India, un modello per le nuove democrazie arabe

Dall’India Rajeev Bhargava affaccia un tipo di laicita’ diversa rispetto al modello europeo e a quello americano. La chiama “distanza con principi”. Vediamo di che si tratta. I diritti delle minoranze e possono essere garantiti in una democrazia “religiosa”? I popoli della primavera araba potrebbero presto dover scegliere tra diversi “modelli” di democrazia: sceglieranno di vivere in una democrazia secolare? Se sì, quale? Per rispondere a queste domande, ci siamo rivolti proprio a questo intelettuale di Delhi, dove dirige il Centre for the Study of Developing Societies. Già Professore alla Jawaharlal Nehru University e Direttore del dipartimento di scienze politiche dell’università di Delhi, ha insegnato in molte università internazionali, tra cui Harvard e Columbia. Al centro del suo lavoro sono il secolarismo, la multiculturalità, la teoria politica e la democrazia.

Vorrei chiederle innanzi tutto di spiegare la sua concezione di laicità. Quest’ultima, accanto al multiculturalismo, è ormai da anni al centro della sua riflessione. Attingendo alla straordinaria esperienza di pluralismo dell’India e a quello che può essere definito il “modello indiano”, lei ha affrontato molte delle critiche rivolte al concetto di laicità da diversi punti di vista. L’area del mediterraneo sta oggi vivendo profondi cambiamenti. La cosiddetta “Primavera araba” ha avvicinato la regione alla democrazia, ma il concetto stesso di laicità – complice il fatto che i vecchi regimi erano a loro volta laici – sembra entrato in crisi. Che cosa può essere una “democrazia religiosa”?

Credo che vi siano due concezioni di laicità, nate entrambe in Occidente e ormai diffuse in tutto il mondo. Nel primo caso, la laicità è concepita come la separazione tra Stato e religione. Nel secondo, essa è intesa come una separazione “a senso unico” della religione dallo Stato, per cui quest’ultimo deve essere libero di interferire nella sfera religiosa. In altre parole, la religione dev’essere tenuta fuori dallo Stato, ma lo Stato non si tiene fuori dalla religione. Lo Stato deve controllare la religione, perché quest’ultima è una fucina di superstizione e oscurantismo e si nutre di emozione, passione ed esaltazione; è un fenomeno arcaico, primitivo e antiscientifico. Lo Stato deve quindi riservarsi il diritto di interferire nelle questioni religiose, mentre la religione non dovrebbe mai interferire nelle faccende dello Stato.
Ora, tale concezione presuppone un atteggiamento antireligioso. Se ne è avuta spesso (ma non sempre) dimostrazione in Francia, così come nell’Unione sovietica, in Cina e in Turchia. Il modello in questione si è diffuso un po’ ovunque, ma è evidente come, almeno per il momento, l’idea antireligiosa non possa essere accettata nel mondo arabo. In quel contesto, infatti, l’influenza della religione è molto forte e la democrazia assume una profonda valenza religiosa.

Questa concezione della laicità non ammette in alcun modo l’idea di una “democrazia religiosa”.

