La crisi alleata dei populismi
Paura uguale nazionalismi

Dossier
Sommario

Desideriamo riflettere con Michel Wieviorka sulle condizioni difficili in cui si trova a operare la sinistra europea in questa stagione di crisi. Cominciamo dall’assenza di movimenti sociali organizzati, un argomento che questo studioso francese conosce bene. Reset ha pubblicato un articolo di Michael Walzer, dedicato agli Stati Uniti, in cui il direttore di «Dissent» sostiene che la divisione del lavoro tra movimenti sociali e partiti politici dovrebbe funzionare in questo modo: i primi hanno la facoltà, o il compito, di cambiare il paesaggio sociale e culturale, mentre i partiti hanno una funzione più opportunista, quella di cercar di vincere le elezioni nelle condizioni date, convincendo gli elettori. I movimenti spostano la società a destra o a sinistra, se ne sono capaci.

Che situazione abbiamo in Europa? Ci sono i vecchi sindacati, molto indeboliti, da una parte, e, dall’altra, movimenti localistici e nazionalisti, o xenofobi, che coltivano sentimenti antieuropei e un diffuso malumore contro i politici: i Pirati in Germania, li Movimento Cinque Stelle in Italia; in Francia c’è una forte presenza lepenista. Non c’è nessun movimento giovanile in vista.

Per un secolo e mezzo in Europa abbiamo avuto un grande movimento sociale, il movimento operaio, di cui ora siamo tutti orfani socialmente, politicamente e intellettualmente. Ci rimane molto difficile immaginare che si possano costituire delle forme di azione molto distanti o diverse dal movimento operaio. Percepiamo una difficoltà, una sorta di vuoto nelle nostre vecchie società che non sono più industriali e non sanno più che cosa sono diventate. E poi ci stiamo dimenticando che, storicamente, i grandi movimenti che hanno attraversato le società europee erano anche movimenti culturali di vario genere, anche religiosi, nei quali l’idea di nazione poteva essere forte senza per questo diventare nazionalista né reazionaria. In breve, sottovalutiamo la forza dei movimenti culturali nel cambiamento, perché abbiamo in mente il paradigma del movimento operaio.

Insomma non siamo più nell’era industriale eppur continuiamo a pensare che dal lavoro, dall’economia possano scaturire movimenti e stiamo in attesa, col fiato sospeso, quando notiamo alcuni piccoli tentativi. E trascuriamo la cultura.

E qui invece stanno accadendo moltissime cose. Dalla fine degli anni ’60 sono nati dei movimenti ecologisti che sono diventati delle vere forze politiche e continuano ad avere una forte carica culturale, sono ancora capaci di mettere in moto diversi attori sociali con sfide più o meno precise. In secondo luogo vediamo nascere in tutto mondo, e non solo in Europa, dei movimenti su basi culturali o storiche. Movimenti alla memoria, movimenti di vittime storiche, movimenti che mettono in primo piano identità che hanno subito discriminazioni. Ce ne sono di ogni genere. Sono fenomeni anche inquietanti, ma dobbiamo comunque imparare di nuovo ad analizzare e ad assegnare la giusta importanza ai movimenti di tipo culturale e storico, non solo a quelli sociali in senso classico. Ma c’è un’altra difficoltà nel costruire forme di azione collettiva forti: in Europa continuiamo a pensare con le categorie dello Stato-nazione mentre ci proponiamo di agire a livello europeo. Ed è molto difficile passare da un livello all’altro. I movimenti che si occupano di ecologia e ambiente, i movimenti che si interessano dei diritti umani, i movimenti umanitari, i movimenti che fanno capo a l’una o l’altra minoranza non sono necessariamente chiusi dentro uno Stato-nazione, ma non siamo capaci di pensare a forme di azione collettive e in effetti se ne vedono poche. Non riusciamo a uscire dal passato, che ha dominato il nostro orizzonte intellettuale per due secoli, ma non dobbiamo perdere la speranza.

La società europea è attraversata da un grande malessere: incertezza economica, paura della concorrenza a basso costo dei paesi emergenti, bisogno di lavoro con tutto qul che segue. E c’è anche voglia di protestare.

