La vittoria di Rouhani
prosegue il cammino riformista dell’Iran

Da Reset Dialogues on Civilizations

Il rischio astensione alle presidenziali iraniane era solo uno spettro: gli iraniani, venerdì 19 maggio, si sono recati in massa alle urne (i seggi sono rimasti aperti cinque ore più, fino a mezzanotte) e hanno riconfermato l’uscente Rouhani. Il leader riformista ha vinto con il 57% delle preferenze, contro il 37,8% dello sfidante conservatore Raisi.

Gli oltre 41 milioni di persone che hanno infilato la scheda nell’urna hanno optato per la strada intrapresa quattro anni fa. Alto il successo di Rouhani anche nelle zone rurali, dove si immaginava un calo del consenso rispetto ai grandi centri cittadini. Campagna contro città, proletariato rurale contro borghesia urbana. Così in molti hanno letto una delle questioni centrali del voto, quella economica.

Letteralmente riesplose con le proteste dei minatori della provincia di Golestan, le condizioni delle classi lavoratrici – offuscate da quelle della borghesia delle grandi città – restano elemento centrale. Impossibile non vedere nei conflitti socio-economici le trasformazioni interne alle società.

Eppure le aree montagnose nel nord del paese, a meno di 100 chilometri da Teheran, e le loro miniere sono quasi invisibili. La strage del 3 maggio (32 operai morti nell’esplosione della miniera di Zemestan-Yurt) e la conseguente contestazione a Hassan Rouhani, giunto in visita qualche giorno dopo, raccontano molto dell’Iran di oggi.

Un paese che cerca – con il fronte moderato guidato dall’attuale presidente – di uscire dall’isolamento internazionale per diversificare l’economia e aprire ai capitali stranieri, investimenti esteri che diano slancio al tasso di occupazione, in calo graduale. Per farlo Rouhani ha firmato, nel luglio 2015, un accordo storico con l’Occidente: l’intesa sul nucleare civile era lo strumento per aprirsi al mondo, per eliminare quelle sanzioni e quell’embargo che hanno legato per quasi 40 anni le mani dell’Iran, comunque in grado di non implodere mai e di restare una potenza nella regione mediorientale.

Di certo la situazione è cambiata rispetto ai tempi dell’uscita di scena di Ahmadinejad, che lasciò il paese alle prese con una grave stagnazione economica, un’inflazione alle stelle (35%) e il rial svalutato di due terzi. Oggi Rouhani si fa forte di un aumento degli investimenti stranieri (12 miliardi di dollari dal gennaio 2016) e dell’interesse manifestato da aziende e società occidentali di mettere piede in un paese ricchissimo di materie prime; di 650mila nuovi posti di lavoro lo scorso anno; di una crescita del 30% del settore turistico da marzo 2016 a marzo 2017 (per un totale di sei milioni di visitatori stranieri e 8 miliardi di dollari in entrate); di un’inflazione in calo e di una moneta stabile per quattro anni.

Insomma, Rouhani in campagna elettorale ha potuto giocare la carta del significativo miglioramento dell’economia interna a fronte di decenni di embargo, della crisi provocata dalle politiche del predecessore e di un lasso di tempo ancora breve (meno di due anni) dalla fine parziale delle sanzioni.

Ma si sono anche dati negativi: il tasso di inflazione sfiora il 10% (comunque un record per il paese rispetto ai decenni precedenti), i nuovi 650 mila posti di lavoro vanno sottratti ai 750 mila persi e ad un tasso di disoccupazione al 12,7% che tra gli under 24 sale al 29% (coloro cioè che hanno rappresentato lo zoccolo duro del suo elettorato). Durante il primo mandato di Rouhani, un milione di persone in più è finito a vivere sotto la soglia di povertà. Da qui le promesse che il fronte conservatore aveva mosso in campagna elettorale: Qalibaf, sindaco di Teheran, prima di ritirarsi dalla corsa aveva promesso un sostegno al reddito per gli iraniani poveri, 455 mila rial al mese (13 euro) al 30% della popolazione, senza però specificare dove avrebbe trovato i soldi.