Proprio così. È un modello di laicità incompatibile con la prospettiva di una democrazia religiosa. In questo caso, la democrazia dev’essere laica, nel senso che la religione va tenuta fuori dalla sfera pubblica, o almeno da quella politica. Ovviamente il mondo arabo non può accettare tutto ciò.
Anche l’altra concezione della laicità è piuttosto diffusa. Si tratta del modello jeffersoniano, secondo cui la religione dev’essere tenuta fuori dallo Stato e dalla politica, e lo Stato dev’essere tenuto fuori dalla religione. Anche in questo caso la religione è considerata una faccenda esclusivamente privata: gli individui possono associarsi volontariamente e dar vita a un’organizzazione religiosa o aprire una chiesa, in ossequio al principio della libertà confessionale e del massimo pluralismo, ma lo Stato non può prendere alcuna iniziativa a favore o contro la religione. Se ne tiene semplicemente fuori.
Il primo elemento da tener presente è che questi due modelli non possono essere adottati nel mondo arabo, perché le sue società propendono per un più stretto legame tra Stato e religione. E non accetteranno l’idea di una totale separazione tra Stato e religione, né il principio secondo cui il primo non deve aiutare né ostacolare la seconda. Certo è che per molti cittadini di quei paesi si pone un problema concreto.
Il secondo elemento è che il mondo arabo rifiuta, e giustamente, non solo quei due “modelli”, ma anche l’idea di una laicità autoritaria. Se i dittatori militari erano “laici”, infatti, il loro autoritarismo ha compromesso l’idea stessa di laicità. La laicità autoritaria e dittatoriale non può più funzionare, perché è incompatibile con la democrazia. In passato forme analoghe di laicità sono state adottate anche altrove: la Francia è spesso andata in quella direzione, ma senza spingersi abbastanza in là, e così pure la Turchia di Atatürk. L’Unione sovietica e gli ex paesi comunisti si rifacevano esplicitamente a questo modello. Ed è noto che la Cina della Rivoluzione culturale vide la distruzione di moltissime istituzioni religiose. Così, anche il terzo “modello” di laicità è fuori discussione.

Un elemento comune alle teorie liberali su quella che dovrebbe essere una buona organizzazione dello Stato è la libertà di religione. Il modello americano non è una buona soluzione? Lo Stato è aperto a tutte le religioni, ma adotta un atteggiamento neutrale nei loro confronti. Nelle società in cui la stragrande maggioranza dei cittadini appartiene a un’unica religione, tuttavia, la situazione è diversa. In questo caso, la sfida riguarda il futuro della libertà di religione. Si può anche accettare l’idea di una democrazia di ispirazione religiosa, ma che ne sarà delle minoranze all’interno di quelle società?

È importante che le nuove democrazie non rimangano democrazie religiose. In quei paesi, infatti, la “democrazia religiosa” vorrebbe dire una democrazia maggioritaria, e cioè una minaccia non solo per le minoranze, ma anche per alcuni settori della maggioranza stessa.
Ma torniamo al punto precedente. Se nelle società arabe queste forme “altre” di laicità non possono essere adottate, neppure la prospettiva di uno Stato religioso – che sia democratico o meno – rappresenta una valida opzione. Non so se quei paesi possano optare per una soluzione del genere, ma credo che essa non raccoglierebbe il consenso unanime dei loro cittadini. L’intellighenzia laica e liberale in molti dei paesi della Primavera araba non accetterebbe una democrazia puramente religiosa. In Egitto, per esempio, i liberali laici si sono sempre opposti a quel tipo di religione egemonica e maggioritaria. E so per conoscenza diretta che sono in gran parte favorevoli a uno Stato laico.

In molti casi, tuttavia, non accettano il termine “laico”: preferiscono parlare di “Stato civico” o di società civile.

Questo è un aspetto fondamentale del problema. Il punto è: che tipo di Stato dovrebbero avere le nuove democrazie? E quale dovrebbe essere il rapporto dello Stato con la religione? In condizioni ideali, lo Stato non dovrebbe promuovere l’Islam; ma mi rendo conto che è un’affermazione molto forte. In ogni caso, lo Stato non dev’essere troppo legato all’Islam, per non dare l’impressione di favorire solo quella religione. Da laico, avrei difficoltà a credere che in uno di quei paesi possa affermarsi un buono Stato democratico, se le sue istituzioni sono apertamente schierate a favore di una particolare religione, e cioè l’Islam. Non insisterò su questo punto, ma il mio ideale di Stato è diverso.
Per quanto concerne la separazione tra istituzioni statali e religiose, credo che nei paesi arabi sia vista con generale favore. I religiosi possono far parte di istituzioni politiche, così come i politici possono far parte di istituzioni religiose, ma le une dovrebbero restare ben distinte dalle altre, secondo il vecchio principio della separazione tra Stato e Chiesa. E ho l’impressione che tutti siano disposti ad accettare un cambiamento in questo senso.