Il problema è concreto e immediato. Siamo in una situazione molto difficile e non sappiamo come i nuovi protagonisti venuti dalla società, venuti dal basso, da movimenti sociali o culturali, possano trovare un indirizzo diverso per quanto riguarda la gestione della crisi. E di questi protagonisti ne esistono diversi: abbiamo i salariati che si battono perché la loro impresa è a rischio di chiusura. Nei movimenti degli indignati vedo una forma di reazione alla crisi più che la capacità di costruire un mondo nuovo. Questa crisi non troverà una risposta nei movimenti sociali. Quando si dice per esempio che bisogna introdurre più idee di tipo ambientalistico per uscire dalla crisi nel campo dell’automobile, nel campo delle costruzioni di alloggi, in materia di politiche industriali, siamo tutti d’accordo, ma nel breve termine non c’è corrispondenza con i problemi che dobbiamo affrontare oggi. C’è una contraddizione totale tra il contributo che possono forse dare alcuni movimenti a lungo termine da un lato, e l’urgenza di trovare delle risposte nel campo del lavoro, dei redditi, del welfare dall’altro. E tutto questo mentre ci troviamo di fronte a movimenti nazionalisti populisti che, invece, hanno proposte molto pericolose, in cui si mescolano i riferimenti storici, culturali, della nazione, con temi razziali e xenofobi, e con tematiche sociali. Questa è una delle grandi novità, almeno in Francia, del Fronte nazionale, che si è messo a parlare dei dimenticati, degli operai, degli invisibili, come dice Marine Le Pen, e a proporre uno Stato forte, tutto il contrario di quanto faceva venticinque anni fa. Le forze più pericolose sono capaci di parlare del sociale, un sociale che ritengo regressivo, evidenziando quindi che la domanda è soprattutto politica. Forse sono troppo francese, ma sono costretto a chiedermi se la sinistra che abbiamo eletto alcuni mesi fa sarà capace di rispondere alla sfida.

In democrazia la funzione della politica dovrebbe essere quella di portare a sintesi questa situazione, di preparare un’offerta per quella domanda. Dopo tutto possiamo dire che in Francia il partito socialista è stato capace di farlo, ha vinto le elezioni. Forse questo ci offre qualche indicazione positiva?

Vista dall’estero, la Francia simboleggia una certa speranza, almeno in Europa. Sono colpito dalle aspettative riposte su François Hollande ad esempio dalla Spagna, ma questa sinistra non é l’incarnazione di una qualsiasi mobilitazione sociale. Oggi, al di fuori dei movimenti nazionalisti o populisti – ne abbiamo in Francia anche a sinistra, con il Fronte di sinistra – non vi è nessun legame forte tra gli attori sociali, qualsiasi essi siano, e l’azione politica. I sindacati sono molto deboli dove prima erano fortissimi. Anche qui la Francia è forse un caso estremo: abbiamo una percentuale bassissima di lavoratori sindacalizzati e quando lo sono non sono nella produzione industriale, bensì nella funzione pubblica, tra i funzionari. Il tessuto associativo, pur molto attivo dovunque, non è rivendicativo, non si mobilita per agire fortemente nei confronti della politica. Siamo quindi in un periodo storico in cui la politica è lontana da qualsiasi forma di contestazione.

In Francia ci sono state le primarie, molto combattute per la scelta di Hollande. Martine Aubry aveva lavorato a una piattaforma molto ambiziosa, alla quale lei, Wieviorka, ha personalmente collaborato, Pour changer de civilisation. Poi la Aubry ha aiutato lealmente Hollande. Qual è la divisione dei ruoli tra i due, uno più a destra, l’altra più a sinistra?

No, non si tratta di questo. Sono amico di Martine Aubry e forse la mia opinione è un po’ di parte. Penso comunque che lei abbia una visione generale forte, ed è vero anche che ama il dibattito delle idee, pensa che gli intellettuali possano contribuire a una riforma della politica. Ha mobilitato sì gli intellettuali, ma questa non è la cosa più importante. Martine Aubry ha ricostruito il Partito Socialista che era in uno stato di destrutturazione molto avanzato e il giorno in cui ha perso le primarie ha messo tutti i suoi sforzi al servizio della possibile vittoria di François Hollande. Ma la vittoria di Hollande non deve niente agli intellettuali: non vi è stato nessun anelito, gli intellettuali hanno votato massicciamente per Hollande, ma senza ardore. Il successo di Hollande non si fonda su una mobilitazione intellettuale, ma sul rifiuto di Sarkozy da parte degli elettori, e dall’altro sulla crescita del Fronte Nazionale.

