L’eredità del New Labour e il programma Big Society

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I believe that a desirable future depends on us deliberately choosing a life of production over a life of consumption, on our engendering a lifestyle which will enable us to be spontaneous, independent and yet related to each other, rather than maintaining a life-style that only allows us to produce and consume.

(I. Illich, Tools for Conviviality, 1973).

Dopo tredici anni al vertice e oggi all’opposizione, i Labour e la sinistra britannica sono a un punto di svolta. L’intensità con cui si sono svolte le primarie– che hanno dominato i giornali durante la campagna estiva del 2010 e hanno assistito alla sfida tra Ed Miliband contro il fratello maggiore David con una chiara piattaforma di rottura rispetto al New Labour – lasciava pochi dubbi sul fatto che si trattasse di una battaglia per l’anima e il futuro del partito.

La competizione esprimeva bene il dilemma del Labour: come può il partito trarre il meglio dalla recente eredità del New Labour e allo stesso tempo sbarazzarsi di quegli aspetti che stando ad alcuni hanno compromesso la Sinistra e il suo progetto?

Nella politica inglese, la combinazione di un rapido cambiamento di governo dopo le elezioni e lo status di Her Majesty Official Opposition (l’opposizione nel lessico politico inglese), fanno sì che eredità e transizione siano temi particolarmente sentiti, dato che le mosse dell’opposizione sono molto esposte.

Le opzioni attuali del Labour ricadono in due categorie. La prima è di natura pratica: come si posiziona il partito rispetto alla riduzione del deficit? Come si rapporta al ruolo e alla posizione dei sindacati? Cos’ha da dire sulla riforma del servizio pubblico in una fase di austerità?

La seconda (che rafforza i temi di cui sopra) è invece più teoretica. Prendere decisioni difficili implica rivedere alcuni dilemmi chiave della Sinistra contemporanea: qual è il ruolo appropriato dello Stato in un’economia capitalista? Qual è la responsabilità del singolo per il proprio benessere individuale? Il welfare state è compatibile con un’economia deregolarizzata? Il ruolo del governo è quello di delegare o di proteggere? È in grado di fare entrambe le cose?

Eredità e innovazione

Per diversi esponenti della Sinistra, la sconfitta del Labour (alla fine dei conti una sconfitta di scarso margine) e la (risicata) elezione dei conservatori– tanto che sono stati costretti a formare un governo di coalizione con i Liberali a partire dal maggio 2010 – indica che non importa quanto lavoro c’è da fare, sta di fatto che questo lavoro richiede una singolare combinazione di generosità e severità nei confronti del recente passato.

Il Labour può anche aver perso 5 milioni di voti dal 1997, ma in generale c’era, e c’è, una scarsa rinnegazione dell’ultimo decennio politico (eccezion fatta per l’Iraq, percepito come un evento che ha irrimediabilmente rotto il patto tra il Labour e i suoi elettori). Questo tiepido rigetto determina un dilemma: il partito dev’essere rimodellato da cima a fondo o deve semplicemente concentrare l’attenzione immediata sulla vittoria delle prossime elezioni?

L’elezione di Ed Miliband (anche questa con margini molto bassi) suggerisce che a) chi vota Labour ha intenzione di prendere tempo e relegare la propaganda in secondo piano, affinché un leader giovane possa maturare e b) che questo elettore intende mettere una riga sopra il New Labour ma non sul Labour in sé.

Nel suo primo discorso ufficiale da leader di partito, Ed Miliband ha rotto in modo aperto ed empatico con l’esperienza del New Labour. La sua posizione era inequivocabile: questa è una nuova generazione di Labour, che ha a cuore l’idea di giustizia sociale ma non è alla mercé dei sindacati; che è a suo agio con il mondo degli affari ma in guardia rispetto al settore finanziario sregolato (e alle vaste diseguaglianze in termini di ricchezza e sicurezza); che è devota al territorio ma intenzionata ad assisterlo attraverso un sostegno equilibrato e tuttavia necessario al governo centrale. Per molti è stato come se il pendolo si assestasse finalmente in una ragionevole posizione intermedia: dopo essersi sbarazzato della propria zavorra con il restyling d’immagine del New Labour, il partito può permettersi di riappropriarsi delle sue idee tradizionali senza essere accusato di anacronismo, incompetenza economica e tragica ignoranza rispetto ai balzi della società consumista capitalista.

