Il racconto di Jirí Pelikán, l’ospite scomodo della sinistra italiana

Questo testo è tratto da “Io, esule indigesto. Il Pci e la lezione del ’68 di Praga”, Jirí Pelikán con Antonio Carioti (I libri di Reset, Marsilio, 2010, seconda edizione).

Dopo il 1968 il Pci e altri partiti comunisti occidentali sono stati posti di fronte a un problema che non avevano mai conosciuto, perché in precedenza i rifugiati politici dai paesi dell’Est erano sempre stati per loro degli avversari. Coloro che si erano battuti contro la rivoluzione bolscevica o le trasformazioni in senso socialista dell’Europa orientale erano considerati alleati naturali della destra e dei moderati. Viceversa, in seguito al soffocamento della Primavera di Praga lasciarono la Cecoslovacchia circa 200 mila profughi, molti dei quali erano comunisti espulsi dal partito durante la «normalizzazione». Alcuni, come me, avevano militato nel Pcc per decenni, ricoprendo incarichi dirigenziali.

Questo fenomeno mise in imbarazzo il Pci, perché dialogare con questi esuli, o magari accettarli nei suoi ranghi e appoggiarli, avrebbe determinato un grave conflitto con il regime di Praga, sostenuto a sua volta dall’Unione sovietica. Qui riemerge l’ambiguità della posizione assunta da Botteghe Oscure nell’agosto 1968: netto disaccordo rispetto all’invasione, ma estrema attenzione a non confondersi con la cosiddetta «propaganda antisovietica». In sostanza il Pci continuava a riconoscere all’Urss il ruolo di bastione delle forze di progresso rispetto alla minaccia imperialista. Perciò risultava ovviamente molto difficile ai comunisti italiani essere solidali al tempo stesso con gli aggressori e con le vittime. […]

Io sono l’unico ex dirigente del nuovo corso cecoslovacco emigrato in Italia. Altri andarono in Francia, nella Repubblica federale tedesca, negli Stati Uniti, dove incontrarono magari problemi d’altro genere. Non ero venuto a Roma per caso: ero intenzionato a curare i rapporti non ufficiali tra il Pci e i comunisti emarginati ed espulsi a Praga, informando i compagni italiani di quanto realmente avveniva nel mio paese. Non ero approdato in Occidente perché si viveva meglio che all’Est ma per continuare la battaglia politica contro la «normalizzazione». Quindi non potevo tacere, né rimanere passivo: avevo il dovere di dar voce a coloro che in Cecoslovacchia erano condannati al silenzio. Poco tempo dopo aver scelto l’esilio, scrissi una lunga lettera a Enrico Berlinguer, all’epoca già eletto vicesegretario del partito in seguito alla grave malattia che aveva colpito Longo, per spiegargli la mia posizione e offrirmi di collaborare nei modi che il Pci avesse ritenuto opportuni, senza interferire con la sua vita interna. Ma non ottenni alcuna risposta. Alcuni compagni comunisti si dissero disposti ad aiutarmi a trovare un lavoro per guadagnarmi da vivere, ma senza proseguire l’attività politica. Io replicai che la mia prima preoccupazione era combattere per le idee della Primavera di Praga ed era dunque questo lo scopo per il quale chiedevo il loro sostegno.

[Da quell’orecchio i dirigenti di Botteghe Oscure non ci sentivano.] Infatti trovai ascolto soltanto in altre forze della sinistra: innanzitutto nel Partito socialista, ma anche nel gruppo del «Manifesto», nel Partito radicale e nel Movimento politico dei lavoratori guidato dal cattolico Livio Labor, ex leader delle Acli. Fu proprio Labor a pubblicare un mio saggio in un volume dedicato al «socialismo dal volto umano» e ad aiutarmi a trovare i primi mezzi per far uscire Listy la rivista dell’opposizione socialista cecoslovacca. Il primo sostegno economico lo avevamo ricevuto dal direttore della Rivista Europea Giancarlo Vigorelli e dal pittore austriaco Eisler, che ci regalò il suo quadro intitolato Il compagno K, nel quale era raffigurato un uomo che fronteggia un muro con le braccia alzate. Si trattava di un omaggio al coraggio di Kriegel, l’unico dirigente cecoslovacco che si era rifiutato di sottoscrivere il diktat di Mosca nell’agosto 1968. L’autore ci disse che potevamo vendere la sua opera e con il ricavato finanziare la rivista. Ci rivolgemmo a Labor, che vendette il quadro a una banca per un milione di lire, all’epoca una somma consistente. Così potemmo stampare il primo numero di Listy all’inizio del 1970, nell’anniversario del suicidio di Jan Palach, il giovane che si era dato fuoco a Praga, in piazza Venceslao, per protestare contro l’occupazione sovietica, il 16 gennaio 1969.

