? Vuole forse dire che ci dev’essere una riunione o una petizione o un colloquio di tutti i nonni veri o eventuali di primo e secondo grado prima di procedere a un divorzio o a un secondo matrimonio? Che cosa succede se iniziano a divorziare nonne e nonni?

Anche se rispondiamo a queste domande, ne rimangono altre. I sociologi, per esempio, continuano a raccogliere dati per dimostrare la realtà della classe. Ma come definire la classe? La classe in genere è determinata dal nucleo familiare. L’unità di base sulla quale si costruisce il nucleo familiare è la persona che “porta a casa il pane”. Ma che cos’è un nucleo familiare, economicamente, socialmente e geograficamente, in condizione di separazione in casa e di normale divorzio? Le nonne di secondo grado fanno parte del nucleo familiare oppure no? Naturalmente possono farne parte, se si decide così e ci si prende cura di loro. Ma che cosa succede se si decide di accettare un nonno ma il coniuge decide altrimenti? Ancora, come si fa a dare una definizione di famiglia e classe quando i giovani stanno cercando di controllare la propria vita affermando i propri modelli di consumo e di comportamento. I legami di classe (consumi e comportamento) per molti “culti della gioventù” sembrano più stretti attraverso i confini nazionali che non tra gruppi di giovani in una singola città. Come si può dunque definire o rappresentare quello che è diventato un “possibile nucleo familiare” per determinare la classe.

Passiamo oltre famiglia e classe: chi sono i nostri vicini, e dove sono? Nella casa accanto o nel continente accanto? Come dimostra la ricerca sulla “vita nella città globale” in molte aree di Londra la gente che vive fianco a fianco viene isolata, ma contemporaneamente ha profondi legami sociali oltre confine e in altri continenti. L’ideale di globalizzazione può essere una comunità mondiale” ma sarà difficile di crearla con l’isolamento locale.

Tutto questo fa pensare che non si può prevedere facilmente come voterà, comprerà, vivrà, mangerà, amerà, lavorerà, pregherà, si sposerà, procreerà, darà vita ad associazioni, si vestirà, consumerà o passerà il tempo la gente. La sociologia deve ripensare tutti questi casi. Naturalmente questo in qualche modo lo sappiamo tutti, e lo sanno fin troppo bene anche le direzioni marketing, le agenzie pubblicitarie e i politici. Ma quando consideriamo la prospettiva globale e discutiamo il futuro probabile ci preoccupiamo per il potere di questi zombie. Una delle ragioni per cui sono così potenti è che sono tenuti in vita da un intero apparato di conoscenze di statistica amministrativa, economia e politica, da scienze politiche che producono e riproducono dati statistici in base a vecchi presupposti sulle categorie collettive e così facendo mantengono “in vita” istituzioni zombie.

 

La piena occupazione nella politica europea

La maggiore questione nella politica europea della quale potremo star certi ancora per un bel pezzo è il modo di raggiungere la piena occupazione. Se il principale sistema in fase di globalizzazione si presume debba essere il capitalismo classico, la stessa priorità si presenterà in futuro. Eppure, dati gli alti tassi di disoccupazione nel secondo, terzo e quarto mondo, la frustrazione sarà forte e persistente. Le pressioni del benessere renderanno più profonda quella frustrazione perché la piena occupazione è considerata la chiave per la riforma dello stato sociale. È percepita come la chiave per una potente sinistra politica in Europa che presuppone che attirerà un largo appoggio popolare. Ma è proprio questa politica della piena occupazione a essere uno zombie. Quella che sta crescendo rapidamente in tutto il mondo è la categoria del lavoro precario, fragile: che vuol dire flessibile, lavoro autonomo, lavoro con contratto a breve termine o del tutto senza contratto socialmente e geograficamente separato e differenziato. Per citare Ralph Dahrendorf: «È lavoro, Jim, ma non come lo conosciamo». La velocità e la portata di questa trasformazione è già notevole e stanno subendo un’ulteriore accelerazione per via del processo di globalizzazione.

