L’alibi dei Pigs e la cultura europea (che non c’è)

Prosegue il dibattito sul futuro e il ruolo del Mediterraneo lanciato da Claus Leggewie su Reset. Qui tutti gli interventi.

L’acronimo Pigs è politicamente scorretto (vivaddio) e dispregiativo quanto basta a nutrire la boria anglosassone verso Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. Tuttavia non è cinico quanto vorrebbe. E rivela la debolezza del paradigma fobico ricorrente nell’Europa centro-settentrionale di fronte alla crisi, alla minaccia della penuria, al timore di perdere la greppia. E sì che septemtrione in latino vuol dire “sette buoi”, impegnati a tirare il carro stellare dell’Orsa Maggiore per orientare chicchessia. Liberati dal lavoro comune, perdono la bussola e la fanno perdere: rinunciando al Sud, il Nord rischia di smarrirsi a sua volta. D’altronde, in Italia un ventennio di vittimismo “padano” va risolvendosi nella fine di qualsiasi – pur legittima – aspirazione federalistica.

“Del maiale non si butta via niente” tramanda la sapienza popolare d’ogni dove. Mentre qui c’è chi lo butterebbe per intero o quasi. Ovvero, qual è mai l’idea sul futuro dei Pigs da parte di chi li definisce tali? Si pensa di recintare i paesi “maiali” nell’esotismo in sedicesimo per viaggiatori distratti e non tanto rapaci o avventurosi da spingersi oltre il Mediterraneo? Un cocktail Ibiza/Rimini per tutte le età e le fasce di spesa. In alternativa, si ritiene di utilizzare detti paesi a mo’ di zona cuscinetto fra il benessere/malessere europeo e la disperazione dei migranti o l’aggressività islamista? In quest’ultimo caso, paventato nel ragionamento critico di Claus Leggewie, il pericolo fondamentalista del vicino oriente potrebbe minare la sicurezza dei Pigs e produrre influenza suina nell’Europa tutta, che da Parigi a Madrid a Londra fu bersagliata dal terrorismo indifferente a certe sottigliezze “teoriche”.

Senza neppure considerare il neocolonialismo cinese che dall’Africa s’affaccia sul Mediterraneo, non c’è aspetto della vagheggiata espulsione del sud, in filigrana nell’acronimo, che gioverebbe al resto del Vecchio continente. Parafrasando von Metternich – lui sì un cinico vero – oltre mezzo secolo dopo gli esordi comunitari l’Europa è “un’espressione geografica”. Forse oggi più che nel 1957, essa appare imbrigliata in un malinconico destino crepuscolare e appena confortata dalla vanagloria della trascorsa potenza “occidentale”. Di sicuro l’Europa è afflitta dalla presbiopia che rende poco distinta la visione di quanto è vicino: il Mediterraneo, per esempio, del quale confondiamo persino le stagioni, giacché non sempre una rivolta fa primavera.

A proposito di politologia zootecnica, l’Europa è un “animale morente” cui, come nell’omonimo romanzo di Philip Roth, non resta che confidare in un antidoto crudele, predando lutti (certi risvegli bellicisti, da ultimo della Francia in Libia) oppure osservando il degrado di corpi giovani: spettatore del naufragio altrui, secondo la splendida metafora lucreziana elaborata da Hans Blumenberg. Basterà a darsi un futuro? V’è da dubitarne. Necessitano una vasta autodeterminazione dei popoli oggi incredibile, la consapevolezza di processi globali molto ampi e la modestia di non ritenerli tutti e subito inteleggibili, il coraggio delle élites non solo politiche, una nuova generazione di “nativi europei” che creda nel futuro comune almeno quanto s’affida a Twitter. Andrebbe rinverdita la facoltà degli europeisti d’antan alla Spinelli che nelle carceri fasciste, nello sfacelo morale di tradizioni raffinatissime precipitate nell’orrore dei lager (da Goethe a Goebbels), intravidero e indicarono una volontà di impotenza nazionalistica, in grado di rilanciare i paesi europei grazie alla cessione di quote di singole sovranità.