L’atteggiamento dei socialisti italiani

Già il discorso pronunciato in Parlamento da Pietro Nenni al momento dell’invasione, nell’agosto 1968, aveva segnato una profonda differenziazione rispetto al Pci. A parte la condanna dell’intervento, faceva una critica approfondita al sistema sovietico come causa della tragedia cecoslovacca, rifiutando ogni atteggiamento compiacente verso l’Urss. Quando poi arrivai in Italia, ebbi subito la solidarietà del mio amico Carlo Ripa di Meana, nel frattempo passato dal Pci al Psi. Già durante il mio primo viaggio dopo l’intervento sovietico, nel settembre 1968, Ripa di Meana mi aveva inviato nella villa del suo amico Carlo Caracciolo, a Capalbio, dove mi aveva presentato Ugo La Malfa, Guido Carli, Susanna Agnelli, Cesare Garboli, con i quali avevo potuto consultarmi su come sensibilizzare l’opinione pubblica italiana sulla tragedia cecoslovacca. Quando poi venni a Roma nel novembre 1968, come consigliere d’ambasciata,fui chiamato da Bettino Craxi, con il quale rinnovai i contatti avuti all’epoca dell’attività studentesca. Voleva sapere che cosa si poteva fare per aiutare i riformisti in Cecoslovacchia, anche dopo l’invasione. Più tardi mi condusse da Nenni, che mi accolse a sua volta con calore e mi fece molte domande sulla situazione a Praga. Un grande interesse per la nostra causa dimostrò inoltre Riccardo Lombardi, che in varie occasioni rimproverò al Pci di non aver considerato suo dovere accogliere gli esuli cecoslovacchi come compagni e sostenerli nella loro battaglia. […]

Gli esuli scomodi al Pci

Io non voglio fare un processo retrospettivo ai comunisti italiani. E capisco che condannare Mosca era molto più facile per noi, costretti all’esilio dall’invasione sovietica, piuttosto che per chi doveva operare da comunista in un paese collocato nella zona d’influenza americana. Del resto il Pci era abbastanza diviso sulla questione del rapporto con l’Urss: ho assistito personalmente a discussioni molto vivaci tra compagni di opinioni diverse. Rimaneva forte il legame sentimentale con la stessa Armata rossa, i cui carri armati nel 1945 erano stato il simbolo della liberazione dal nazismo. E non era facile trasmettere ai comunisti italiani la nostra esperienza, perché vivere un trauma sulla propria pelle è molto diverso dal sentirlo semplicemente raccontare.

Anche noi avevamo creduto che il gruppo dirigente sovietico avrebbe potuto accettare un socialismo diverso, ma dopo l’agosto del 1968 questa illusione era miseramente caduta. Invece il Pci, come disse Giorgio Napolitano in un’intervista a la Repubblica del 13 dicembre 1980, «nonostante i gravi dissensi dopo Praga, intendeva portare avanti in piena autonomia un dialogo critico con l’Urss» e non poteva prescindere da «preoccupazioni e cautele» nei rapporti con il Cremlino. Giancarlo Pajetta, nel suo libro Le crisi che ho vissuto, sottolineava che il Pci aveva evitato «un collegamento diretto con l’opposizione» al regime di Husák, per non ingerirsi dall’esterno nelle faccende del Pcc e che io avrei potuto essere accettato nel Pci solo se avessi «rinunciato a condurre la lotta fra i cecoslovacchi e in Cecoslovacchia». Per dirla in sintesi, noi esuli provenienti da Praga eravamo scomodi, perché ricordavamo con la nostra presenza quanto era accaduto, mentre la tendenza naturale – non solo del Pci, ma anche della diplomazia occidentale – portava verso l’accettazione del fatto compiuto e il ripristino delle normali relazioni con il blocco sovietico. Apparivamo quasi un ostacolo alla distensione che tutti auspicavano.

… e non solo

I partiti di centro e di destra, nell’agosto 1968, condannarono duramente l’Urss a parole, ma non si impegnarono particolarmente per appoggiare la nostra lotta e accogliere i profughi cecoslovacchi. Incontrai molti esponenti democristiani, ma nessuno di loro occupava cariche importanti. Dissi che, se non volevano difendere noi comunisti dissidenti, avrebbero perlomeno dovuto sostenere i cattolici perseguitati dal regime di Praga. Ma non presero alcun impegno. E certi esponenti della Dc affermarono incredibilmente che non solo in Cecoslovacchia, ma addirittura nei paesi baltici annessi all’Urss c’era un grado soddisfacenti di libertà religiosa per i credenti.