Nella commissione del governo tedesco sul futuro del lavoro, di cui ho fatto parte, abbiamo osservato da vicino e con attenzione questo sviluppo trovando in Germania la presenza di una società del lavoro altamente standardizzato. Negli anni settanta un decimo della forza lavoro era rappresentata da lavoratori flessibili nel senso ampio del termine e che arrivarono a un quarto negli anni ottanta e a un terzo negli anni novanta. Se questa crescita continua o accelera nel giro di dieci o quindici anni almeno la metà della popolazione impiegabile in Occidente lavorerà in condizioni precarie (non contrattualizzate, non sindacalizzate).

Così si dovrebbe distinguere tra due forme esistenti di piena occupazione. Una è la piena occupazione normale con una disoccupazione nazionale del due per cento, la previdenza sociale e un’identità definita mediante il proprio lavoro, e di norma con un normale contratto di lavoro. La seconda è una piena occupazione precaria sempre più significativa. Questa seconda forma ha implicazioni anche superiori alla piena occupazione, dato che uomini e donne lavorano in un posto ma fanno più di un lavoro. Naturalmente, le donne questo lo hanno fatto per tutto il corso della storia mentre la maggior parte della popolazione nei paesi sviluppati continua a barcamenarsi tra molteplici lavori, doppio lavoro, condivisione dei lavori di casa e così via. I paesi della formale piena occupazione dell’Occidente sono all’avanguardia di quella che può essere definita una femminilizzazione del lavoro o una brasilianizzazione della società del lavoro occidentale.

La disoccupazione è il prodotto di una società del lavoro regolare. Nei secoli precedenti non si aveva idea di questo: di fatto esistono ancora alcune società che non hanno una parola per “lavoro” dal momento che uomini e donne si limitano semplicemente a compiere certi compiti o funzioni come allevamento, caccia, pesca, raccolta, tessitura, cura dei figli e cucina. Più di qualsiasi altra cosa, il concetto di lavoro contrattualizzato e separato è stato definito dalla rivoluzione industriale, che ha compartimentato il lavoro dalla vita familiare quotidiana. La separazione del “lavoro” o della “manodopera” fu rafforzata dalla precoce osservazione che i poveri non avevano un lavoro formale.

L’ascesa dello stato assistenziale era un tentativo di rimediare al mancato reddito dell’assenza di occupazione nel senso classico. Il concetto di piena occupazione era così importante che per i classicisti che costoro non potevano concepire un sistema senza di esso. Fu solo quando Keynes pubblicò la sua Teoria Generale che l’Occidente fu costretto ad affrontare le conseguenze teoretiche e politiche di quello che si vedeva in realtà.

Attualmente quello che sta succedendo per il lavoro è già successo per la famiglia: l’eccezione sta diventando la regola. Perché accettiamo la pluralizzazione della famiglia e non la pluralizzazione del lavoro? Ma forse la mia nozione di “lavoro precario” è solo un’altra categoria zombie. In effetti, il lavoro precario e il lavoro flessibile non sono la stessa cosa. Quello che significa dal punto di vista economico e sociale dipende in gran parte delle circostanze. Non dipende solo dalle condizioni di lavoro ma anche in pari misura dallo stile e dalle condizioni di vita personali: essere sposati o non sposati, con una persona occupata o con un disoccupato, essere giovani o anziani, studenti o non studenti.

Esistono due opinioni diffuse riguardo al lavoro precario che possono risultare inconsistenti. La prima è che il lavoro informale occasionale è tipico di gruppi marginali come poveri, minoranze etniche e immigrati, gente che vive soprattutto in quartieri degradati. Lavoratori a tempo flessibile si trovano in tutte le categorie sociali, da quelle con un’alta qualificazione a quelle che non ne hanno, principalmente fra le donne ma sempre più fra gli uomini. Di conseguenza il lavoro a tempo flessibile e i rischi attinenti riguardano trasversalmente tutte le categorie sociali.