La sinistra è stata a lungo il partito dello Stato sociale. Ora abbiamo dovunque crisi di bilancio di lungo periodo, e non si intravvede il momento in cui la crescita possa riprendere il posto che aveva nei decenni passati. Quale è la direzione possibile del cambiamento dei progetti politici della sinistra? Vedo che la sinistra inglese cerca la soluzione nella direzione della mutualità: bisogna che la società faccia quello che lo Stato non riesce più a fare, il terzo settore, il volontariato. È questa secondo lei la direzione principale?

No, non credo che questa sia una vera innovazione sociale; al contrario temo sia una regressione, perché quella via può svilupparsi solo su piccola scala e senza visione forte del futuro. Ci si può purtroppo accontentare dell’idea che bisogna interrompere la caduta, la decrescita, che bisogna salvare il salvabile, e che nel frattempo ciascuno cercherà di sbrogliarsela in piccoli gruppi, in piccole unità. Qui vedo dei comportamenti di crisi incoraggiati dallo Stato o da alcuni protagonisti politici secondo i quali, dato che lo Stato non può fare tutto, bisogna assolutamente che la gente si faccia carico di se stessa. Questo può andare incontro ad alcune utopie ambientaliste, forse a volte può far pensare a un ritorno ad alcune forme di solidarietà che erano quelle che ha inventato il movimento operaio alla sua nascita, di tipo mutualistico, cooperativo, etc. È certamente meglio della destrutturazione, ma non può mobilitare tutta la società. Il movimento operaio è veramente nato il giorno in cui dalle fabbriche, dai posti di lavoro, gli operai hanno dato vita a un conflitto sociale. Ebbene il movimento operaio ha anche dato vita a movimenti mutualistici cooperativistici, forme di azione solidale, di solidarietà operaia, ma non è questo che ha costruito un’azione. Affinché ci sia un’azione ci deve essere un principio di conflittualità.

Ma se questa non è la via principale, quale altra allora?

Siamo in un periodo dove bisogna sperare che alcune cose si possano ricostruire dal basso. Oggi la figura molto francese, ma molto classica dell’intellettuale, che è capace di proporre una filosofia della storia, o di proporre una grande visione storica o politica, è molto indebolita, a volta addirittura scomparsa. Gli intellettuali oggi più importanti sono ricercatori in scienze sociali, appartengono a un mondo che ha molta expertise, in campi precisi, limitati, ma allo stesso tempo ha difficoltà ad arrivare a visioni politiche più generali. Oggi non vi è circolazione tra produzione di idee, conoscenza e analisi e grandi dibattiti politici e geopolitici o storici, come si poteva fare – certamente con molta ideologia – quaranta o cinquant’anni fa. Non sono solo i movimenti sociali ad avere difficoltà nel ricostruirsi forme più culturali, anche la vita culturale si è largamente dissociata dai ruoli importanti nella vita politica.

La dimensione europea potrà entrare più a fondo nella vita politica e nell’opinione dei principali paesi dell’Unione? Solo alcuni giorni fa abbiamo letto sul «New York Times» un articolo che sintetizzava le cose in modo semplice ma efficace: guardate l’Europa, vive una crisi economica molto pesante e si sta dividendo di nuovo su linee di conflitto a base etnica. Non è così?

In partenza l’Europa era una costruzione economica al servizio di una visione morale. Quando i sei paesi hanno dato vita alla Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, erano sostenuti dall’idea che il carbone e l’acciaio fossero le due risorse più importanti che potevano portare alla guerra. «Creiamo una comunità economica per regolare la produzione e la distribuzione del carbone e dell’acciaio in modo tale che su queste risorse ci sia un’unità che si chiamerà Europa e non solo un gruppo di nazioni». C’era quindi una visione morale molto forte, una visione contro la guerra. Oggi ne siamo molto lontani e l’unica cosa importante su cui viene giudicata la costruzione europea è la sua capacità o meno di farci uscire dalla crisi. Per il resto la gente vuole solo sapere se l’Europa ci darà o meno quello che ci serve per resistere alla crisi, per ritrovare la crescita, comprese alcune forme di solidarietà. Tutti coloro che sono scettici o preoccupati per la situazione economica possono guardare all’Europa e dire che essa non ha altri obiettivi che quelli economici, che non è in grado di fronteggiarli e quindi che bisogna tornare verso un’altra cosa. Questa è l’origine della rinascita dei nazionalismi un po’ dovunque. È l’idea che la nazione possa essere forse portatrice non solo di risorse economiche, attraverso il protezionismo – idea che naturalmente contesto – ma che nel quadro della Stato-nazione si possa proporre in primo luogo un’altra visione dell’economia e che, diversamente dall’Europa, la nazione possa contenere una visione culturale e storica. Si capisce che possono affermarsi così logiche di etnicizzazione, forme di nazionalismo che, a loro volta, costituiscono fattori di crescita di tensioni e di crisi nei vari paesi europei, e questi stessi nazionalismi aprono la strada a una maggiore etnicizzazione delle società, e aumenta così la difficoltà di tenere insieme degli Stati-nazione. E il nazionalismo è solo la parte più consistente di questo insieme di cose.