Ma si può accettare il riconoscimento della Shari’a nella costituzione egiziana? Ci si potrebbe dire favorevoli a una scelta del genere, dato che anche la religione cattolica è stata riconosciuta nella costituzione italiana, e quella anglicana nella costituzione britannica. Ma la vera questione è: che ne sarà delle libertà religiose, della parità di diritti dei copti?

Il problema sta tutto lì. In condizioni ideali, lo Stato dovrebbe seguire una politica basata su quella che ho definito come la “distanza di principio”. Esso può impegnarsi o disimpegnarsi rispetto alle religioni; e può impegnarsi positivamente o negativamente. Si impegna “positivamente” quando le aiuta, le sostiene e le sovvenziona, e “negativamente” se, nel caso di episodi di oppressione all’interno di una comunità religiosa, interviene per fermarli. Così, i diritti fondamentali delle donne devono essere tutelati anche se sono ignorati o respinti dalla Shari’a, e ciò è possibile solo con una presa di posizione da parte dello Stato.
Lo Stato dovrebbe aiutare i soggetti più vulnerabili. Nel caso dell’Egitto, per esempio, dovrebbe sostenere i copti, perché la maggioranza sociale e religiosa è potenzialmente ostile nei loro confronti. O per lo meno le istituzioni politiche dovrebbero tener conto di quel rischio e adottare determinate misure di protezione e tutela, in modo che i membri delle minoranze possano sentirsi al sicuro e vivere come cittadini uguali agli altri e non di seconda classe. In condizioni ideali, lo Stato dovrebbe provvedere alla difesa dei diritti minoritari dei copti e al sostegno, anche economico, di tutte le religioni. Perché ciò sia possibile, tuttavia, lo Stato deve quanto meno apparire imparziale, e cioè non schierarsi ufficialmente con alcuna religione.

Stiamo entrando nella zona grigia dei compromessi tra i puri principi libertà e neutralità da un lato e la realtà dall’altro… Il modello indiano può aiutare a fare chiarezza su questa apparente contraddizione?

Sì, ma occorre fare un passo indietro. Il principio fondamentale del “modello indiano” di laicità, che nega l’istituzionalizzazione di qualsiasi religione, compreso l’induismo, oggi non può essere accettato dai paesi arabi. Credo che questi ultimi opteranno piuttosto per uno Stato islamico o una democrazia islamica. Più che al modello indiano, si ispireranno probabilmente a quello britannico o a quello danese, che contemplano ancora forme di istituzionalizzazione della religione.
Ciò nonostante, a me sembra che i paesi arabi siano disposti ad accettare la separazione delle istituzioni, come avviene in India e in molti altri paesi del mondo. Sul piano politico e legislativo, tuttavia, non dovrebbero seguire a mio avviso il modello americano, né quello francese, basato sul controllo della religione, su un atteggiamento antireligioso e su una totale indipendenza della religione dallo Stato, per cui quest’ultima può contare solo sul sostegno della società civile.
È in questo senso che il modello indiano può assumere un’importanza fondamentale. Lo Stato dovrebbe mantenere il potere di interferire “negativamente” con le istituzioni religiose nel momento in cui queste ultime violano i diritti fondamentali dei cittadini, o qualora la religione dominante opprima i gruppi minoritari. E dovrebbe avere la facoltà di manifestare la propria ostilità alle pratiche religiose che ledono i diritti umani universali. Sta proprio qui la differenza tra il modello indiano e quello americano.
Diversamente dal modello francese, ma in conformità con quello indiano, i paesi della Primavera araba dovrebbero riconoscere e sostenere la religione, sovvenzionando le scuole gestite da comunità religiose e provvedendo alla tutela di minoranze come quella copta. Lo Stato dovrebbe finanziare sia le scuole musulmane sia quelle non musulmane, secondo un principio di imparzialità. Le scuole confessionali non dovrebbero dipendere esclusivamente da finanziamenti privati. Se i paesi arabi seguiranno lungo questa linea il modello indiano, nessuno avrà l’impressione che lo Stato sia parziale.

