Perché il conformismo di Zalone piace molto agli italiani

Articolo uscito su minima & moralia.

Disclaimer: Sole a catinelle è un film abbastanza ben realizzato, ma assolutamente medio, e questa non vuol essere una recensione sulla qualità del film. Secondo disclaimer: Checco Zalone non è il nuovo Totò. Non è il nuovo Paolo Villaggio. Non è nemmeno il nuovo Roberto Benigni. E neanche il nuovo Carlo Verdone. Luca Medici non possiede le loro doti attoriali, il suo personaggio forse non ha quella forza drammaturgica per diventare iconico, una maschera compiuta. Eppure ha qualcosa in comune con tutte le maggiori figure di comici italiani cinematografici: non è divisivo, è riconoscibile – e amabile o detestabile – da tutti.

È riuscito (questo il suo pregio maggiore) a inventarsi un codice condiviso con cui poter far ridere persone che in genere ridono per cose molto diverse. L’era berlusconiana/antiberlusconiana questo ha significato per la comicità: la legittimazione di una polarità. Sinistra e destra. Comicità di testa e comicità di pancia. Da una parte la comicità da risate registrate, lazzi, scurrilità, tormentoni. Dall’altra la comicità come strumento esplicito di critica sociale e politica. Cristian De Sica vs Sabina Guzzanti. Striscia la notizia vs Crozza. Enrico Brignano vs Antonio Albanese. Luca Medici (l’inventore del personaggio Checco Zalone) in questo senso, finalmente, con Sole a catinelle molto più che con i suoi precedenti film, è un comico post-berlusconiano. La sua volgarità non ha bisogno di alludere, di rimandare, né soprattutto di schierarsi. La sua satira sociale pesca tanto dalla commedia scollacciata quanto da Nanni Moretti, da Neri Parenti quanto da Paolo Virzì. E, nel suo essere astorica e sincretica, definisce l’anno zero dell’era politica: la crisi morale e economica dell’Italia è un dato ineludibile, non l’esito di un declino.

Se gli riconosciamo quest’umiltà (è il personaggio Checco Zalone che nella sua strafottenza rispetto a ogni riferimento storico, morale, politico se la autoascrive come unico valore: “Bisogna essere umili”, ripete, “umili”), riusciamo forse a notare come Sole a catinelle sia un film che racconta una Bildung edificante di un personaggio di quel ceto-medio-che-non-esiste-più-in-Italia, non – come è scritto in ogni recensione – “lo specchio dei nostri peggiori vizi”: non quindi il cinismo irredento di un Alberto Sordi formato Dino Risi o la grevità informe e umanissima di un Fantozzi, ma un maschio piccolissimo-borghese che si evolve. Impara, con gli immensi limiti ovvi del personaggio, a essere un padre affettuoso e sincero, un compagno attento, un cittadino che acquista coscienza dei propri diritti. Un personaggio che cresce rispetto alla peggiore delle patologie che viene messa alla berlina nel film: l’infantilizzazione degli adulti.
Checco Zalone è un bambinone autoindulgente e viziato che però, scena dopo scena, impara a fare il padre ogni volta che ammette di fronte al figlio le sue debolezze emotive, non declinando più però la sua responsabilità.

Sono tre scene chiave del film: la prima quando il figlio Niccolò rimprovera il padre Checco Zalone di averlo preso in giro avendogli promesso una vacanza da sogno e avendolo portato nelle desolate campagne molisane. Quando Checco cerca di giustificarsi “Perché fai così? Perché fai così”, si sente rispondere da Niccolò: “Perché mi hai rotto il cazzo”. Allora Checco finalmente è contento che il figlio dica parolacce.
La seconda è quando arrivano per caso alla villa di Zoe e Lorenzo, madre e figlio. Lorenzo è un bambino problematico che non parla, affetto – secondo quanto diagnosticato dalla psicologa radical-chic- da un mutismo selettivo. Checco non lo sa ovviamente e gli urla in faccia, trattandolo in modo spiccio, al contrario di tutti gli adulti che lo circondano che gli rimandano una forma di rispetto quasi venerazione che non fa altro che farlo precipitare nella sua afasia autistica.
La terza avviene alcuni giorni dopo. Lorenzo e Niccolò hanno fatto amicizia. E Niccolò e Checco hanno deciso di passare le vacanze in compagnia della ricchissima Zoe e di suo figlio. Lorenzo una notte si sveglia e va a chiacchierare in stanza di Niccolò e Checco. Da bambino iperintroverso è diventato un superchiacchierone. Checco non ce la fa più, vuole dormire, e a un certo punto gli ricorda, urlandoglielo in faccia, tutto il suo rapporti conflittuale col padre: Lorenzo torna immediatamente una larva, Checco può finalmente dormire e dice a Lorenzo: “Vai a dormire, domani ti sblocco”.

Checco è ipertriviale, è un cazzone, è un tamarro, è un bugiardo, è un arrivista arrogante, parla sempre a sproposito, ma in tutto questo si comporta sempre da adulto, diversamente da quasi tutti gli adulti con cui ha a che fare, a partire dai genitori di Lorenzo, ricchi e colti che hanno prolungato la loro adolescenza dorata. Per questo ha un senso la volgarità anche. La volgarità per Checco Zalone, nella sua dimensione sociale, è segno di adultezza, di rivendicazione, di identità. Lo stesso Checco usa la trivialità in senso iconoclasta, per mettere alla berlina i tic del ceto abbiente, dei ricchi, dei potenti, un po’ come faceva – per citare un personaggio che come funzione comica gli assomiglia molto – negli anni ’70-’80 un’altra maschera borgatara, quella del Monnezza di Tomas Milian.

Ma, se vogliamo capire in che senso Zalone riesce a ritrovare una koiné nel linguaggio comico italiano, andiamo a vedere alcuni dei modi in cui Checco Zalone fa ridere:

Con il confronto spiazzante con il mondo delle altre classi sociali. Checco non conosce le forme, non riconosce i contesti, non sa usare i registri appropriati; e quindi nei confronti dei ricchi risulta magari umiliato ma iconoclasta: con un meccanismo tipico da commedia dell’arte, come un Brighella o un Pulcinella o un Totò mettiamolo alle prese con l’onorevole Trombetta lo sketch del treno. Accade quando per esempio a un minuto dall’inizio lo vediamo che fa l’addetto alle pulizie in un albergo e cerca di parlare di finanza con un cliente, o quando fa una lunga prolusione cafona a una festa di beneficenza per ricchi filantropi snob.

Con un atteggiamento linguistico da parvenu. Una tecnica che mette insieme Totò e Corrado Guzzanti. “Voglio essere leadership di me stesso”; il cane chiamato Taeg; “E fammi un sorriso, ti ho domotizzato l’esistenza”…

Con i misunderstanding da idioti: “Mi dispiace, lei non ha un profilo adeguato”, gli dicono a un colloquio di lavoro, e Checco allora si volta dall’altra parte; “Buongiorno, maestro” “Esho” “Scusi, vado” “No, Esho è il mio nome”…

Con la maschera: la faccia con il labbro sollevato, il naso arricciato, le spalle spinte all’indietro, il culo in fuori, e la camminata a papera, le mise da tamarro ripulito (i maglioncini rosa annodati sopra le spalle)…

Con il meccanismo continuo della delusione dell’attesa. Per esempio quando Checco mostra alla moglie che ha una casa supertecnologica, accende tutti gli elettrodomestici, e va via la luce.

Con il birignao tipicamente pugliese: nella sua parlata c’è Renzo Arbore, Lino Banfi, il terrunciello di Diego Abantantuono e Giorgio Porcaro, ma soprattutto la lunga esperienza delle trasmissioni televisive di Telenorba – gli sketch di Toti e Tata, di cui il coautore di Sole a catinelle Gennaro Nunziante era inventore e sceneggiatore.