Secondo, dobbiamo contestare la principale risposta politica dei governi del centrosinistra in Europa che cercano di sostituire il lavoro informale con quello formale mediante l’attuazione di leggi sul lavoro, le imposte e lo stato sociale. I confronti portati avanti dall’OCSE sulla disoccupazione tra i suoi membri smentiscono queste opinioni e dimostrano che sono le norme e l’amministrazione, per esempio dei test per chi cerca lavoro, che incidono direttamente sul tasso di disoccupazione più del livello delle indennità di disoccupazione. Secondo, anche quando i benefici sociali sono bassi, forniscono comunque un reddito relativamente sicuro, senz’altro più del lavoro a tempo parziale, occasionale o interinale. Così accettare un lavoro, anche se il reddito è leggermente superiore, espone la famiglia a maggiori rischi, aumenta il rischio della vita quotidiana e rende incerta la qualità della vita, e la lotta con una burocrazia scoraggiante ricomincia. Terzo, chi vara leggi sul lavoro guarda alla società dalla prospettiva di un satellite nello spazio, e quindi costruisce categorie generalizzate. Ma noi viviamo in una società di eccezioni, così queste politiche più spesso possono andare contro gli interessi della gente invece che a loro favore.

 

Riflessività e rischio

Vediamo questo discorso in modo un po’ più sistematico, specialmente per quanto riguarda la riflessività e il rischio che ne risultano. Sono entrambi concetti chiave per comprendere le realtà del lavoro e della vita, ed entrambi stanno emergendo come le nuove caratteristiche della “modernizzazione riflessiva” della società del lavoro.

1. Riflessività come fonte di produttività: La caratteristica evidente del lavoro basato sulla conoscenza è l’applicazione autonoma della conoscenza alla conoscenza come fonte fondamentale di produttività. È questo scambio costante tra innovazioni tecnologiche basate sulla conoscenza e la loro applicazione per creare nuove tecnologie e nuovi prodotti basati sulla conoscenza che non solo mettono in moto e fanno funzionare la spirale della produttività della società della conoscenza, ma addirittura la accelerano.

2. La dinamica transettoriale: Nella transizione alla società della conoscenza non ha creato alcun nuovo settore di produzione. Invece l’incremento della produttività legati alla conoscenza permea e modifica tutti i settori della produzione – agricoltura, industria e servizi – e dissolve la distinzione tra beni e servizi. Nelle società postindustriali o di servizio, la distinzione tra primario, secondario e terziario sta diventando una distinzione zombie.

3. Deterritorializzazione del lavoro: Chiunque tenti di interpretare le dinamiche di una società della conoscenza in termini di presupposti e categorie del vecchio paradigma del lavoro sottovaluta il suo potenziale autenticamente rivoluzionario. È rivoluzionario perché offre la possibilità di una connessione a presa diretta tra vari generi di attività: sviluppo, produzione, amministrazione, applicazione e distribuzione. Il risultato, comunque, è la dissoluzione del paradigma del vecchio “contenitore” territoriale della società industriale. Così la produzione di software si concentra negli istituti di ricerca in India da ogni parte del mondo. Al tempo stesso c’è un moltiplicarsi delle opzioni, che richiedono decisioni ed esigono la standardizzazione. Come conseguenza di ciò, il determinismo tecnologico viene contestato dalla stessa tecnologia informatica.

A rischio di un’eccessiva semplificazione, propongo la seguente distinzione. Il dibattito ininterrotto sull’ascesa e il declino della produzione di massa di tipo fordista, del consumo di massa e della piena occupazione standardizzata che corrisponde all’immagine dell’economia classica e della prescrizione keynesiana delle politiche della “piena occupazione” appartengono al paradigma del primo periodo della modernità. Nel secondo periodo della modernità, d’altra parte, ogni campo – economia, società e politica – è governato da un regime di rischio per cui la “sicurezza del posto di lavoro” sarebbe anacronistica. La distinzione appropriata è, dunque, non già tra economie industriali e postindustriali o fordiste e postfordiste, ma tra la sicurezza, le certezze e i confini netti del primo periodo della modernità e l’insicurezza, le incertezze e la dissoluzione dei confini del secondo periodo della modernità. La globalizzazione sta affrettando il secondo periodo e sta aumentando rischi e incertezze.