Mantenere l’equilibrio tra il passato e la spinta verso il rinnovamento e il ringiovanimento è un compito di estrema difficoltà nella migliore delle circostanze, ma viene ulteriormente complicato dalla doppia pretesa dell’attuale governo, che da un lato dichiara di essere lo sventurato erede di un enorme debito pubblico lasciato dal New Labour mentre dall’altro lato sostiene che la propria proposta di dare maggiori responsabilità ai cittadini non sia altro che un’implementazione del meglio del New Labour.

Questa contraddizione si esprime al meglio nell’area dei servizi pubblici, delle riforme e del programma ‘Big Society’ che attinge molti concetti (territorio, personalizzazione, co- creazione) e strumenti (associazioni del terzo settore e impresa sociale) proprio dal New Labour. La natura ibrida del programma ha fatto sì che Big Society, per quanto insipido, sia difficilmente ignorabile da parte della Sinistra; ripudiarlo nettamente è impossibile per via di quell’aria di famiglia, intriso com’è dalla retorica e dalla linea politica del New Labour. Ma è anche difficile da spalleggiare, poiché la coalizione sta sfruttando tali concetti per giustificare tagli semi-apocalittici alla spesa pubblica.

Come appropriarsi degli ‘ismi’ preferiti dai Labour

Nonostante la sua incoerenza, Big Society rischia di mettere l’Inghilterra in una fase di stallo con la sua logica implacabile da autotreno; a quanto pare né la mancanza di un chiaro disegno tecnico né l’assenza di un punto di approdo ne sminuisce la forza. Oltre a un diffuso scetticismo, c’è una sorta di paralizzante senso di colpa avvertito da gran parte della Sinistra (dato che la coalizione di governo porta avanti riforme a suon di concetti familiari come territorialità, volontarismo, decentralizzazione, co-produzione, personalizzazione e impresa sociale) per via del numero di ostaggi di fortuna che noi, la Sinistra, ci siamo lasciati alle spalle perché non siamo riusciti a includere i concetti di empowerment del cittadino e di autonomia nel nostro linguaggio e in quello del collettivismo.

Gli argomenti sviluppati in circa dieci anni e mezzo dagli strateghi e think thank del New Labour diventano una fonte di rivalsa con l’unica obiezione che, questa volta, questo governo ha davvero intenzione di portare a termine il compito. Basta con i fiancheggiamenti ipocriti, le mezze misure e gli schieramenti esitanti: il governo vuole essere preso sul serio quando dichiara che metterà la società al centro di ogni fase del processo politico.

Stando alla coalizione, il New Labour ha fallito perché le tendenze stataliste della Sinistra, alla prova dei fatti, erano troppo inveterate per rendere giustizia allo slogan della co-produzione e dell’impresa sociale e fare sì che attecchissero in modo proficuo. Delegare funzioni alle associazioni di comunità e mettere il potere di nuovo in mano ai cittadini in maniera radicale sono rivendicazioni che vanno invece d’accordo con la narrativa del Big Society. Nel suo Leader’s Speech – il primo in qualità di Primo Ministro – al raduno dei Conservatori nell’ottobre del 2010, Cameron ha dichiarato con audacia: «Siamo noi i radicali adesso, stiamo mandando a tappeto il vecchio sistema attraverso un consistente trasferimento del potere dallo Stato ai cittadini, dai politici alla gente, dal governo alla società».

