Istanbul, un viaggio nella comunità
dei rifugiati siriani

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Nella notte del fallito golpe hanno tremato anche loro. Anzi, il rumore degli F16 nei cielo di Istanbul ha costretto il piccolo Andil a correre sotto il secchiaio, mettersi le mani attorno alle orecchie e trattenere il fiato fino alla fine. “Per fortuna che è durato poco e che dopo qualche minuto, il pianto angosciato di mio figlio è diventato liberatorio. In Siria questi momenti duravano giornate intere” dice la mamma di Andil. Suo marito non si vede, ma acconto a lei c’è il fratello, Khaled Abd al-Aziz, un siriano che quando è arrivato a Istanbul ha deciso di creare una scuola per tutti i suoi giovani connazionali che a causa della guerra civile sono scappati dalla loro patria per trovare rifugio altrove. Secondo le cifre ufficiali, sarebbero 2,7 milioni i siriani arrivati in Turchia dal 2011 ad oggi, un fiume in piena che è entrato in un Paese già scosso da una serie di turbolenze interne. “Prima di arrivare a Istanbul, quando sono scappato dalla Siria ho trascorso un lungo periodo nella parte di Turchia ai confini con il mio paese e lì ho visto tantissimi bambini lavorare. E più li osservavo più vedevo che diventavano aggressivi. Per questo mi sono ripromesso di creare una scuola” procede Khaled.

La Al-Nokba Siryan School che ha costruito a Balat, quartiere nell’area di Fatih densamente popolato da siriani, è un piccolo paradiso terrestre che cerca di riportare sui banchi di scuola qualche decina di quei 485 mila siriani che in Turchia non hanno trovato un posto dove studiare. Entrando si trova pace e si respira tranquillità. Proprio quello che mancava ai siriani che sono qui quando sono scappati dal loro Paese. “I genitori mandano in queste scuole i loro bambini perché sperano di poter tornare in Siria e ci tengono che i loro figli seguano i programma didattici siriani. E poi entrare in uno scuola pubblica turca non è facilissimo. Oltre alla barriera linguistica e al rifiuto degli altri genitori (in realtà sono pochi i casi di razzismo denunciati, ndr), ci sono altri problemi. A causa della loro fuga, nel migliore dei casi i siriani hanno perso almeno un paio di anni di scuola e la loro preparazione non può corrispondere a quella degli studenti turchi” risponde Khaled quando gli viene chiesto se scuole come la sua non rischiano di aiutare la creazione di ghetti che non favoriscono l’integrazione di una fetta di popolazione che difficilmente riuscirà a tornare in Siria. E a Balat, quella di Khaled non è l’unica scuola siriana o l’unica organizzazione non governativa che lavora per aiutare questi rifugiati.

Durante una missione organizzata dall’Istituto Affari Internazionali, l’Istanbul Policy Center e il tedesco Mercator Stiftung, il viaggio a Balat diventa una scoperta del microcosmo siriano nel macrocosmo dell’immigrazione in Turchia. Tanti i community center fondati da volontari che si impegnano per sottrarre alla strada e alla violenza donne e bambini, aiutando i capi famiglia a cercare un lavoro e assistendo i minori affetti da disturbi psichiatrici, nella maggioranza dei casi da natura post traumatica. Cose non facili e complicate dal limbo legale nel quale vivono i siriani. Anche se Ankara non ha garantito loro lo stato di rifugiati, chiamandoli ospiti che godono una protezione temporanea, il 2 giugno scorso il presidente Racep Tayyp Erdogan, da anni strenuo oppositore di Assad, ha sorpreso tutti, annunciando di essere pronto a dare ai siriani la cittadinanza. Anche se i dettagli di questo annuncio, passato praticamente in sordina all’interno della comunità siriana, sono ancora sconosciuti, l’inizio di questo eventuale processo, per ora prematuro, mostrerebbe l’intenzione delle autorità turche di trattare la migrazione dei siriani nel loro Paese non come un evento emergenziale, ma come un fenomeno di lungo periodo, probabilmente destinato a incidere sul futuro del Paese, magari anche sulla sua economia. I dati precisi sono ancora pochi, ma un influsso c’è e guardando le varie attività messe in piedi dai siriani a Istanbul, è facile scommettere che questo cresca.