La produzione di massa di stile fordista andava bene per una società standardizzata. Con l’avvento del regime di rischio, ci si aspetta che la gente adatti il proprio programma di vita individuale, la mobilità e le forme di autonomia alla società basata sull’informatica e sul mutamento tecnologico. Il nuovo ceto medio diventa il ceto medio precario. La povertà diventa “dinamica”, il che vuol dire che viene spezzettata nelle varie fasi della vita e distribuita fra tutti i ceti come entrano ed escono dal flusso dell’attività economica. Questa mobilità diventa un’esperienza “normale e sempre più spesso non momentanea, anche nei ceti medi della società. Il fordismo e la politica di stampo keynesiano si basavano sui confini dello stato nazionale, vale a dire su una comprensione della politica e della società di una nazione e del loro potenziale regolatore. Nel regime di rischio, tuttavia, questa immagine di ordine scompare ed è rimpiazzata dalla compulsione a collocarsi e ad affermarsi sul mercato mondiale e nella società mondiale. Questo nuovo orientamento è necessario non solo per le singole persone ma anche per città, province e stati nazione.

Non ci possono essere dubbi sul fatto che il regime di rischio determina ed esprime il comportamento economico in condizione di apertura mondiale dei mercati e della concorrenza. Quando il tasso del dollaro cambia e i tassi d’interesse salgono o scendono le banche e i mercati dell’Asia orientale o dell’America del sud possono anche vacillare. Quando Greenpeace interviene e si ha una rivolta ecologica dei consumatori, quando i governi alzano il prezzo del petrolio e i limiti di emissione, quando le società immettono sul mercato nuovi prodotti, si fondono, si dividono o spariscono all’improvviso, i libri degli ordini, le decisioni di investimento e le strategie di gestione cambiano da un anno all’altro, da un trimestre all’altro e spesso da una settimana all’altra.

Il regime di rischio nell’economia significa che, in principio, tutto è possibile e di conseguenza non si può prevedere e controllare niente. In questo mondo di rischi globali il regime fordista di produzione di massa standardizzati sulla base di una inflessibile, segmentata divisione gerarchica della manodopera diventa un indiscutibile impedimento all’uso del capitale. Quando la domanda è imprevedibile, tanto in termini di quantità che di qualità, quando i mercati si sono diversificati in tutto il mondo e risultano dunque incontrollabili, quando le tecnologie informatiche rendono simultaneamente possibili nuovi tipi di forme di produzione decentralizzate e mondiali, allora non sono più applicabili le basi della standardizzazione della produzione e del lavoro come formulate da Taylor nella “gestione scientifica” (e adottate da Lenin per la filosofia e l’organizzazione sovietica del lavoro). La rigidità di questi regimi porta su i costi e riduce la risposta al variare delle domande del consumatore e agli spostamenti nel commercio internazionale.

Per contro il tempo flessibile e gli incarichi di lavoro precari diventano il perno della razionalizzazione in corso e degli aumenti di produttività in tutte e tre le dimensioni del lavoro: orario, sede e contratto. I risultati sono che il regime di rischio abbraccia e trasforma in misura sempre maggiore le condizioni di vita e di lavoro. Questo avviene non solo nel settore del lavoro non specializzato, ma anche in aree che richiedono personale altamente qualificato. È sufficiente un’occhiata al numero in rapido aumento di incarichi accademici a bassa retribuzione negli Stati Uniti per rendersi conto che la categoria del “disoccupato temporaneo permanente” sta assumendo dimensioni sempre più ampie proprio in settori chiave dell’economia informatica.

Questa rivoluzione nel mercato del lavoro al mondo organizzato del fordismo e del taylorismo sostituisce un’economia politica di incertezza, il regime di rischio del lavoro, le cui implicazioni sociali e politiche non sono ancora ben chiare. Un risultato notevole, tuttavia, sarà la continua riduzione del ruolo e del potere dei sindacati dei lavoratori, specialmente nel campo della sicurezza del lavoro ma anche in materia di progressione della carriera o di scala delle retribuzioni.