L’incapacità del New Labour di delegare

L’attuale vocabolario dei Conservatori evoca senz’altro molti aspetti delle iniziative del Labour, e l’Institute for Public Policy Research (IPPR) ha giustamente sottolineato che sotto il New Labour le imprese sociali vennero viste come potenziali dispensatrici di servizi pubblici e facilitatrici dell’attivismo civico, della capacità della comunità e della coesione. La sperimentazione di misure come i budget autonomi di social care (vedi Demos, Making it Personal, 2008), il successo della miriade di iniziative della Young Foundation (Studio Schools, The Citizen’s University, the Uprising Youth Leadership Programme, oltre a una serie di progetti all’avanguardia) o dei Social Innovation Camps della NESTA, suggeriscono l’idea che Big Society si innesti su impegni e slanci già esistenti.

Ma è fuori da qualsiasi dubbio che alla fine il New Labour non abbia delegato più poteri alle persone come aveva promesso: ha centralizzato troppo, ha promesso di sistemare tutto e ha perso traccia della propria graduatoria iniziale di impegni al punto tale che, nel 2001, aveva perso ormai gran parte del focus che aveva determinato il suo successo iniziale. Molte persone coinvolte nello slancio della co-creazione hanno sprecato tempo cercando di persuadere il governo a ‘lasciar andare le redini’; lo Stato doveva garantire sostegno finanziario e controllare la qualità dei progetti, ma soprattutto aiutare le comunità a sviluppare le proprie potenzialità di autonomia e attivare la governance e quei meccanismi utili per discutere le linee politiche, elaborare delle soluzioni e disegnare e dispensare servizi in modo appropriato, legittimo ed efficiente.

Nell’agenda del New Labour il supporto virava troppo in direzione del controllo, per quanto sia evidente che il sostegno dello Stato sia cruciale nel successo delle dette iniziative. Big Society non garantisce niente di tutto questo: promette poco controllo, ma anche poco sostegno.

Spontaneità, coinvolgimento ed entusiasmo da soli non sono abbastanza: le iniziative dei cittadini, le reti locali e i servizi dipendono dai fondi; alcuni funzionano con prestiti o finanziamenti privati, il che vale a dire che sono largamente dipendenti in balia dei tagli, mentre tutti sono estremamente dipendenti da reti accessibili e intricate di sostegno, che nella maggior parte dei casi sono finanziate pubblicamente. Infine, uno dei principali rischi è che lo slancio verso l’iper-efficienza favorisca gli appalti a ditte molto grosse, con il risultato di rimpiazzare una serie di larghi monopoli statali (ma affidabili) con una serie di aziende private egualmente consistenti ma più opache dal punto di vista pubblico. Sia come sia, niente a che fare con lo sfavillio delle imprese sociali previsto all’inizio.

L’imperativo mancato: marchiare il territorio ideologico

Cos’è Big Society? La visione della coalizione di governo non è del tutto chiara, ma stando a Cameron si basa sulla premessa che ‘tutti possiamo fare di più’. In tal senso, il programma Big Society è un’ingiunzione politica a costruire una grande società in cui la nostra capacità sociale e civica venga sviluppata al fine di risolvere dei problemi che una volta venivano affrontati direttamente dallo Stato.

La moneta di questa grande società è il capitale sociale, e a detenerla sono le reti sociali. Il modo in cui il consigliere di governo Lord Wei analizza ‘l’ecosistema’ di Big Society presuppone una profonda comprensione delle reti sociali a livello locale. Inoltre, uno dei tre obiettivi di Big Society è fare sì che le persone siano ‘più coinvolte’ nelle loro comunità in modo da ‘ridurre l’isolamento’ e ‘creare vincoli sociali più forti’.

Per Geoff Mulgan, Big Society è un ‘concetto alquanto raffazzonato’, niente più che ‘uno slogan per dimostrare ‘alla Destra che il governo conservatore intende limitare lo Stato e alla Sinistra che intende occuparsi della società’. I meno accorti sostengono che si tratti addirittura di una tabula rasa o di un serbatoio vuoto, altri invece lo definiscono un modo particolarmente ingegnoso di giustificare tagli massicci alla spesa pubblica. Sono pochi quelli che hanno sottolineato la natura profondamente ideologica di questo esercizio.

