“Tel Aviv e Ramallah, perché non funziona il paese unico”

Dossier
Sommario

Aaron David Miller, scrittore, negoziatore ed ex ufficiale del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha seguito l’evoluzione degli accordi di Oslo in prima persona e ha preso parte ai negoziati di Camp David nel 2000 in quanto membro del team di negoziatori statunitensi. È autore del libro The Much Too Promised Land. America’s Exclusive Search for Arab-Israeli Peace (Bantam Books, 2008, sito ufficiale).

In quanto personalità coinvolta sul fronte diplomatico nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese e autore di diversi saggi sul tema, può indicarci le sue considerazioni sulla cosiddetta soluzione di uno Stato unico?

In primo luogo, lo Stato unico non è una soluzione ma una conseguenza. La tragica realtà di questo conflitto è che al momento non ci sono soluzioni tempestive ma solo conseguenze. A questo punto si tratta di lavorare con le conseguenze meno negative, e al momento credo che la formula dei due Stati sia troppo ambiziosa e complicata per avere successo ma che proprio per queste ragioni non possa neanche fallire. Con questo intendo dire che ormai questa l’idea dei due Stati gode di di una tale legittimità e credibilità presso la comunità internazionale, quella palestinese e israeliana e negli ambienti diplomatici USA che è improbabile che venga messa da parte. Se a essa vi fosse una vera alternativa, un’alternativa che consentisse alle parti in causa di negoziare, o anche una conseguenza, una soluzione che la comunità internazionale avesse voglia di sostenere, sarei meno pessimista sulle sue possibilità di successo. Ma francamente la formula dello Stato unico, non è un obiettivo chequalcuno può attivamente promuovere e lavorare per implementare ed è per questo che può essere considerata come un’opzione, ma non come una vera soluzione o una alternativa. Lo Stato unico è congenitamente fallimentare perché non risponde ad alcuni requisiti fondamentali per risolvere il conflitto.

In primo luogo c’è bisogno di un divorzio su base consensuale e amichevole e non del matrimonio che la formula dello Stato unico suggerirebbe, proponendo una fusione delle identità palestinese e israeliana attraverso un’entità unica non meglio definita che in teoria dovrebbe soddisfare e pacificare le parti in causa. Il fatto è che in Medio Oriente non vi sono precedenti di un’entità stabile di questo tipo , come sottolineano gli i fautori della soluzione dei due stati. Basti considerare il Libano, dicono, mantenere dove risulta sempre più difficile armonizzare il dialogo tra le diverse componenti settarie e politiche in un singolo Stato dove il governo centrale esercita la sua autorità e dove i vari gruppi confessionali si arrendono al suo potere solo in base alla speranza che questo li rappresenti adeguatamente. Cipro potrebbe esempio rappresentare una soluzione, ma anche là si tratta di divisione; l’Iraq tende alla decentralizzazione così come la Sira; oggi in Medio Oriente non esiste niente che somigli vagamente a ciò che i sostenitori dello Stato unico vorrebbero per gli israeliani e i palestinesi.

In secondo luogo per gli israeliani e i palestinesi vi è un problema di vicinanza fisica, vivono praticamente uno sopra l’altro. Come disse quel gran pensatore politico che era Benjamin Franklin, “la vicinanza fisica porta figli, ma anche disprezzo”. Il problema tra i due popoli non è che non si capiscono, si capiscono fin troppo bene, e per questo si devono separare in due identità nazionali diverse: non c’è alternativa ai due stati, per quanto oggi questa soluzione possa sembrare imperfetta, fallimentare o improbabile. Non vi è altra soluzione che risolva il problema della prossimità fisica e non vi è nessun’altra soluzione che tenga conto del fatto che ancora oggi il nazionalismo è la forma di organizzazione – e soprattutto ri-organizzazione delle entità politiche – più virulenta che esista al mondo. Non direi che siamo vicini alla risoluzione del conflitto ma il fatto che non riusciamo a far nascere lo Stato palestinese non significa che dobbiamo sostenere la causa dello Stato unico, che non ha alcuna possibilità di successo e che, al contrario, rischia di seminare nuovi semi di discordia.

Quindi per lei lo Stato unico è un’utopia?