L’economia politica dell’incertezza è innanzitutto un’espressione del nuovo gioco di potere tra giocatori legati al territorio quali da una parte la forza lavoro, dall’altra i governi, i parlamenti, i sindacati e giocatori non legati al territorio quali il capitale e le forze finanziarie e commerciali. Questo significa che il capitale diventa globale mentre la forza lavoro rimane in gran parte locale; in termini fisici, però, non di servizi: i servizi della forza lavoro sono altamente mobili, lo sono perfino quelli più qualificati ed educativi.

Da questo deriva la legittima impressione che lo spazio di manovra dei governi si sia ristretto alla scelta fra pagare per la crescente povertà con una crescente disoccupazione (come nella gran parte dei paesi europei) oppure accettare una cospicua povertà in cambio di una disoccupazione un po’ meno grave (come negli Stati Uniti).

Questo si ricollega al fatto che il lavoro ben retribuito e stabile sta diminuendo mentre aumentano gli esseri umani rimpiazzati dall’uso di tecnologie intelligenti. L’aumento della disoccupazione in Europa, dunque, non può più essere ascritto alle cicliche crisi economiche ma al successo di un capitalismo tecnologicamente avanzato. Questa “disoccupazione tecnologica” era stata prevista da decenni, non erano stati previsti invece né il lavoro multiplo per il lavoratore né l’incertezza del regime di rischio.

Dobbiamo cambiare il nostro linguaggio economico. Non solo non abbiamo categorie utili per descrivere e comprendere la “brasilianizzazione del lavoro”, ma dobbiamo renderci conto che la crescita economica non è più un indicatore valido della creazione di posti di lavoro. La creazione di posti di lavoro non è più un indicatore valido dell’occupazione, e l’occupazione di per sé non è più un indicatore dei livelli di reddito e della condizione di sicurezza dei lavoratori. Anche l’esistenza dei benestanti sta diventando incerta e il successo di oggi non rappresenta una garanzia contro il fallimento del futuro. Un esempio significativo di questo fenomeno si ha negli Stati Uniti, dove dietro il miracolo dell’occupazione alla fine degli anni novanta si nascondeva l’economia politica dell’incertezza. Gli Stati Uniti sono l’unica società avanzata in cui la produttività è costantemente cresciuta negli ultimi vent’anni mentre il reale valore del reddito della maggioranza, l’ottanta per cento della gente, si è bloccato o è crollato. Questo non è successo in nessun’altra democrazia avanzata.

Il risultato è che l’economia politica dell’incertezza porta a un effetto domino. Se nei bei tempi andati la piena occupazione (nel senso classico), pensioni sicure e alto gettito fiscale, e le politiche dello stato erano complementari, ora si insidiano reciprocamente. Il lavoro dipendente diventa precario e le basi dello stato sociale si stanno sgretolando. Ma questo altera anche la nostra concezione di inclusione ed esclusione, definite entrambe in base a ciò che è “costante” in un oceano di cambiamento: un lavoro regolarmente retribuito per tutti.

Di conseguenza, le strategie difensive ortodosse sono costrette ovunque ad andare in pensione. Da ogni parte si chiede “flessibilità”. In altre parole, a un “datore di lavoro” deve essere consentito di licenziare i suoi “dipendenti” più facilmente. “Flessibilità” significa anche una ridistribuzione dei rischi dallo stato e dall’economia ai singoli individui. I lavori disponibili possono concludersi facilmente con breve preavviso, cioè sono “rinnovabili”. Da ultimo, “flessibilità” significa “congratulazioni, le tue conoscenze e le tue abilità sono obsolete, e nessuno è in grado di dirti che cosa devi imparare per essere utilmente impiegato di nuovo”.