E come affrontare la questione delle preghiere nelle scuole e delle differenze a livello di costumi e abitudini alimentari?

Per quanto riguarda le preghiere, ci sono due possibilità. La prima è escluderle del tutto dalle scuole, ma al momento non mi sembra un’ipotesi praticabile nelle società arabe. L’altra è mantenerle, ma esonerare le minoranze dal parteciparvi. Se, per esempio, in una scuola pubblica finanziata dallo Stato è prevista la recita della preghiera islamica, i copti non dovrebbero essere obbligati a prendervi parte.

Cosa intende esattamente per “distanza di principio”?

La “distanza di principio” si contrappone all’idea che lo Stato debba essere totalmente separato dalla religione. In questo caso, l’obiettivo non è la separazione ma una distanza che permetta allo Stato di essere imparziale, misurandosi con la religione o decidendo di non avere niente a che fare con essa a seconda delle circostanze. Questa distanza è di principio, ossia non deve essere usata per scopi opportunistici, ma in ottemperanza a determinati valori, in particolare la libertà di religione, la non discriminazione e/o esclusione per motivi religiosi e la garanzia dei diritti di cittadinanza a prescindere dall’appartenenza confessionale. I due principi fondamentali sono la parità di cittadinanza e la libertà di religione.
Se quei principi entrano in conflitto si può cercare una sorta di equilibrio o compromesso, e tale opportunità costituisce uno dei capisaldi dell’idea di “distanza di principio”. Quando non c’è alcun conflitto, tuttavia, lo Stato dovrebbe andare avanti e cercare di dare attuazione a entrambi i principi. È l’unico modo, questo, per non alimentare lo scontento tra le minoranze, che possono così vedersi riconosciuti pieni diritti di cittadinanza e avere scuole in cui poter insegnare liberamente la propria religione. In condizioni ideali, i copti e le altre minoranze dovrebbero essere tenuti al riparo da leggi e politiche statali che si sono rivelate contrarie alla loro fede religiosa. Se gli Stati non agiranno in tale direzione, le loro società saranno sempre pervase dal malcontento. Occorre difendere la libertà religiosa. Lo Stato può sancire l’obbligo per ogni musulmano di raccogliersi in preghiera cinque volte al giorno, ma non costringere le scuole copte a osservarlo. È un elemento da tenere ben presente.
Non meno importante del principio di libertà religiosa è la parità di cittadinanza. Al di fuori della sfera religiosa, per esempio, il diritto di voto non dovrebbe essere vincolato all’appartenenza confessionale dei cittadini. I copti, i musulmani e i membri di tutte le minoranze religiose dovrebbero poter votare, deliberare su questioni di interesse generale e candidarsi alle più alte cariche pubbliche del proprio paese. Un copto deve avere le stesse opportunità di qualsiasi altro cittadino di competere ed essere eletto nel suo Stato. Se tale principio non viene osservato, vuol dire che non c’è democrazia.

Alla luce di tutto ciò, è ottimista circa le prospettive di sviluppo della democrazia nel mondo arabo?