Quella strada solare (e utopistica) non è stata percorsa. Via via, si è preferito imboccare i camminamenti mezzombrosi nei corridoi delle grandi banche che vorrebbero dettare legge e magari surrogare parlamenti timidi, non esitando a suggestionare – anche tramite l’esorcismo dei Pigs – governi tanto più arroganti quanto più angosciati. Difficile concepire una società affluente senza un appello alla generosità: la recessione dello spirito europeistico e il trincerarsi nella difesa della residua solidità dell’euro non preludono ad alcunché di buono neppure per i ricchi. Sicché alla Germania di Angela Merkel non va imputato il passato della svastica, sventolata dagli ateniesi nelle manifestazioni di protesta nei giorni scorsi, bensì ricordato lo sforzo per accogliere i tedeschi dell’Est fra i quali lo stesso cancelliere crebbe.

“Nel 1989 il Muro di Berlino non è crollato per essere ricostruito a ridosso del Mediterraneo” – scrive Leggewie. Infatti nell’89 il muro è crollato, anzi è naufragato, anche nel Mediterraneo, dando la stura all’esodo dei migranti balcanici, magrebini, africani, asiatici verso le coste dei Pigs. Popoli da un “mondo ex” (Matvejevic) verso approdi occidentali, in cerca di cibo e di lavoro, di migliori possibilità di vita e di libertà. Esuli stravolti da viaggi disumani che continuano a mietere vittime nel mare nostrum. Sussurri e grida a labbra secche di parole promettenti, “Italia” o “Spagna”, come quella sillabata per un secolo e mezzo dagli europei in vista di Ellis Island, “America”. Come può l’Europa non capire e non ricordare? Eppure l’esodo, insisteva Susan Sontag, è l’essenza stessa, il quid tragico del Novecento.

Persino la fortunata definizione del “secolo breve” di Eric J. Hobsbawm, scomparso poco fa, ha un baricentro “nordico” iscritto fra Sarajevo 1914 e Mosca 1991. Il “secolo breve” è una storia di dissolvimenti (l’impero austro-ungarico, l’Unione sovietica) e allude alla fine di un’egemonia continentale che in fondo coincide con il tramonto del marxismo, ultimo sistema teorico o grande narrazione che dall’Europa riesce ad allargarsi al resto del mondo. Visto un po’ più da sud il ‘900 è invece un secolo lungo, interminato sebbene in estenuante stadio terminale. I nodi del mondo post-ideologico dall’89 in avanti sono ancora qui, lungo una frontiera meridiana impalpabile e concretissima, tutti da individuare e da sciogliere. Le contraddizioni, i conflitti e le enormi potenzialità del Mediterraneo influenzano ogni giorno vicende lontanissime, non esclusi i mercati, come traumaticamente si intese l’11 settembre 2001. Israele, Palestina, Siria, Tunisia, Egitto, Libia, Turchia e Grecia, Portogallo, Spagna, Italia sono soltanto problemi da… porci?

Certo, ha ragione Leggewie, il Mediterraneo “come fonte e narrazione di un’identità collettiva europea è ormai logora e senza lucentezza. La Mediterranée ormai non è più altro che uno stile, un marchio, una app”. Ne porta la responsabilità anche chi ha edulcorato il tragico del greci e di Camus nel sogno delle “isole felici” di un regionalismo deteriore, cui si riferisce Alessandro Laterza nel suo contributo a questo dibattito. Il recupero ambiguo di tradizioni etnologiche in chiave modernista e spettacolare, il folklore ammantato di antagonismo, l’antropologia caricaturale di un sud dionisiaco ed edenico, oasi sensuale e Macondo fra gli ulivi, le locali politiche di accoglienza strumentali all’accoglienza dei politici in orizzonti più larghi, non fanno che ribadire o aggiornare gli stereotipi e costituiscono l’altra faccia di chi vorrebbe liberarsi dell’Europa dei Pigs (a margine, gioverebbe rivedere Porcile di Pasolini del 1969 con le pulsioni erotiche per i suini del protagonista, un rampollo tedesco di famiglia borghese).

L’equivoco produce ricadute pragmatiche, per dirne una, nel crescente utilizzo a fini turistici (l’“attrattività territoriale” del gergo burocratico di Bruxelles) dei fondi strutturali europei riservati alla cultura nelle regioni dell’“obiettivo 1” dell’Unione: la coesione socio-economica che non c’è. Non riusciremo a garantirla solo con le risorse, oltretutto non infinite. Toccherà piuttosto ricominciare a parlare di cultura europea, da tempo silenziosa o fantasmatica in dispetto della sua straordinaria, secolare eloquenza.

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