Ma in Italia c’è un altro nodo: vecchie vs giovani

Se il soffitto di cristallo si arriva a sfiorarlo con i capelli, o addirittura a sfondarlo con la testa, anche a rischio di qualche ferita da schegge, è normale che se ne discuta molto. E’ una novità. Le donne sfruttate e oppresse sono purtroppo un fenomeno costante nella storia  e,  in una società molto individualista come quella contemporanea, la speranza è affidata alla riuscita individuale, a quelle che,  combattendo in trincea, tengono nascosto nello zaino il bastone da maresciallo. Poco importa se genitori, buona educazione di partenza e fortune familiari avevano provveduto a sistemare quel bastone a tempo debito nel luogo convenuto.

Certo è che in Italia ha fatto più scalpore il racconto di disagio, e inconciliabilità degli impegni al top della scala sociale, descritto sulla rivista Atlantic da Anne Marie Slaughter (aveva un ruolo di primo piano al Dipartimento di stato), dell’entusiasmo di Sheryl Sandburg al momento di diventare amministratore delegato di Facebook. Lo scritto di Slaughter  è stato ripreso da quasi tutti i nostri quotidiani e, a seconda del loro grado di progressismo, è stato oggetto di due letture possibili: 1) ecco dimostrato che l’eccesso di ambizione femminile conduce all’anomia sociale e al disastro delle relazioni familiari, dunque bisogna essere più cauti e ligi alle tradizioni;  2) occorre pensare alle diverse età della vita, a un’armonia fra privato e pubblico per ambedue i sessi e si deve aspirare  a un modello sociale che non prosciughi l’anima per via della carriera. In generale il primo tipo di commenti portava una firma maschile, il secondo femminile.

Essere europei (e soprattutto italiani) è anche uno stato d’animo. Una particolare tensione fra tradizionalismo (maschile) e desiderio (femminile) di trasformare caratteristiche e strutture della società perché le donne vi trovino posto con più agio.

Ma anche essere americane (e americani) è uno stato d’animo. E’ un grande affidamento alle proprie risorse individuali.  Questo aumenta il senso di sé e manda un messaggio di potere.  Ma è davvero tanto più potente il livello di autonomia e di presa sul paese delle donne americane rispetto a quello delle europee e persino delle mortificatissime italiane? Certo, occorrerebbero molti indicatori per pronunciarsi con nettezza. Ma limitiamoci a due. Il tasso di occupazione e la percentuale di elette nelle assemblee federali. Le occupate negli Usa sono il 50% della popolazione femminile; un po’ di più delle italiane, ma sensibilmente meno della media europea, che è al 60%, per non dire del mondo scandinavo. Anche la percentuale di elette è modesta: 17%. Il mondo della politica resta profondamente maschile (ricordate le Idi di marzo, il film di George Clooney, che qualcuna ha opportunamente ribattezzato Le idi di maschio?). Le simulazioni sul prossimo parlamento italiano ci dicono che noi, nella nostra berlusconiana periferia dell’impero, arriveremo al 31%: niente male, più della Francia e più del Regno Unito, quasi allo stesso livello della Germania.

Tuttavia a Sarah Jaffe, più che portare evidenze dell’effettiva riuscita di molte donne americane, interessa contestare un’ideologia, quella delle donne in carriera, isolate in se stesse e in competizione con le loro pari grado, immemori delle sofferenze e della fatica delle altre.

Chi sono le altre? La classe lavoratrice. La locuzione in sé merita attenzione. Working class si traduce in italiano, secondo la tradizione marxista, con il termine classe operaia. Un’espressione caduta in desuetudine dopo la crisi della cultura della sinistra e la fine del “comunismo reale”.

A quel tempo in Italia, per via della scomparsa del più grande partito comunista dell’Occidente, è avvenuta una cesura forse più radicale che in qualsiasi paese del mondo. “Classe operaia” – espressione peraltro molto connotata al maschile – è una locuzione sparita e “classe lavoratrice” non è mai entrata nel nostro vocabolario. Gli stessi leader sindacali si rivolgono al loro uditorio scandendo: “lavoratori, lavoratrici”. Condizione, questa, poco connotata da un legame e da caratteristiche comuni, e di cui in teoria possono partecipare tutti, di ogni classe sociale, perché ha perso, sia la connotazione legata alla fatica e alla ripetitività del lavoro esecutivo, sia quella connessa alla coscienza comune.

Oggi la “classe lavoratrice” è più radicata nei servizi che nel manifatturiero o nelle costruzioni, dunque è  tendenzialmente più femminile che maschile. Tanto che – come ricorda Sarah Jaffe – il recente libro di Hanna Rosin, di cui si attende a breve la traduzione italiana (La fine degli uomini), prevede addirittura una “maschio-cessione”, una perdita di ruolo maschile, anche nel mondo della produzione.

Ma anche rispetto alla cultura femminista d’origine (assai più radicale di quella attuale) in Italia è avvenuta una potente rimozione. Colpisce che Selma James sia ancora , nel mondo anglosassone, una leader seguita e ascoltata – come testimonia lo scritto che stiamo discutendo. Aveva scritto nel 1972 un saggio con Maria Rosa Dalla Costa, Potere femminile e sovversione sociale, che individuava nel salario al lavoro domestico la leva capace di spezzare, anche per gli squilibri economici che ne sarebbero derivati,  lo statu quo del sistema capitalistico. Oggi, con la fine di Potere operaio, cui grosso modo la teoria del salario al lavoro domestico si ispirava, e di quel particolare tipo di radicalismo politico che attraversò gli anni settanta, dei lavori di Maria Rosa Dalla Costa si è persa memoria e traccia.