Il nuovo corso di Praga, dalla speranza all’illusione

La speranza [che a Praga il processo riformatore potesse riprendere] inizialmente esisteva anche tra i comunisti cecoslovacchi, benché i pareri fossero discordi. Dubček, subito dopo l’invasione, pensava che si potesse salvare almeno una parte delle conquiste della Primavera di Praga, mentre un altro gruppo, di cui facevo parte anche io, insieme a uomini come Kriegel e Jaroslav Sabata, riteneva che l’imposizione del diktat di Mosca avesse chiuso ogni spazio per le riforme. Prevedevamo giustamente che di capitolazione in capitolazione avremmo perso tutto, perché non avevamo nessuna forza contrattuale per trattare con i sovietici. Il Pci, dal canto suo, comprensibilmente auspicava che avesse ragione Dubček e certo non poteva scavalcarlo in fatto d’intransigenza verso Mosca. […]

Fino ai primi mesi del 1969 un filo di speranza poteva forse avere delle giustificazioni. Ma dopo la caduta di Dubček il partito venne epurato e iniziarono le persecuzioni politiche. A quel punto non doveva essere chiaro che sul Pcc di Husák non ci si potevano fare illusioni e che con i suoi dirigenti non bisognava avere rapporti. è vero che il pci diradò molto i contatti con Praga, ma ciò nonostante continuò per qualche anno a inviare delegazioni in Cecoslovacchia, mentre i rappresentanti del regime imposto dai carri armati partecipavano regolarmente ai suoi congressi e alle feste dell’Unità. Nel settembre 1970 andò a Praga Cossutta, allora dirigente di alto rango. Secondo quanto risulta dai verbali dei colloqui, dichiarò che il Pci aveva «interrotto tutti i contatti» con gli esuli cecoslovacchi. Inoltre biasimò «debolezza ed errori» di Dubček e sottolineò che Botteghe Oscure non sollecitava la partenza delle truppe sovietiche: «Non siamo mai arrivati a una simile provocazione – disse – e non l’abbiamo mai accettata. Esiste un accordo ed è un problema vostro». Solo anni più tardi tra i due partiti si creò un clima di notevole freddezza e quasi di ostilità.

La dipendenza economica del Pci dall’Est

I rapporti finanziari tra il Pci e il blocco sovietico si svolgevano su diversi piani. In primo luogo c’era un fondo di solidarietà per i partiti comunisti e i movimenti di liberazione di tutto il mondo, al quale ciascun paese alleato dell’Urss doveva partecipare con una propria quota. Pensava poi Mosca a ripartire le somme stanziate tra i diversi destinatari. In un’intervista al Corriere della Sera del 6 ottobre 1997 Gianni Cervetti, che per un certo periodo si occupò della faccenda, ha detto che al Pci fino al 1978 arrivavano «fra i quattro e i cinque milioni di dollari all’anno, quasi dieci miliardi di lire». Un’altra forma di sovvenzionamento era collegata alle organizzazioni per l’amicizia con i paesi socialisti. Per esempio Praga erogava all’associazione per l’amicizia italo-cecoslovacca un sostanzioso contributo, una parte del quale finiva nelle casse del Pci. Poi c’era il capitolo dei rapporti commerciali: gli imprenditori che volevano lavorare con l’Est ottenevano le autorizzazioni necessarie soltanto a patto che destinassero una parte dei loro profitti, come una sorta di provvigione, ai partiti comunisti dei rispettivi paesi. Vari progetti di aziende italiane passavano anche attraverso la mediazione, ben remunerata, di Botteghe Oscure. Infine bisogna considerare l’attività delle cooperative rosse, le cui relazioni economiche con l’Urss e i paesi satelliti erano molto intense. Conversando privatamente con me, alcuni esponenti del Pci ammettevano che una condanna più netta della politica sovietica sarebbe costata carissima al loro partito.

Craxi, il referente principale nella sinistra italiana

Craxi e i suoi amici socialisti s’interessarono alle attività dell’opposizione cecoslovacca con grande sollecitudine e mi aiutarono concretamente sin dal mio arrivo in Italia. Più tardi Ripa di Meana mi raccontò di aver ricevuto nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 una telefonata di Craxi, che lo avvertì dell’ingresso dei carri armati sovietici a Praga e gli disse: «Dobbiamo subito metterci in contatto con Jirí Pelikán». Altri esponenti del Psi erano molto più freddi verso la causa del dissenso all’Est. Per esempio Federico Coen mi ha raccontato che al Congresso socialista di Genova, nel 1972, venne respinta la proposta di farmi sedere al tavolo della presidenza.

Nel dicembre 1972, quando un convegno sulla Primavera di Praga venne organizzato a Bièvre, presso Parigi, dal comitato «5 gennaio» (un gruppo di comunisti francesi che aveva preso il nome dalla data del Comitato centrale del Pcc in cui era stato eletto Dubček nel 1968), nessuno degli esponenti del Pci inviati si fece vivo. Invece Craxi partecipò accompagnato da Martelli. E di fronte a quei compagni del Pcf, che esprimevano la loro protesta contro la politica filosovietica di Georges Marchais, pronunciò un discorso molto energico. «Molti partiti comunisti dell’Europa occidentale – disse Craxi – manifestarono a suo tempo la loro adesione ai principi e alle idee del nuovo corso cecoslovacco, diedero ospitalità sulla propria stampa agli esponenti più autorevoli della Primavera di Praga, in sostanza ne condivisero l’orientamento politico di fondo. Oggi quegli uomini o sono perseguitati in patria o sono esuli. Hanno i comunisti italiani, francesi, inglesi la volontà di aiutarli, di continuare a sostenere la loro lotta?»

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