L’idea che Big Society sia un progetto guidato da criteri soprattutto pratici è una trappola che andrebbe evitata: proprio come l’idea New Labor di incoraggiare volontarismo e impresa sociale era parte di un progetto profondamente ideologico in seno alla Sinistra liberale, Big Society è un progetto profondamente ideologico in seno alla Destra ultra-liberale. Sarebbe più facile sottolineare le mancanze nella fallacia della Big Society attuale se solo fossimo stati più bravi ad articolare, delimitare e rivendicare il terreno ideologico di ciò che lo ha preceduto.

Per coloro che hanno appoggiato il coinvolgimento dell’utente nella strutturazione dei servizi pubblici, la personalizzazione, la co-creazione e il sostegno al territorio, si trattava di riconoscere la diversità delle domande poste al welfare state e la legittimità di considerare questa diversità. Si trattava di credere che essere messo nella condizione di prendere determinate scelte sulla propria salute ed educazione e sugli aspetti che determinano la vita quotidiana sia un atto democratico che contribuisce direttamente (e indirettamente) alla salute, all’educazione e al benessere del cittadino.

Si trattava anche di riconoscere che la partecipazione alla costruzione dei processi di cura (definiti in senso generale), era una parziale garanzia di servizi più affidabili e flessibili e di una collaborazione più efficace tra Stato e società civile. A volte, e solo a volte, questo ha determinato un piano di risparmio, ma si trattava di servizi migliori a un costo inferiore, non di servizi più scarsi tout court, e di risolvere una serie di problemi nuovi che lo Stato non era in grado di risolvere da solo.

Qui è importante sottolineare l’incisivo aumento di interesse verso il comportamento pubblico negli ultimi cinque anni: stando agli studiosi di Chicago Richard Thaler e Cass Sunstein, il successo inglese è decisamente indicativo della ricerca di un appropriato intervento di Stato nella vita dei cittadini e va in qualche modo a sviscerare il paradosso Labour, che sosteneva sia una maggiore autonomia ai cittadini sia incentivi guidati dallo Stato che potessero modellare ogni aspetto del comportamento personale.

Per i conservatori – al di là del tentativo di riabilitare un partito il cui rapporto con la società era stato sintetizzato dal ‘la società non esiste’ di Margaret Tatcher – Big Society è un sistema di offerta alternativo a fronte dei tagli drammatici nella spesa pubblica.

Questo è in parte vero, ma si rischia di perdere di vista il nodo della questione: lo scopo non è prevalentemente pratico, lo scopo è quello di ritirare lo Stato dalla vita pubblica. E la retorica dei tagli è funzionale solo nella misura in cui garantisce all’attuale governo di implementare una serie di politiche designate a privatizzare interi settori del servizio pubblico. Cerchiamo di essere chiari su fini e mezzi: il fine è uno Stato ristretto, il mezzo, alquanto ovvio, è tagliare i servizi garantiti dallo Stato.

Per la coalizione di governo, i fondamenti ideologici sono quelli di un liberalismo economico volto a massimizzare l’autonomia, ricompensare l’imprenditorialità e in definitiva riallocare tutte le responsabilità (sia del fallimento che del successo) sull’individuo e la comunità che gli è prossima.

Per coloro che hanno sposato il rimodellamento dei servizi pubblici in direzione dell’empowerment ai territori e dei cittadini attraverso nuove forme di intervento statale adatte al ventunesimo secolo (definite da diversità, trasformazione demografica e accesso alle informazioni da parte del pubblico), Big Society implica una rivendicazione del proprio terreno ideologico in modo chiaro ed effettivo.