Il femminismo italiano di oggi rispecchia il nostro Paese così come si pensa e si rappresenta: un enorme ceto medio abbastanza indifferenziato e piuttosto attempato. Ai due margini estremi i pochi ricchissimi e i, relativamente tanti, poverissimi. Da tempo (forse dai tempi dagli scritti di Paolo Sylos Sabini) si è perso il gusto di un’analisi sociale di classe capace di usare in maniera sottile gli strumenti della sociologia e non quelli troppo facili dell’ideologia.

L’unica contraddizione nominata e discussa frequentemente nel femminismo italiano è quella fra le donne mature e le giovani. La decadenza – economica, sociale e culturale -dell’Italia rende clamorosamente evidente, anche in assenza di strumenti fini di analisi, la durezza della vita e delle prospettive future delle giovani donne. Persino sul piano del protagonismo individuale. Un personaggio come Laurie Penny, giornalista britannica che in rete si fa chiamare “Penny red”, sia perché il suo cuore batte a sinistra, sia per un rimando ironico a un francobollo raro dei tempi della regina Vittoria, in Italia sarebbe inimmaginabile: venticinque anni, collaboratrice del Guardian, dell’Independent, del New Statesman, corteggiatissima per il suo blog di successo. Da noi, invece di rappresentare una corrente di sinistra nel femminismo, cui i giornali mainstream prestano interesse, sbarcherebbe il lunario con notizie a una colonna.

Il tema della working class femminile viene messo a fuoco da Sarah Jaffe attraverso la delega del lavoro di cura che donne più fortunate praticano nei confronti di altre meno fortunate: lavoratrici domestiche, badanti, infermiere, cameriere di alberghi e ristoranti. Su su fino alle insegnanti delle scuole pubbliche, che negli Stati Uniti sono assai mal pagate e sfruttate in lunghi orari, tanto che nel settembre scorso hanno organizzato a Chicago uno sciopero durissimo sotto la guida di una leader sindacale “senza se e senza ma”: Karen Lewis, una specie di idolo delle donne della “classe lavoratrice”.

Anche da noi l’attenzione al lavoro di cura si è accesa nel femminismo. Penso al gruppo che porta il nome “La cura del vivere” e che spesso si esprime attraverso la rivista on line www.donnealtri.it. Oppure a un altro giornale on line www.ingenere.it che raccoglie intorno a sé economiste e sociologhe e che fa del “pink new deal”- una politica economica che garantisca buona occupazione attraverso lo sviluppo dei servizi e la modernizzazione del welfare – la sua bandiera. I due gruppi hanno linee politiche molto diverse: più concentrato su una ricerca introspettiva che metta in luce l’area di gratuità, e dunque di libertà possibile, insita nella cura (diversa dal lavoro di cura) il primo, più mirato sulla ricerca e sulle policies concrete di trasformazione il secondo.

Tuttavia né l’uno, né l’altro, né direi alcuna altra frangia del femminismo italiano sembrano animati dalla passione organizzativa, di azione sociale che attraversa lo scritto di Sarah Jaffe. Da noi un’appassionata ricercatrice sociale come Barbara Ehrenreich, disposta a far da cavia e a vivere per tre mesi come cameriera al salario minimo, non si è ancora vista.

Da decenni ormai, dall’autoscioglimento dell’Unione Donne Italiane negli anni ottanta, le italiane più impegnate hanno scelto la spontaneità come unico stile. Siamo una somma di alberi, non una foresta. Questo non ha impedito che molte azioni e pensieri interessanti entrassero in circolo, ma è fuori discussione che, per avvicinarsi alle meno fortunate, l’organizzazione (oltre all’analisi sociale) è indispensabile.

E non è necessario il moralismo o il pauperismo.

Alla fine del suo articolo Sarah Jaffe propone un esempio molto interessante. Christine Quinn, presidente del consiglio municipale di New York, aspira a diventare il primo sindaco donna della metropoli. Nel frattempo le cameriere d’albergo e le lavoratrici dei servizi nelle case, negli istituti e nella ristorazione della Grande Mela si battono per un nuovo contratto che garantisca loro la copertura salariale in caso di assenza per malattia. Gloria Steinem, stimata pioniera del femminismo americano e oggi autorevole opinionista del New York Times (quante femministe sono commentatrici dei grandi quotidiani in Italia?) ha promesso il suo appoggio a Quinn solo a condizione che lei metta all’ordine del giorno la legge sulle lavoratrici domestiche.

Una bella triangolazione fra bisogni sociali, legittime ambizioni individuali  e influenza sull’opinione pubblica. E’ una lezione da imparare per quando avremo in parlamento più donne, e – speriamo – anche più donne indipendenti nel giudizio e nelle scelte.

 

 

 

  1. seacondo me il grosso problema in italia è la legittimazione dell’ambizione femminile…una donna ambiziosa è vista male, in priis dalle stesse donne le quali, in italia, nn faranno squadra intorno a lei, nemmeno per puro utilitarismo …non conosco le nuove generazioni, ma spero che lo spirito corporativo delle winks produca qualche effetto

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