L’ulteriore conseguenza è che più i rapporti di lavoro vengono deregolamentati e dominati dal “tempo flessibile”, come lo sono dalla globalizzazione, più si accelera la trasformazione della società del lavoro in società del rischio; e questo non è quantificabile né per un individuo nel corso della vita né per lo stato e la politica. Così, d’un tratto, diventa più importante che mai elaborare le contraddittorie conseguenze dell’economia politica del rischio. Almeno una cosa è chiara: l’insicurezza endemica in futuro contraddistinguerà l’esistenza, e il fondamento dell’esistenza, della maggioranza della popolazione anche in paesi all’apparenza ricchi. Di conseguenza l’apparenza della società cambia notevolmente sotto l’influenza dell’incertezza della forza lavoro. In alcune aree ristrette una mancanza di ambiguità viene portata alle estreme conseguenze. Proprio in cima, ci sono i vincitori della globalizzazione, i proprietari del capitare attivo a livello globale e i loro massimo dirigenti: il reddito di questa minoranza è aumentato esponenzialmente. Proprio alla fine, che poi non è più una fine ma un fuori, ci sono i poveri localizzati o gli esclusi. Zygmunt Bauman ha segnalato una differenza essenziale dalla povertà di epoche precedenti: in particolare, in una economia globalizzata questi poveri localizzati non servono più. Tra queste due aree le ambiguità si dispiegano, si mescolano e si intrecciano. Sempre più persone vivono, per così dire, a metà tra le categorie della povertà e della ricchezza.

Se questa diagnosi è fondamentalmente corretta, allora abbiamo davanti due opzioni politiche. La prima è la politica di attuare la piena occupazione nonostante la fine della piena occupazione normale. Questa politica neolaburista parte dal presupposto che solo il lavoro garantisce ordine e inclusione nella società e che il lavoro dipendente ha il monopolio dell’inclusività. La seconda opzione è di ripensare e ridefinire il lavoro come abbiamo fatto per la famiglia. Questo richiede un cambiamento di paradigma dal monopolio della società del lavoro dipendente alla pluralizzazione del lavoro e a una società del lavoro multiplo. Ma non basta, implica anche una socializzazione dei rischi del lavoro precario. Questa nuova “socializzazione del rischio” può essere delineata in un altro modo, al di là della normale società del lavoro e il suo stato sociale da un lato, al di là dell’individualizzazione del rischio dall’altra. Vediamo in dettaglio questa opzione.

 

Il lavoro cittadino

Il lavoro ha sempre avuto il monopolio della capacità di determinare l’inserimento, è sempre stato il fattore che determina il ruolo e lo status di qualcuno all’interno di una società? In realtà, è vero il contrario; nell’antica Grecia democratica, nell’India delle caste, nel Giappone e nella Cina di prima del diciannovesimo secolo il lavoro era stigmatizzato, era il principale simbolo di esclusione. Chi era costretto a lavorare, le donne delle caste inferiori e gli schiavi, non erano membri della società. Se gli antichi greci potessero ascoltare le nostre discussioni sull’esigenza antropologica di lavorare per essere un membro rispettato della società e un essere umano pienamente apprezzato riderebbero e non capirebbero una parola. Il sistema di valori che proclama l’importanza del lavoro e del lavoro soltanto per costruire e controllare una società inclusiva è un’invenzione moderna del capitalismo e dello stato sociale. La lingua della società del lavoro è l’esempio più radicale di come i presupposti antropologici nel corso della storia possono essere ribaltati.

Nella vita e nella politica di ogni giorno è necessario un cambiamento di prospettiva sul ruolo della forza lavoro di base in “astratto”. In concreto, esistono già molti segnali del fatto che sta avendo luogo. Al di là della disoccupazione e della tensione al lavoro c’è una vita, e si pone sempre maggiore enfasi sulla “qualità di vita” all’interno e all’esterno del posto di lavoro. Dobbiamo renderci conto che la penuria di lavoro dipendente significa abbondanza di tempo, e che lo stato sociale dev’essere ricostruito per prendere in considerazione il lavoro dipendente saltuario. Quello significa che i casi documentati di lavoro saltuario e di lavoro multiplo devono essere riconosciuti e protetti socialmente e legalmente. All’opposto della società del lavoro, tuttavia, non c’è la società del piacere ma la società del lavoro multiplo e una riforma dello stato sociale basata sul rischio della socializzazione.

