La “guerra” italiana al foulard

Nel luglio 2004 due ordinanze dei sindaci di Drezzo (Como) e Azzano Decimo (Pordenone) inclusero per la prima volta nel divieto fissato dall’art. 5 della c. d. legge Reale del 22 maggio 1975 n. 152 che punisce «l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo» anche «il velo che copra il volto». Naturalmente, tale aggiunta esondava dall’alveo delle competenze comunali e condannava le ordinanze all’annullamento. Essa costituiva, tuttavia, un precedente che si sarebbe rivelato piuttosto attraente. Tra l’aprile 2008 e l’ottobre 2010, infatti, furono depositate alla Camera una decina di proposte tese a proibire, in perfetto spirito bipartisan, burqa e niqab. Solo una proposta, la Vassallo e altri, faceva eccezione a questo orientamento. Tutte le proposte interdittive invocavano la tutela dell’ordine pubblico, pur lasciando trasparire motivazioni più simboliche che legate ad effettive e concrete necessità, ma si differenziavano per la diversa enfasi posta su taluni temi. Così, la proposta Cota collegava direttamente burqa e niqab alla «sfida rappresentata dal terrorismo jihadista» mentre il nesso tra religione islamica e «cultura estremista e retaggio di costumi disumani» (proposta Sbai) appariva più calcato nelle proposte del centro-destra. Le proposte del centro-sinistra, infatti, tentavano di “velare” l’interdizione dietro formulazioni quanto più possibili accoglienti nei confronti degli indumenti musulmani giungendo fino alla proposta di «indossare il burqa lasciando il volto scoperto» (proposta Binetti).

Dal punto di vista della formulazione, le proposte – Vassallo esclusa – individuavano un generico spazio “pubblico” o “aperto al pubblico” come luogo di applicazione del divieto di circolazione a volto coperto senza distinguere né tra diversi gradi di “pubblicità” degli spazi (le vie cittadine erano considerate al pari dei tribunali e dei locali scolastici) né tra esigenze e circostanze che comportassero – o meno – l’effettiva necessità della visibilità del volto (l’accesso agli sportelli di uffici pubblici o privati non era trattato diversamente dall’acquisto minuto in un mercato all’aperto o da un momento di relax in un parco cittadino). Inoltre, se tutte le proposte miravano a riformulare l’art. 5 della “legge Reale” in modo da vietare senza ambiguità burqa e niqab, non tutte operavano in maniera precisa ed efficace e, soprattutto, all’interno di un alveo di una sicura legittimità. La proposta Sbai, ad esempio, nel vietare «l’utilizzo degli indumenti femminili in uso presso le donne di religione islamica denominati burqa e niqab» faceva emergere plurimi profili discriminatori: si parlava solo di indumenti femminili ed esclusivamente di quelli connessi ad un’unica appartenenza religiosa comportando, peraltro, anche una possibile violazione del principio di laicità quale principio pluralistico funzionale alla uguale libertà. Inoltre, non incidendo sui giustificati motivi, la proposta “rischiava” addirittura di lasciare aperta la possibilità di ricorrere alla clausola esonerativa che ne avrebbe minato l’impianto complessivo. In ogni caso, comune a tutte le proposte interdittive era la confusione tra riconoscimento e identificazione, tra generica e costante riconoscibilità oculare e possibilità di verificare la corrispondenza tra un volto ed un documento d’identità. Il divieto non mirava, infatti, ad assicurare l’identificabilità della persona, in realtà non impedita da burqa e niqab, ma ad introdurre nell’ordinamento un obbligo di controllo permanente della riconoscibilità personale in uno spazio pubblico indifferenziatamente considerato senza soffermarsi né sulle conseguenze né sullo spirito di una tale innovazione.

Solo una proposta di legge, la Vassallo e altri, distingueva tra generico riconoscimento e identificazione prevedendo, da una parte, una generale clausola giustificativa nei confronti degli indumenti che avessero coperto il volto per «ragioni di natura religiosa o etnico-culturale» e, dall’altra, l’obbligo di «tempestivamente consentire» il riconoscimento «mostrando il volto, al fine della momentanea identificazione» «ove richiesto da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio per motivate e specifiche esigenze di pubblica sicurezza».

Inutile anticipare che questa proposta avrebbe avuto scarsa possibilità di farsi strada nel dibattito parlamentare. Troppo freddamente tecnica e giurisprudenziale, attenta al pericolo concreto anziché a quello presunto, essa appariva, in quel momento, anacronisticamente accomodante e ragionevole.