La situazione attuale (autunno 2010) in cui Big Society è un parametro che orienta le azioni di governo, ci costringe a rivedere quel che di più coraggioso c’era nella nostra proposta, stando attenti questa volta ad articolare bene i nostri mezzi e non solo i nostri fini. Per la Sinistra, la trasformazione dei servizi pubblici, la loro personalizzazione e la nuova divisione degli sforzi tra governo centrale e locale tanto quanto tra il privato e il pubblico, si lega al modo migliore in cui garantire un rapporto rinnovato tra lo Stato e l’individuo (un rapporto di sostegno reciproco) e rendere gli individui in grado di decidere della propria vita.

Gli scopi sono due: giustizia sociale e autonomia. Sta a noi scandire cosa c’è di giusto nell’autonomia e sfruttare al meglio– nel contesto di cambiamenti sociali ed economici che ci troviamo di fronte– il paradosso di politiche garantite dalla collettività e finanziate pubblicamente, finalizzate al benessere e all’autonomia individuale.

Come ha scritto Charlie Leadbeater in Production Values in Demos del 2006, ‘i servizi pubblici post industriali (…) riconfigurerebbero la geologia dei servizi pubblici. (…). Dovrebbero essere collaborativi, distribuiti, da pari a pari, co-creati e motivazionali, ma affinché questo accada devono essere sostenuti, assistiti ed ampliati da una nuova generazione di professionisti, che siano flessibili, talentuosi e liberi dal sovraccarico e dall’inflessibilità delle istituzioni del ventesimo secolo, ma allenati e sostenuti dalle istituzioni pubbliche del ventunesimo secolo, esperte e adattabili.

Lezione imparata: una grande società richiede un grande investimento

In circa quindici anni di trasformazione e ristrutturazione del servizio pubblico, la comunità degli esperti ha imparato alcune lezioni importanti sul modo migliore di nutrire l’autostima individuale e delle comunità, di strutturare e dispensare servizi personalizzati, di potenziare il ruolo della società civile (organizzazioni pubbliche e private, organizzazioni di comunità, imprese sociali, reti e gruppi), e aiutare a rilasciare questi servizi in un percorso vicino agli utenti. Le lezioni principali sono:

  1. Dato che i modelli tradizionali di governo stanno diventando sempre meno incisivi, lo Stato deve focalizzarsi non tanto sul come dispensare dei servizi ma sullo stabilire degli obiettivi, fornire una direzione, promuovere rapporti, garantire qualità e servizi, fornire tirocinio e sostegno e permettere agli altri di svolgere il proprio lavoro

  2. Il lavoro di partnership richiede nuovi modelli di leadership interconnessa che sia agile nell’esecuzione ma forte nella governance

  3. La recente enfasi politica sul capitale sociale e i beni sociali deve essere potenziata da uno studio più dettagliato delle reti sociali

  4. Il capitale sociale è la chiave, ma questo è più elevato in comunità benestanti (come si evince per esempio dai più alti tassi di volontariato): nessun servizio pubblico territoriale equo ed efficace può emergere senza capire bene come in che modo le reti sono formate e alimentate

  5. Una concezione esclusivamente geografica della comunità è inutile

  6. Il punto di partenza sono i nuovi diritti, non i programmi di governo; soprattutto il diritto di stabilire una forte governance localizzata

  7. Bisogna sostenere strumenti e piattaforme che aiutino le persone a organizzarsi (piattaforme come Kiva in ambito finanziario, o le banche del tempo)

  8. Lo sviluppo sociale richiede nuove forme di finanziamento, sia dal governo che dai privati (vedi i Social Impact Bonds della Young Foundation e vedi la pubblicazione Social Venturing and the Open Book of Social Innovation, Young Foundation)

  9. Un intervento di piccola scala spesso deve restare tale, non si tratta di aumentare il raggio di azione ma di imitare i modelli virtuosi. Bisogna promuovere una taratura intelligente dei progetti.

  10. Ultimo punto, ma non per questo meno importante: le parole contano. La Sinistra va continuamente incoraggiata nella rivendicazione ideologica e semantica dei fini e dei mezzi.

(Traduzione di Claudia Durastanti)

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