I concetti di base di una società della carriera multipla vennero avanzati alcuni anni fa dalla filosofa Hannah Arendt e dall’antropologo culturale Ernest Gellner. Pur avendo usato una diversa terminologia per individuare i tre principali aspetti della vita – Arendt ha parlato di “lavoro, azione e contemplazione”, Gellner di “aratro, spada e libro” – i concetti sono gli stessi. Nella sua storia il genere umano ha conosciuto tre distinti generi di attività riguardanti: (1) il conseguimento dei mezzi per mantenersi in vita e l’accrescimento dei piaceri materiali (lavoro); (2) il raggiungimento e il mantenimento della sicurezza all’interno della comunità contro gli “invasori” e l’accrescimento della qualità di vita attraverso l’interazione sociale (azione politica) e (3) lo sviluppo della mente e dello spirito mediante la curiosità, la creatività, la ricerca intellettuale e la contemplazione (istruzione, ricerca e religione). Tanto Arendt che Gellner hanno sottolineato i molteplici scopi di ogni individuo e l’importanza di far parte della vita economica, sociopolitica e intellettuale della comunità. Ogni individuo tendeva a portare il proprio contributo in una sola di queste attività, ma nel far questo dovevano tutti passare per l’una o per l’altra via. Così anche coloro che si concentravano sull’attività economica erano comunque coinvolti nella vita della comunità, nella politica e avevano bisogno di una certa istruzione. Ognuno di questi campi è diventato più importante in seno alla totalità, di modo che chi emerge in uno dei tre si trova ancora più profondamente coinvolto negli altri due.

Il risultato del lavoro di Gellner e di Arendt è la dimostrazione del fatto che lo sviluppo della società deve seguire queste tre vie, e che gli individui si evolvono molto più pienamente se le seguono tutte e tre. È difficile che qualcuno dia la stessa attenzione a tutte e tre contemporaneamente, ma potrebbe farlo almeno in parte o in successione. Il fatto di dare a ogni individuo la libertà e l’incoraggiamento perché dia il suo contributo in ciascuno di questi campi e quindi diventi una persona più evoluta dovrebbe essere un obiettivo della società che dovrebbe valutare i contributi in ciascuno di essi.

Di qui la domanda seguente: come si può conseguire in Europa una società civile postnazionale? La mia risposta è che sarà possibile solo se le nuove forme precarie di occupazione potranno essere trasformate nel diritto al lavoro dipendente saltuario e al tempo disponibile, in una nuova padronanza dell’orario di lavoro inserita negli accordi negoziati sulla paga e le condizioni. Solo allora potranno essere sviluppate e garantite nuove libertà nell’equilibrio tra lavoro, vita e attività politica; solo allora potrà svilupparsi ed essere garantita la società civile. Ogni essere umano dev’essere in grado di determinare autonomamente la forma della propria vita e di compensare lo scarto tra famiglia, lavoro retribuito, tempo libero e impegno politico da un lato e le rivendicazioni e le esigenze degli altri per tutta una vita. Sinceramente ritengo che questo sia l’unico modo di attuare una politica dell’occupazione per tutti.

Ma la mia proposta si scontra a un ostacolo fondamentale. È la fondamentale inconciliabilità tra la partecipazione attiva alla democrazia e l’economia politica dell’incertezza. Nel contestare l’economia politica dell’incertezza, le istituzioni democratiche possono uscirne a loro volta danneggiate. Cito Zygmunt Bauman: «Lo scopo della repubblica non è d’imporre un modello preconcetto di “bella vita” ma di mettere in grado i cittadini di discutere liberamente i modelli di vita che preferiscono e metterli in pratica». Una tesi che mi trova d’accordo è quella di Bauman: «La separazione del diritto acquisito al reddito da lavoro retribuito e del mercato del lavoro può aiutare la repubblica in un modo solo, ma essenziale: allontanando la tremenda minaccia dell’insicurezza dal paradiso della libertà. Ma questa limitazione dei rischi e dei danni è proprio il più importante degli obiettivi del reddito di base».