Quanto invece è più dibattuto, perché meno chiaro, è fino a che punto la Turchia possa essere considerato un Paese sicuro per i rifugiati siriani. Questo dibattito, già trattato su questa rivista da Bianca Benvenuti, si trascina se non altro dalla firma del tanto discusso accordo con il quale, lo scorso marzo, la Turchia si è impegnata a chiudere ai siriani le frontiere verso la Grecia, e quindi l’Unione europea, in cambio di 3 milioni di euro da usare per la loro gestione ad Ankara e dintorni. Oltre ai dubbi sulla tenuta legale di questo accordo, che in alcuni aspetti stride con quella parte del diritto internazionale che tutela rifugiati e richiedenti asilo, l’intesa sembra basarsi sulla convinzione che la Turchia è un Paese terzo sicuro per i siriani, assunto tutt’altro che condiviso da accademici e operatori sul campo. “Per Paese sicuro si intende un Paese in grado di rispettare e salvaguardare i diritti dei rifugiati, garantendogli al contempo una vita lontana da pericoli” dice Ahmet Icduygu, professore della Koc University e autore di un saggio sul tema. “Ora che la Turchia non è un Paese sicuro neanche per i turchi il discorso è più complicato” conclude, elencando le vulnerabilità alle quali i siriani attualmente in Siria sono esposti: difficoltà nelle procedure di registrazione legali, fatica a trovare un lavoro regolare e duraturo, complicato accesso al sistema sanitario e a quello dell’istruzione.
Tutto questo è complicato dal fatto che quasi tutti i 7,6 milioni di dollari spesi da Ankara per i rifugiati sono stati utilizzati per la costruzione dei 25 campi profughi sparsi nel Paese. Strutture, non a torto, giudicate tra le migliori del mondo, per la qualità delle strutture e la manutenzione. Quanti hanno avuto occasione di visitare altri centri di accoglienza, in Italia e in altri Paesi della regione, resteranno sorpresi nello scoprire che qui ci sono strade pavimentate, servizi igienici in ottime condizioni, scuole e addirittura negozi. Ciononostante, solo il 36% dei rifugiati siriani vive in queste strutture. Tutti gli altri, nel 2014 addirittura l’85% del totale, vivono in abitazioni private in aree urbane dove il contributo dello stato è quasi del tutto assente, rendendo nei fatti più complessa la loro quotidianità.

La questione centrale sembra quindi quella di capire come rispondere a queste criticità che dovrebbero preoccupare non solo la Turchia, ma anche l’Unione europea, con la quale Ankara dovrebbe condividere la responsabilità su questi siriani fermi in Turchia perché quando hanno bussato alle nostre porte gli abbiamo sbattuto la porta in faccia. Come può l’Europa, soddisfatta del lavoro fatto da Ankara dopo la firma dell’accordo, aiutare la Turchia a diventare un Paese sicuro al 100% per i siriani? E qualora la situazione nel Paese dovesse degenerare, divenendo ancora più instabile e pericolosa, saremmo pronti a prenderci carico di questi rifugiati? Sono domande come queste, quelle che emergono passando da una scuola a un campo profughi, da un community center al quartiere generale di una Ong turca nel pieno del lavoro. Fa male ammetterlo, ma tra populismo, islamofobia, razzismo, emergenzialismo, filo spinato e nuovi muri, le immagini degli europei che accolgono a braccia aperte i siriani alla fine della loro odissea sono brevi frammenti destinati a rimanere nella memoria di pochi. Passeggiando tra le strutture di accoglienza italiane, qualche giorno dopo la missione turca, difficile non concludere che i tanti siriani di Istanbul sono trattati più umanamente dei pochi arrivati in Italia, ai quali a volte è stata sottratta anche la dignità.

Vai a www.resetdoc.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *