Ma quale capitolazione del postmoderno?

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All’indomani dell’attacco alle Twin Towers, c’è chi ha sostenuto che quell’evento drammatico sarebbe stato anche una pietra tombale per tutte le filosofie che fanno della relatività e del relativismo un elemento fondamentale per la comprensione della realtà. In questa intervista, il filosofo americano Richard Rorty (scomparso nel 2007) difende le ragioni della filosofia e del suo ruolo narrativo.

Le sembra plausibile l’idea che con l’11 settembre sia accaduto qualcosa di rilevante anche per la filosofia? Se no, che cosa è la filosofia? Se sì, quali sono state, secondo lei, le più importanti conseguenze sul modo di fare filosofia?

L’11 settembre ha costretto le persone a ripensare alla questione di cosa fosse necessario per l’ordine del mondo e per la cooperazione internazionale. Ha sollevato domande, per esempio, su come cambiare la legge internazionale in modo da prendere in considerazione il fatto che non ci sono più solo nazioni-stati, ma anche gruppi criminali, in grado di sviluppare armi di distruzione di massa. Tuttavia, io non credo che questo ripensamento abbia delle conseguenze sulla filosofia. Penso che dovremmo guardarci da quella che il filosofo francese Vincent Descombes ha chiamato «the philosophy of current events», la tentazione di affermare che la cristianità sia impossibile dopo i papati dei Borgia, o che la poesia sia impossibile dopo Auschwitz, o che l’esistenza dei gulag renda impossibile l’essere socialisti, o che, infine, una certa visione filosofica non possa essere più sostenuta dopo l’11 settembre.

Non pensa che a volte accadono fatti che cambiano il modo in cui le persone concepiscono il mondo e il modo in cui esse sono nel mondo?

Sicuramente. Ma non credo che si possa dimostrare che un certo evento debba generare un tale cambiamento – o, in altre parole, che la sola risposta appropriata a un dato evento sia creare un dato cambiamento. Il legame tra eventi e Weltanschauungen non è mai stato così forte, e mai lo sarà.

Nessun evento può dunque confutare una visione filosofica? E qual è la sua opinione su una filosofia (di nuovo) che nega ogni controllo dei suoi contenuti in base a qualche fatto reale?

La filosofia consiste nel relazionare alcuni dei nostri discorsi ad altri discorsi – nel cercare di ammorbidire i conflitti apparenti tra il descrivere le cose in un modo e il descriverle con un differente campionario di termini. Alcuni dei nostri discorsi, come alcune delle nostre istituzioni, sono stati gradualmente modificati per via dell’impatto di eventi come la caduta dell’Impero Romano, il terremoto di Lisbona, la Rivoluzione francese, la caduta del comunismo etc. Ma questo non vuol dire che un evento possa confutare o attestare una visione filosofica. Il rapporto tra la filosofia e gli eventi è molto più blando.

La tesi fondamentale della critica alla filosofia post-modernista, naïf quanto vuole, consiste nel dire che uno shock tremendo nella realtà ci porta a riconsiderare attentamente un rifiuto del legame tra ciò che è reale e ciò che rispecchia la realtà nel nostro pensiero e nel nostro linguaggio.

Alcuni filosofi ritengono che il pensiero e il linguaggio siano uno specchio della realtà, altri (come me) pensano che la metafora dello specchio sia disperatamente fuorviante. Qualunque posizione si voglia prendere in questo dibattito, non vedo come eventi scioccanti possano fare tanta differenza nella strategia impiegata per contestare filosofi che la pensano in maniera diversa.

Può spiegare la differenza tra filosofia pubblica e filosofia privata?

Alcuni filosofi, come Hobbes, Kant e Rawls, scrivono del tipo di vita che la comunità dovrebbe condurre. Altri, come Kierkegaard, Nietzsche e Heidegger, scrivono del tipo di vita che una persona, con determinati sentimenti e interessi, dovrebbe condurre. Altri, come Platone, scrivono di entrambi gli argomenti.

Si affaccia una tesi plausibile e cioè che quando lei riconosce, nella battaglia teoretica tra Habermas e Derrida (e più in generale tra una prospettiva modernista e una post-modernista), il ruolo di filosofo pubblico al primo e attribuisce quello di filosofo privato al secondo, questo equivalga a una sorta di capitolazione. Come si difende?

Habermas scrive sui presupposti della comunicazione razionale, mentre Derrida (come me) non ritiene che tali presupposti esistano. Ma questo disaccordo, piuttosto strettamente filosofico, non cambia il fatto che Habermas e Derrida siano d’accordo su molte questioni politiche. Uno può (come Habermas e me) non riuscire a cogliere la rilevanza del lavoro di Derrida nel perseguimento della giustizia o di altri ideali sociali. Se così, leggerà Derrida per propositi – diciamo – di edificazione privata. Ma non vedo come la nozione di «capitolazione» possa essere rilevante. Se uno leggesse un tipo di romanzo per riflettere sulla condizione della società, e un altro tipo di romanzo per riflettere sullo stato individuale, non direbbe che il secondo scrittore ha «capitolato» davanti al primo. «Filosofia» è un termine utilizzato per indicare molti progetti intellettuali differenti. Nessuno di questi progetti è prioritario rispetto agli altri. Non si dovrebbe cercare di rispondere a cattive domande del tipo «Qual è la funzione della filosofia?» più di quanto non si risponde a cattive domande come «Qual è la funzione del romanzo?». Non si dovrebbe classificare i filosofi o i romanzieri in base a risposte date a domande di questo tipo.

Accetta l’idea del post-modernismo nella filosofia?

Il termine «post-modernismo” non è molto utile. Ma voglio utilizzarlo per indicare quell’area di sovrapposizione che va da Nietzsche a William James , e, in particolare, la proposta di smettere di pensare alla verità come corrispondente all’intrinseca natura della realtà. In questo senso, io sono un post-modernista, come lo è stato Dewey. Tuttavia, preferisco il termine «pragmatismo» che ha il vantaggio di far comprendere che non c’è nulla di particolarmente nuovo e alla moda nella visione filosofica in questione.

Una delle tesi principali a favore dell’anti-fondazionalismo è che ogni principio di fondazione è in genere accompagnato da pretese autoritarie, e ai pericoli conseguenti. Tuttavia, come sottolineano alcuni interventi sullo scorso numero di «Reset» (in particolare Maurizio Ferrarsi e Ingrid Salvatore), adesso l’approccio liberale rilassato deve vedersela non solo con un nemico tradizionale (come la Chiesa, il fondamentalismo religioso, e i vari «possessori della Verità») ma anche con i sostenitori di un approccio liberale non rilassato, come i neoconservatori. Il rischio di una tirannia, in altre parole, può attaccarci da più lati. Come si può reagire a questi rischi senza nessuna argomentazione filosofica?

Perché dovremmo pensare agli imam che incitano all’odio per l’occidente come a un fenomeno differente dal modo in cui la chiesa cattolica era solita agire? La chiesa è stata violenta come i terroristi, fino a che ha potuto. Basta considerare le crociate. Non sono state le argomentazioni filosofiche ad ammansire la Chiesa cattolica e a farla smetterle di ricorrere all’uso della violenza. E non saranno argomentazioni filosofiche a fermare gli imam assetati di sangue. Se l’illuminismo islamico ci sarà, non sarà certo perché i filosofi hanno trovato nuove e magnifiche argomentazioni; sarà piuttosto perché la borghesia dei paesi mussulmani ha affrontato lo stesso cambiamento graduale di pensiero e di prospettiva che aveva affrontato la borghesia cristiana tra il 1650 e il 1850. La filosofia non farà molto per portare questo cambiamento.

Rimanendo in tema, lei sa che recentemente dalla Chiesa sono arrivati nuovi attacchi al pensiero post-modernista, al relativismo e così via? È stata avanzata una specifica critica pubblica, persino in termini morali, contro i cattivi insegnanti dei nostri giovani da un cardinale che si riferiva a Gianni Vattimo e Umberto Eco in particolare. Anche lei, se fosse stato italiano sarebbe stato un ottimo bersaglio! Non ho bisogno di menzionarle l’enciclica «Fides et Ratio» perché è un attacco filosofico tradizionale al relativismo. In sostanza, lei non pensa che la posizione del post-modernismo sia sotto tiro e abbia bisogno di argomenti a sostegno?

Se con «post-modernismo» intendiamo le idee che io condivido con Vattimo, allora ritengo che il post-modernismo sia già piuttosto forte. Vattimo e io pensiamo che non esista un’autorità da interpellare aldilà del libero consenso, che la secolarizzazione sia l’esito naturale dell’etica cristiana dell’amore. Se questa posizione venisse accettata come universale allora il cardinale Ratzinger rimarrebbe senza lavoro. Credo che il post-modernismo sia una continuazione della reazione, avviata dall’illuminismo, alle regole imposte dal clero e dai sovrani. L’unica differenza tra il post-modernismo e il razionalismo illuminista (per esempio quello di Kant) è che i post-modernisti sono d’accordo con Hume (altro ottimo pensatore illuminista, anche se non razionalista): abbandonano cioè l’idea che esista una forza chiamata «ragione» che assicuri che la ricerca del libero consenso ci garantisca il contatto con la realtà. La visione post-modernista è che si può benissimo tralasciare la discussione sulla ragione e sulla realtà e semplicemente discutere di politica – di come aumentare la libertà umana, di come assicurare che le voci degli oppressi siano ascoltate. Secondo la visione post-modernista, la posizione di Ratzinger è solo una voce in più nella conversazione. Il fatto che parli a nome di un’istituzione autoritaria non dovrebbe farci smettere di ascoltarlo, ma dovrebbe farcelo ascoltare con un minimo di diffidenza. È nell’interesse di istituzioni simili descrivere l’anti-autoritarismo come «relativismo».