Con la volgarità esibita: la vecchia che mostra il dito medio quando non vuole comprare l’aspirapolvere; Checco che inventa che il figlio a casa dà della vecchia zoccola alla maestra.

Con il botta e risposta: “In questi mesi, Checco, non riesce a vendere più come prima, cos’è, ha esaurito l’entusiasmo?” No, ho esaurito i parenti”; bussano alla porta due signori in giacca e cravatta: “Salve, siamo di Equitalia”, “Mi dispiace, siamo cattolici”, risponde Checco; dice Checco, cercando un parcogiochi per il figlio tra i paesi sperduti del molisano: “Senta, lei è il sindaco? Volevo chiederle… Se il papà porta qui un bambino in vacanza…” “È un coglione!”, gli risponde il sindaco; “Perché non vi fermate a dormire qui stasera?”, gli propone Zoe, e Checco: “No, non posso accettare… È gratis?” “Sì” “Accetto”.

Con la giustapposizione di registo formale e volgare. Fate il confronto chessò con il coatto di Verdone o sempre con il Monnezza. Dice Checco alla maestra del figlio Niccolò: “Vede maestra, non so se lei sa che quest’anno io la mamma di Niccolò ci siamo separati, e sono situazioni spiacevoli per i bambini che di solito ne risentono. Sia dal punto di vista psicologico che dal punto di vista del profitto scolastico. Ecco io volevo chiederle Come cazz’è possibile che mio figlio invece no, che ha preso tutti dieci?”.

Con la presa in giro del cinema stesso. La scena in cui Checco deve recitare una parte in un film sperimentale sembra una riedizione dello sketch del whisky maschio di Gigi Proietti in Febbre da cavallo, e vale dieci scene di ridicolizzazione del teatro sperimentale di Paolo Sorrentino nella Grande bellezza.

Con gli equivoci. Alla cinepanettone, uno potrebbe dire, ma uno potrebbe dire alla Mister Bean, alla Mel Brooks, cioè seguendo gli stilemi di una comicità di tipo fisico che è l’unica universale. C’è una scena in cui Checco consola Zoe e lei gli si accuccia addosso. Vista da Niccolò, questa scena però sembra quella di un pompino. Checco cerca di  divincolarsi allora dall’abbraccio di Zoe; oppure quando Checco fraintende che il padre di Zoe non è morto ma è muto, e allora prova a urlare come aveva fatto a Lorenzo per svegliarlo dal mutismo selettivo.

Eccetera. Si potrebbe continuare, destrutturando la sceneggiatura intera del film e finendo in realtà per ricopiarla tutta semplicemente divisa in blocchi. Ma quello che mi piacerebbe si notasse è la densità di dispositivi comici che Nunziante e Medici mettono in campo. Non tutti funzionano, non tutti sono di livello. Ma ovviamente, come avviene per la comicità, l’accumulo serve a garantire un crescendo di empatia, arrivando alla fine del film, in cui con uno spudoratezza inedita Checco Zalone rompe il patto di credulità con lo spettatore e sbotta a ridere, come se vedessimo un ciak sbagliato.

Insomma l’aspetto più evidente, se siete andati a vedere o andrete a vedere Sole a catinelle, è che ognuno ride per un certo genere di sketch o di battute. A chi sembrano infantili i giochi di parole o le canzoni-parodie che punteggiano l’inizio, la metà e la fine del film, magari trova divertenti la satira sui radical-chic impegnati politicamente; chi trova insulsa o volgare la presa in giro degli psicologici, magari si scompiscia quando Checco mette alla berlina il mondo rurale, con i suoi vegliardi spilorci, tanatofili, grettissimi.

Per questo, nonostante l’occupazione militare delle sale che Pietro Valsecchi è riuscito a ottenere per Sole a catinelle sembri una grande operazione per creare una sorta di un conformismo estetico, Checco Zalone rappresenta una macchia di Rorschach di quello che fa ridere gli italiani. Ciò che trovano disgustoso, tenero, volgare o sorprendente. A ognuno il suo Checco.

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