La gente non è mai pienamente consapevole delle implicazioni delle proprie azioni e aspirazioni. Solo quando si trova di fronte a laceranti contraddizioni è costretta a una scelta. Dopo aver scoperto che c’è un’enorme differenza tra l’autoritarismo e la democrazia, i cittadini del mondo arabo hanno scelto quest’ultima. È per l’ideale democratico che hanno dato vita alla Primavera araba e continuano a battersi. Gli stessi cittadini, tuttavia, non comprendono appieno le implicazioni della democrazia. Pensano che liberandosi dei dittatori e mandando al potere i loro rappresentanti potranno godere di sufficiente libertà e instaurare una forma di autogoverno.
L’affermazione della democrazia metterà in moto una dinamica di cambiamento che incontrerà una certa resistenza da parte di alcuni settori della popolazione. Molti si opporranno al processo democratico, pur essendosi opposti anche all’autoritarismo, e una volta conquistato il potere cercheranno di tenere sotto scacco la democrazia. A quel punto sorgeranno inevitabilmente nuovi conflitti, e si andrà avanti di questo passo. Non credo che il mio ideale di laicità improntata alla “distanza di principio” possa essere accettato nel mondo arabo, almeno non nell’immediato. Ma c’è motivo di sperare che quei paesi adottino una qualche forma di laicità. Non so dire quando averrà tutto ciò, ma sul lungo periodo sono ottimista. Forse parlando del “modello indiano” in termini nazionalisti si rende un cattivo servizio al modello stesso, lasciando intendere che esso sia riservato esclusivamente agli indiani e inaccessibile a tutti gli altri, se non per imitazione.

Il modello attualmente adottato in Turchia potrebbe essere una valida alternativa?

Forse sì, se il modello turco si rivelerà efficace e saprà garantire la tutela dei diritti delle minoranze. Non so quali siano le attuali condizioni della comunità alevita e delle altre minoranze in Turchia. Credo che i fautori della laicità si trovino bene, anche se molti aleviti laici non offrono un quadro rassicurante della situazione.

Il banco di prova della democrazia è il rispetto dei diritti delle minoranze?

Sicuramente, e per due ragioni. La diffusa disponibilità a garantire la libertà religiosa alle minoranze non è una prova di democrazia: è il requisito indispensabile di qualsiasi Stato degno di questo nome, che sia democratico o meno. In passato, molti Stati hanno garantito la libertà religiosa alle minoranze. Oggi, tuttavia, in condizioni democratiche, queste ultime non si accontentano della libertà religiosa: chiedono pari diritti di cittadinanza. È proprio questo il senso della democrazia. E fino a quando le minoranze non godranno di tali diritti, difficilmente si sentiranno al sicuro. L’altra finalità della democrazia è infatti la garanzia della sicurezza di tutti i cittadini. Non mi riferisco alla sicurezza in senso militare, ma a un autentico senso di sicurezza politica e sociale nella sfera pubblica. La sicurezza di chi può scendere in piazza, competere in un’elezione ed esprimere la propria opinione senza sentirsi minacciato perché non appartiene alla religione maggioritaria.
Onestamente non conosco le società in questione abbastanza bene da poter dire con certezza che cosa succederà. Ma ho l’impressione che il processo avviato si rivelerà problematico. È triste e doloroso constatarlo, ma molti degli attuali sostenitori della democrazia prima o poi si rivolteranno contro quest’ultima. Non pochi hanno partecipato al processo democratico per opportunismo e solo perché ostili ai vecchi regimi militari e dittatoriali. O addirittura facevano parte di quei regimi e se ne sono dissociati. Si sono uniti ai democratici, ma quando andranno al potere cercheranno di manipolare la democrazia per piegarla ai propri interessi. I veri democratici si sentiranno feriti e turbati, senza rendersi bene conto della situazione. È bene che tutti i cittadini dei paesi in questione comincino a prepararsi a questo scenario. Gli stessi cittadini, tuttavia, avere le idee chiare su quello che vogliono e possono fare. Sono convinto che tale lucidità di vedute possa essere raggiunta imparando dalla propria esperienza, ma anche ignorando certe concezioni ormai superate e obsolete. E, se necessario, seguendo l’esempio di altri paesi, come l’India e la Turchia. Dopo tutto, al di fuori del mondo arabo ci sono molti Stati democratici a maggioranza musulmana. Basti pensare al Bangladesh, all’Indonesia e per certi versi anche al Pakistan (anche se quest’ultimo è un caso piuttosto problematico).

(Traduzione di Enrico Del Sero)

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