Sappiamo che lei è un liberale, un progressista, forse anche di peggio: un uomo di sinistra! Apprezziamo i suoi scritti sulla sinistra americana e, più in generale, il suo impegno politico. Tuttavia, può descrivere ai nostri lettori il rapporto, se un rapporto esiste, tra le sue idee politiche e la sua filosofia?

L’unico rapporto che riesco a vedere è che sarebbe una cosa positiva se i cittadini delle società democratiche smettessero di credere che esista una qualunque autorità politica fatta eccezione per il libero consenso dei cittadini, che smettessero di pensare che esista qualcosa chiamato il «Volere di Dio» o «Il Tribunale della Ragione» che possa avere la meglio su quel consenso. La mia versione del pragmatismo incorpora il rifiuto che ci sia un’autorità del genere e perciò anch’io reclamo la mia utilità politica. Tuttavia è bene ricordare che a un certo punto Mussolini, dopo aver letto Papini e William James, si dichiarò un pragmatista. Quindi ovviamente il rapporto tra la filosofia pragmatista e il singolo punto di vista politico è piuttosto libero.

Uno dei suoi autori preferiti è John Dewey. Quel tipo di connessione forte, quel tipo di unione, tra ricerca intellettuale, politica e filosofia in un uomo è ancora possibile?

Dewey, Habermas e Vattimo sono esempi di filosofi ugualmente capaci di raggiungere nuovi traguardi in filosofia e di contribuire al dibattito politico. Non credo che, dai tempi di Dewey, sia cambiato qualcosa e che sia più difficile oggi per un filosofo impegnarsi nella politica, o considerare il proprio lavoro filosofico utile alla realizzazione dei propri ideali politici.

Non pensa che la destra americana, e in particolare i «neocons», siano più dotati della sinistra in termini filosofici e ideologici?

Forse ci sono degli intellettuali italiani di destra di particolare interesse che io non ho letto, ma certamente non ho incontrato nessun intellettuale americano di destra che avesse una qualche rilevanza. I neoconservatori americani sono bravi nell’attaccare i liberali, ma terribili nell’avanzare una qualsiasi proposta costruttiva su come combinare libertà e giustizia sociale. Non hanno nessuna idea originale, e nessun programma – solo rancori e sospetti.

Qual è la sua opinione sul rapporto tra la politica neo-conservatrice e l’eredità di Leo Strauss? Le piace l’autore del commentario al Gerone di Senofonte? È un’eredità legittima?

Strauss riteneva che la democrazia liberale fosse il meglio che potessimo avere, e aveva ragione. Il suo allievo Allan Bloom si riteneva un democratico del New Deal. Non c’è nessun legame tra le idee di Strauss e quelle di persone come Bush, Cheney e Rumsfeld. L’idea che i pensieri di Strauss in qualche modo motivino le azioni dell’amministrazione Bush è ridicola. Quest’amministrazione è motivata solo dalla speranza di essere rieletta e dal desiderio di compiacere i ricchi che contribuiscono alla campagna repubblicana, riducendo loro le tasse. Strauss sarebbe rimasto sgomento davanti alle persone che attualmente governano gli Stati Uniti d’America.

In conclusione, una domanda sul suo recente viaggio in Cina. Che cosa ha fatto lì? Cosa ha imparato da quell’esperienza? La sua visione della crisi internazionale è stata influenzata dagli incontri avuti?

Ho tenuto discorsi in circa dieci università cinesi e in altri istituti di alta formazione (l’Accademia Cinese delle Scienze Sociali, la Scuola del Partito Centrale etc.) In alcuni di questi discorsi, ho esortato gli intellettuali cinesi a pensare al fatto che il loro paese sostituirà, a un certo momento dell’attuale secolo, gli Stati Uniti come potere economico e militare dominante nel mondo. Ho suggerito loro di guardare avanti, verso quel momento, e realizzare che la Cina, per la propria salvezza, dovrebbe iniziare a pensare già da adesso alla necessità di un rafforzamento delle Nazioni Unite e ad un nuovo sistema di cooperazione tra i governi per mantenere la pace e prevenire gli attacchi terroristici (che rappresentano un pericolo tanto per la Cina quanto per gli Stati Uniti e l’Unione Europea). La reazione del mio pubblico è stata su per giù questa: «Non chiederci di guardare così lontano, i problemi domestici che la Cina sta affrontando adesso – in particolare la disparità tra le aree rurali e quelle urbane – sono tutto ciò che possiamo attualmente gestire».

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