Lasciatemi mettere bene in chiaro questo punto: non sto sostenendo che le entrare del cittadino devono risollevare i poveri dalla loro povertà. Questo è in verità un discorso molto importante, ma riguarda un gruppo particolare. La mia posizione è, ritengo, più forte. Ci serve un nuovo centro di inclusione alternativo: il lavoro cittadino in concorso con le entrate cittadine come conditio sine qua non per una repubblica politica di individui che creano un senso di compassione e coesione mediante il conflitto, l’antagonismo, l’impegno e la cooperazione pubblici.

Con l’introduzione del lavoro cittadino autonomo, viene a determinarsi una nuova modalità d’inclusione accanto al lavoro dipendente che si pone come fonte alternativa di attività e di identità che non solo soddisfa la gente ma riporta in vita ogni giorno la democrazia. Il primo ministro francese Lionel Jospin ha inquadrato la politica della Terza Via con la frase «economia di mercato sì, economia di mercato no». In questo senso il lavoro cittadino è un ritiro sancito dallo stato dall’economia di mercato. Qui si viene a creare lo spazio per la società democratica attraverso ogni genere di attività autonoma.

Una visione in cui, passo dopo passo, la sovranità sull’orario e sulla concreta libertà politica nei centri di attività organizzati autonomamente prende il posto di una società basata sul lavoro salariato che la definisce si deve confrontare con infiniti dilemmi. Come si può organizzare la spontaneità? Chi pagherà per tutto questo? Farò solo un breve commento su quest’ultima impellente questione. In Europa, paradossalmente, vengono spesi miliardi di euro sotto forma di sussidi di disoccupazione e pagamenti assistenziali per retribuire il fatto di non lavorare. Allora perché non cercare appoggio con lo slogan «soldi per il lavoro cittadino e non per la disoccupazione»?

L’idea di lavoro cittadino deriva forse da un’ideologia piccolo borghese? Forse sarà anche controproducente perché istituisce un settore a bassa retribuzione che contribuisce all’eliminazione del lavoro retribuito regolare? Il lavoro cittadino non deve portare a una nuova divisione di classe tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi. Il lavoro cittadino allora dovrebbe diventare una forma di discriminazione per i poveri. Questo non dovrebbe neanche contribuire a relegare le donne fuori dal lavoro dipendente, consolidando il loro duplice carico di lavoro all’esterno e all’interno della famiglia. Da qui lo stimolo di una democrazia del lavoro cittadino è subordinata ai seguenti requisiti:

1. Una riduzione dell’orario di lavoro per tutti i lavoratori salariati a tempo pieno;
2. Tutti, uomini e donne, dovrebbero avere un piede nel lavoro salariato se lo desiderano; e
3. L’attività genitoriale, la cura dei figli, sarà riconosciuta dalla società proprio come lo sono l’attività artistica, quella culturale o il lavoro cittadino, nel senso che tutti, per esempio, danno diritto alla pensione e alla copertura sanitaria.

Stiamo vivendo in un’epoca in cui sperimentiamo la speranza tinta di disperazione. La società del normale lavoro dipendente sta corrodendosi mentre sempre più persone vengono soppiantate dalle tecnologie intelligenti. Tutto questo deve necessariamente condurre a una catastrofe? No, anzi, solo se è possibile trasferire alle macchine tutto il lavoro manuale sarà liberato tutto il potenziale creativo umano, consentendo agli esseri umani di fare dei piccoli passi avanti in direzione delle grandi questioni del futuro. Nessuno è in grado di prevedere se questo avverrà o meno; perché mai, dunque, essere del tutto pessimisti o al contrario del tutto ottimisti e non entrambe le cose allo stesso tempo? Per anticipare questa prospettiva di “democratizzazione della democratizzazione” nei decenni a venire si devono vivere e comprendere dei paradossi sconcertanti.

 

Traduzione dall’inglese di Dora Bertucci

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