 

Il 19 ottobre 2011 è stato adottato un testo unificato. Esso conserva la possibilità di invocare i «giustificati motivi» ma non rinuncia alla menzione esplicita di burqa e niqab insistendo, così, nella polemica simbolica indirizzata specificamente all’Islam. Nello stesso tempo, l’interdizione di tali indumenti appare sfuggente, comparendo in un inciso che finisce per moltiplicare le fattispecie criminose. Il testo unificato, inoltre, seguendo l’esempio francese, introduce una nuova fattispecie di reato che punisce la «costrizione all’occultamento del volto» e, a differenza della legge transalpina, sanziona con la preclusione all’acquisto della cittadinanza la condanna in via definitiva per il reato appena menzionato.

Il testo unificato pare, così, suggerire, da un lato, un’equazione Islam = estraneità, dall’altra un’interpretazione delle scelte in materia di abbigliamento non del tutto consapevole del ruolo giocato dalle convertite europee o dalle fedeli di “seconda” generazione nella scelta di abbigliamenti affatto tradizionali nei costumi dell’Islam mediterraneo. Infine, utilizzare la cittadinanza come elemento sanzionatorio nei confronti di manifestazioni del diritto di libertà religiosa sembrerebbe suggerire una diversa gradazione nel godimento delle libertà fondamentali tra cittadini e non che costituirebbe una vera e propria rottura nella tradizione (non solo) italiana di tutela dei diritti fondamentali.

 

Il dibattito italiano sul burqa e niqab riflette certamente “umori” diffusi in molti Paesi europei ma rivela pure talune caratteristiche di una peculiare storia nazionale. Innanzitutto, la discussione sul burqa non ha mai raggiunto in Italia l’ampiezza di un vero dibattito societario e sembra costituire, piuttosto, un esempio di globalizzazione forzata e di significativo arretramento rispetto agli standard del diritto nazionale di libertà religiosa. Le proposte italiane, infatti, hanno riflettuto un’intermittente ed effimera polemica top down e si sono poste agli antipodi rispetto alla tradizionale apertura dello spazio pubblico nazionale nei confronti delle istanze religiosamente orientate e, dunque, rispetto ad una declinazione “habermasiana” e non vetero-separatista del principio costituzionale di laicità. Le proposte italiane “sul burqa” possono essere anche interpretate come la conseguenza di un processo di secolarizzazione che ha contribuito ad erodere, insieme al tradizionale moderatismo universalistico di matrice cattolica, anche la consapevolezza – ed il tendenziale rispetto –  del senso più profondo della scelta – e del diritto di libertà – religiosa. Il loro carattere regressivo appare con evidenza nel momento in cui esse finiscono per trasformare l’appartenenza etnica e/o l’intenzione religiosamente o culturalmente orientata in fattori criminogeni, prevedendo un trattamento sfavorevole proprio per le manifestazioni che potrebbero rivelare una scelta particolarmente impegnativa della coscienza personale.

Le proposte di legge sull’interdizione di burqa e niqab ben rappresentano un certo “diritto ecclesiastico” post-11 Settembre e pre-crisi economica. Poco attente alle concrete circostanze di fatto; alle dinamiche sociali, culturali e religiose dell’Islam in Europa; alla complessità legata alla comprensione ed alla complessiva gestione dei c. d. reati culturalmente orientati, esse riflettono un diritto schiacciato sotto il peso della logica di prevenzione, l’ennesimo segnale della crisi della cultura costituzionalistica uscita dal secondo dopoguerra. La lotta contro il burqa e il niqab, infine, è frutto della globalizzazione che porta a replicare nel contesto europeo tensioni interne ai Paesi a maggioranza musulmana. Il rischio, tuttavia, non è soltanto quello di cadere in pericolosi anacronismi, ma anche quello di contribuire ad una sorta di “islamizzazione” del diritto di libertà religiosa del “Vecchio continente”.

La crisi del costituzionalismo europeo coincide con la nascita, in condizioni di estrema precarietà e grande incertezza, di un costituzionalismo “arabo” nella riva sud del Mediterraneo che necessiterebbe di una ben altra “sponda” con cui confrontarsi. Il rinvio sine die della discussione sul testo unificato sembra, tuttavia, lasciare ancora qualche margine di speranza.

 

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