È più un esercizio di stile senza scopo e lungimiranza dovuto alla frustrazione dei palestinesi, al risentimento contro l’occupazione israeliana, presso coloro che non possono reagire, vuoi per l’assenza di una strategia militare in grado di far cessare l’occupazione o vuoi per la mancanza di una strategia diplomatica che sappia unire i palestinesi in un vero movimento nazionale. A ben guardare, al momento non dovremmo parlare di due Stati ma di tre, perché questa è la realtà dei fatti: c’è Israele con la sua autorità residua a Gaza e in Cisgiordania, c’è l’Autorità nazionale palestinese (Anp) che per quanto ammirabile sotto certi aspetti – ha fatto molto in termini di state building – è anche disfunzionale, e infine c’è Hamas che con l’avanzare del conflitto va consolidando la propria posizione aumentando così la frattura politica, economica e psicologica tra le fazioni palestinesi. Oggi non riusciremmo a convincere neanche i palestinesi a credere nello Stato unico. È un’idea, una questione, che si riaffaccia ciclicamente ma che non merita credito poiché appartiene a coloro che hanno già abbandonato ogni tipo speranza. Capisco la frustrazione – un accordo tra questo governo israeliano e l’autorità nazionale Palestinese è oggi praticamente impossibile – ma non c’è ragione di sostenere una causa ancora più fallimentare, che non può neanche essere definita una soluzione. Si tratta tutt’al più di una congettura che gli interlocutori che determineranno il futuro del conflitto non la prendono in considerazione.

Torniamo ai due stati. Crede che in futuro uno Stato palestinese sarà sostenibile?

Tutto è fattibile e potrebbe esser fatto se i leader palestinesi e israeliani fossero disposti a pagarne il prezzo. Tendiamo tutti a complicare il conflitto e siamo davvero propensi a complicarlo. Con un leader israeliano disposto ad accettare le richieste palestinesi su Gerusalemme, i confini, la sicurezza e i rifugiati e un leader palestinese disposto ad accettare le richieste degli israeliani sugli stessi punti e a riconoscere Israele come uno Stato ebraico – il cosiddetto quinto elemento, un aspetto che nelle negoziazioni è diventato ormai cruciale sia per gli israeliani che, per gli americani –leader disposti a rispettare questi requisiti ed ecco che i due Stati diventeranno realtà. Ma questi leader non ci sono. E senza una maggiore assunzione di responsabilità da parte di entrambi i popoli, israeliani e palestinesi, non c’è nulla che un mediatore internazionale, per quanto bene intenzionato, possa fare.

I punti chiave per arrivare ai due Stati sono già sul tavolo, i punti critici sono stati delineati – confini, Gerusalemme, rifugiati – ma, oltre al fatto che israeliani e palestinesi devono capire che il compromesso è l’unico modo di andare avanti, sembra che in realtà manchi ancora una terza parte in grado di esercitare pressione sugli interlocutori,?

Non è vero che se tutti sanno quale sia la soluzione migliore il percorso per arrivarvi diventi più facile, questa è un’illusione. Ero tra I dodici americani a Camp David – l’ultima serie di negoziati degni di questo nome sul conflitto israeliano-palestinese – e devo dire che se allora, nel2000, eravamo ancora abbastanza lontani da un accordo, oggi lo siamo ancora di più. Inoltre, la convinzione diffusa di sapere quali siano le effettive richieste di una parte o dell’altra spesso non fa che banalizzare la complessità del percorso che si rende necessario per arrivare alla soddisfazione di quelle richieste.

Il problema non è mai stata l’assenza di una formula diplomatica o di abili stratagemmi per aggirare i punti critici, ma solo l’assenza di una volontà politica e la possibilità che le richieste e le prerogative di tutte le parti in causa possano essere effettivamente conciliate. Noi diamo per scontato che alla fine entrambe le parti converranno sul destino di Gerusalemme ma questo potrebbe anche non accadere mai. Non lo sappiamo, e ciò vale anche per tutti gli altri aspetti dei negoziati. I confini sono il tema su cui si è lavorato di più, eppure le divergenze sono ancora grandi. Tendiamo a banalizzare la faccenda, cerchiamo di alleggerire la nostra coscienza assumendo che tutti sappiano quanto segue: che devono esserci due stati e che Gerusalemme deve essere la capitale di entrambi, che devono esserci dei protocolli di sicurezza che tutelino Israele e il desiderio di sovranità dei palestinesi, che deve esserci un accordo sulla questione dei rifugiati. Tutto questo implica aspetti come il risarcimento, la riabilitazione, l’integrazione e il fatto che Israele riconosca la sua responsabilità storica sui rifugiati, magari riammettendone alcuni all’interno dello Stato e garantendo il totale accesso dei profughi al nuovo Stato palestinese. Ma una volta affermati questi principi generali c’è ancora moltissimo lavoro da fare.

Quindi non ha molta speranza per il futuro?

Dipende da cosa si intende per futuro. Se indentiamo i prossimi sei mesi, non ho alcuna speranza. Teniamo conto che a gennaio-febbraio ci saranno nuove elezioni in Israele e che nella regione ci sono altre priorità che destano allarme; c’è la Siria, c’è la preoccupazione per il trattato di pace tra Israele e Egitto. L’Iran resta ancora un gran problema sul quale dovrà essere fatta chiarezza prima che il conflitto israeliano-palestinese subisca una svolta, poi c’è la preoccupazione per l’instabilità in Giordania; ovunque vi sono grandi problemi.