Sul fronte degli investimenti, quelli privati interni sono calati del 17% nel 2015 e del 9% nel 2016. Da qui la necessità di investimenti stranieri che Rouhani sperava di attirare con l’apertura sul nucleare. I 12 miliardi arrivati dal gennaio del 2016 (sei volte tanto rispetto ai 2 miliardi del 2013 e del 2014) provengono da un vasto spettro di paesi: Germania, Gran Bretagna, Francia, Olanda, Cipro, Irlanda, Spagna ma anche da Stati rivali come la Turchia e i paesi del Golfo. Ma soprattutto arrivano dalla Cina (primo partner commerciale), che continua a stringere nuovi accordi con Teheran, in particolare nel settore delle nuove tecnologie e in quello del nucleare civile.

Su questo si è giocato molto della narrativa da campagna elettorale. Se è vero che il fronte conservatore, che all’epoca contestò l’accordo, nelle settimane prima del voto aveva fatto sapere che non lo avrebbe messo in dubbio, il voto del 19 maggio non scaccia i timori legati ai conflitti regionali. Se non altro per la presenza alla Casa Bianca di un presidente profondamente anti-iraniano che non a caso proprio nel giorno del voto a Teheran è partito per il suo primo viaggio all’estero, destinazione Riyadh, con contratti di vendita di armi pari a 110 miliardi di dollari. E volerà anche in Israele, per rassicurare l’alleato storico: il ridimensionamento di Teheran resta un obiettivo centrale dell’amministrazione Usa.

Più facile a dirsi che a farsi: negli ultimi anni, con la guerra civile siriana, l’Iran ha saputo garantirsi un posto in prima fila nella definizione di zone di influenza. Da Damasco a Baghdad, la Repubblica Islamica ha inviato pasdaran, capi militari e armi in abbondanza nella chiara intenzione di rafforzare il cosiddetto asse sciita in chiave anti-saudita. Ora Trump tenta l’accerchiamento, sia rifornendo i nemici storici nella regione che con la classica strategia della tensione: annunci di revisione dell’accordo, minacce di sanzioni, dichiarazioni contraddittorie per tenere la Repubblica Islamica sulla graticola.

In ogni caso in politica estera se il presidente tiene i fili della diplomazia, altri poteri influenzano concretamente strategie e visioni: le Guardie Rivoluzionarie, vicine al fronte conservatore; così come la Guida suprema, l’Ayatollah Khamenei, capo delle forze armate. Ovvero, poteri che da tempo hanno optato per la via del pragmatismo in politica estera, realpolitik verso gli Usa e verso l’Occidente.

L’isolamento – soprattutto dopo la riconferma di Rouhani con percentuali significative – sembra un’opzione del passato. Quello che avrebbe potuto cambiare con la sconfitta del fronte moderato era il ritorno ad una narrativa maggiormente ideologica. Se Rouhani e Raisi sono nazionalisti allo stesso modo, il secondo avrebbe probabilmente spinto verso una maggiore aggressività formale, verso un discorso ideologico-politico nei confronti dei nemici storici che – invece che far avanzare il paese nella regione – lo indebolirebbe.

Dopotutto è proprio sotto il riformista Rouhani che l’Iran ha rafforzato considerevolmente il proprio ruolo in Medio Oriente, senza il bisogno di disegnare narrative radicali. Lo dimostra quel 57% di consensi ottenuti, l’alta affluenza alle urne e anche le reazioni internazionali: da Damasco a Londra, da Pechino a Nuova Delhi, da Roma a Oslo sabato sono arrivate a Teheran congratulazioni a largo raggio, nella consapevolezza che la linea riformista scelta dal popolo iraniano è l’unica garanzia di un’apertura reale.

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