Sembra che la politica, anche in democrazia, e soprattutto in democrazia, abbia bisogno di qualche risorsa ideologica. Abbiamo invece una fase in cui dominano la scena pubblica le parole amare del principio di realtà: i debiti da pagare, le spese da tagliare. Sono temi che naturalmente non entusiasmano. I leader politici tendono a fare promesse che poi non possono mantenere.

Se dobbiamo sviluppare una visione del futuro è perché abbiamo dei bambini. Credo che oggi possa pesare più che nel passato il tema delle generazioni future, il tema dell’ambiente: che tipo di pianeta lasceremo ai nostri figli? L’economia porta a chiederci se i nostri figli vivranno meglio o peggio di come abbiamo vissuto noi, e penso che questo genere di pensiero possa aiutarci a fare i conti con un punto di vista realistico, con l’idea che bisogna costruire un futuro e non solo rispondere colpo su colpo alle difficoltà del momento. Un’altra idea molto importante, che è poco presente in Francia, ma molto presente negli ultimi anni in America Latina: bisogna saper agire in modo anti-ciclico, intendendo con questo che quando tutto va male bisogna prendere delle decisioni forti sul lungo periodo, che vanno contro corrente rispetto al contesto del momento, ma che quando la situazione migliorerà consentiranno veramente di rimettere in moto la macchina. Dobbiamo modificare la nostra concezione della mobilità, dell’urbanizzazione, del vivere insieme su un territorio, il che significa un altro modo di concepire i trasporti, il ruolo dell’automobile etc. Benissimo. Ma se sono un operaio di una fabbrica Fiat o, Peugeot o Renault, e mi si dice che la fabbrica chiuderà domani o che mi si riduce o azzera il mio reddito, sarei il primo a dire «non è questo il momento di parlare dell’automobile, dobbiamo parlarne tra dieci o venti anni».

E allora siamo in un vicolo cieco?

C’è un problema di temporalità, i problemi si pongono in momenti temporali diversi e anche questo rende molto difficile la situazione, perché è difficile proiettarsi sul lungo termine e salvare la pelle nel breve periodo. In primo luogo credo che non si debba accettare la decomposizione morale, qualunque siano le difficoltà economiche. E penso che tutte le forze di estrema destra, il razzismo, la xenofobia, gli attacchi ai diritti dell’uomo tutte queste cose meriterebbero una maggiore mobilitazione degli intellettuali. Non dobbiamo lasciare che elementi di xenofobia, razzismo, nazionalismo vengano veicolati attraverso tematiche economiche che fanno appello al protezionismo. Vediamo quello che è accaduto in Grecia con gli immigrati, in Francia con i rom: si va alla ricerca di capri espiatori. In secondo luogo bisogna anche reinventare o rinforzare soluzioni che contrastino questa assenza di democrazia. L’Europa è lontana dai cittadini: vista dalla Francia, la cosa è molto evidente. I cittadini francesi, come quelli degli altri paesi, non capiscono come funzionano le istanze europee, non hanno la percezione di essere rappresentati a Bruxelles. Sentono invece che a Bruxelles esiste una tecnocrazia che sovrasta tutta l’Europa che prende delle decisioni e che vengono poi imposte ai diversi Stati membri i quali trasformano le decisioni di Bruxelles in leggi, in regole che vengono imposte alle popolazioni che non hanno voce in capitolo. Bisogna invece che la rappresentanza politica fino al livello europeo sia percepita come una rappresentanza politica e non come un fenomeno del tutto estraneo, del tutto lontano.

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