Quindi la Primavera Araba ha ulteriormente marginalizzato e complicato il conflitto israeliano-palestinese?

Senza dubbio lo ha complicato di gran lunga.

Se questa fase di transizione dovesse durare ancora qualche anno, con nuovi insediamenti israeliani nei territori occupati, e il continuo diminuire del territorio riservato a un futuro Stato palestinese, non si assisterebbe all’affermazione di fatto di una specie di Stato unico?

No. Quello a cui assisteremmo sarebbero vari livelli di conflitto e adattamento che continuerebbero a caratterizzare il conflitto nel suo complesso. Bisogna capire che la violenza, il disordine e la dislocazione sono sempre stati parte del processo di pace, sin dalla sua nascita. Più il processo di pace va avanti, più avanzano anche il disordine e la violenza, e gli accordi del passato tra israeliani e palestinesi o israeliani e arabi l’hanno sempre dimostrato. Non insomma credo che stiamo andando in direzione dello Stato unico.

La questione palestinese oggi è composta da almeno cinque problemi diversi. Gaza rappresenta un problema a sé, poi ci sono i palestinesi di Gerusalemme che stanno cercando di elaborare nuovi rapporti con lo Stato israeliano per migliorare la propria situazione, i palestinesi cittadini di Israele con cui il governo dovrà venire a patti prima o poi, infine ci sono gli abitanti della Cisgiordania e il fenomeno della diaspora palestinese. Se i palestinesi fossero un corpo unico che agisse come tale allora lo Stato unico sarebbe un’opzione e potremmo accantonare l’ipotesi dei due stati, ma le cose non stanno così. Esistono cinque pezzi di Palestina che non agiscono in sintonia, e Israele non farà che sfruttare questa separazione avviando trattative con le singole parti. Questo scenario, infondo, è molto più probabile che spinta seria verso l’idea di uno Stato unico.

Mi riferivo al fatto che pur esistendo in Cisgiordania l’Autorità nazionale palestinese (Anp), questa è praticamente impotente, e secondo diversi analisti oggi lo scenario è già quello di uno Stato unico che va dal Mediterraneo al fiume Giordano, escludendo Gaza in questo caso.

Non è vero. Innanzitutto ci sono un milione e mezzo di palestinesi che vivono a Gaza, mentre in Cisgiordania esistono delle istituzioni che non sono in vista di collasso. Non credo in questa storia che l’Anp sceglierà di sciogliersi, restituendo le chiavi della Cisgiordania a Israele; di fatto c’è un’entità politica in Cisgiordania e la comunità internazionale ha tutto l’interesse a preservarla, così come Israele, che non vuole essere costretta a governarne su tutti questi palestinesi. Non ho mai capito, e neanche i miei amici palestinesi riescono a spiegarlo, come farebbero i palestinesi a desiderare di appartenere Israele. Comprendo che gli arabi israeliani cerchino di farlo, ma sono circa il 20 percento della popolazione e mentre hanno dei diritti garantiti dalla legge vengono discriminati in termini economici e sociali. Perciò non capisco come i palestinesi in Cisgiordania possano desiderare uno Stato unico, e su quale base politica o legale potrebbero fondare la loro richiesta di cittadinanza in questo Stato? È un aspetto che mi sfugge totalmente.

Secondo lei dunque quel che esiste oggi tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano non somiglia a uno Stato unico?

No, perché esistono donatori che finanziano separatamente l’Autorità nazionale palestinese e i servizi di sicurezza; ci sono palestinesi che non vengono stipendiati dal governo d’Israele ma dall’Anp. La realtà che abbiamo oggi, per quanto ingiusta e disfunzionale, non corrisponde a quella che esisteva prima del 1994 e della creazione dell’Anp.

(Traduzione di Claudia Durastanti)

  1. Buongiorno.
    Innanzitutto, grazie per aver messo a disposizione questi articoli. Fino ad oggi, conoscevo Reset solo perché lo trovavo in una libereria di Milano.
    Ciò detto personalmente ho trovato molto interessante rileggere le parole di questa intervista, dopo essermi ascoltato attentamente le parole secche, ma sincere, dello storico israeliano Ilan Pappe in questo intervento http://warincontext.org/2010/12/05/illan-pappe-zionism-colonialism-ethnic-cleansing-and-racism/ di fronte ad attivisti pro Palestinesi.
    Comunque la si pensi su questa vicenda storico-politica, il confronto risulta molto interessante.

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