Il progetto A tavola con le religioni
Alcuni dati

Benvenuti in Italia, in collaborazione con Mensa Civica e grazie al sostegno del consorzio Risteco e della fondazione svizzera Fondation Charles Léopold Mayer pour le Progrès de l’Homme, dal 2013 ha promosso una ricerca europea, a partire dai casi studio di Torino e Zaragoza: À table avec les religions, un progetto di analisi e proposta relative al rapporto tra alimentazione nelle mense scolastiche e pluralismo religioso.

La domanda che ha mosso la ricerca è relativa all’adeguatezza delle mense ad affrontare le richieste, i bisogni alimentari provenienti da diverse culture religiose differenti, legate – ma non solo – alle migrazioni e alle interazioni sociali e culturali che animano la nostra società. Nell’ottica di un continuo miglioramento dei servizi di ristorazione scolastica, alcuni comuni di numerose città europee e italiane hanno scelto di promuovere la definizione di regimi alimentari in grado di rispettare le prescrizioni religiose e culturali in materia di cibo di tutti gli utenti, considerata la complessa composizione dei destinatari del Servizio. Infatti, anche il consumo del pasto può attivamente contribuire all’integrazione dei gruppi sociali e culturali, fungendo così da tramite di comunicazione e da strumento di inclusione, coesione sociale e culturale [1].

Il lavoro è stato strutturato sulle seguenti attività cardine:

  • ricerca teorica sul legame tra cibo ed identità, con attenzione agli aspetti individuali, comunitari, storici e religiosi;
  • mappatura delle esigenze alimentari delle tradizioni religiose che i bambini rappresentano nella scuola;
  • indagine sugli aspetti nutrizionali, economici e ambientali del cibo somministrato a scuola: utilizzo di prodotti territoriali e “culturalmente sensibili”, impatto sull’ambiente delle diverse particolarità alimentari legate alle religioni;
  • mappatura dei servizi della mensa scolastica, in Italia e nei principali paesi europei;
  • segnalazione di casi di good practices legati a iniziative e sperimentazioni in materia di nutrizione a scuola ed educazione al pluralismo culturale/religioso;
  • inchiesta tramite somministrazione di un questionario semi-strutturato, sulle necessità alimentari religiose dei bambini di 6 scuole elementari di Torino, Roma e Zaragoza.

Il progetto ha sin qui coinvolto:

  • 6 scuole elementari (Italia e Spagna);
  • 2.102 studenti elementari e famiglie;
  • 848 famiglie sottoposte a inchiesta.

Tra gli sviluppi possibili di questo progetto, vi è la necessità di capire come valorizzare le differenti abitudini alimentari – legate a culture e stili di vita plurali – così da fare assaggiare a tutti dei pasti “religiosamente” corretti; inoltre, occorre capire come trasformare delle ricette tipiche con prodotti locali per renderle accettabili anche a quanti non possano mangiarne a causa di divieti legati a religioni; occorre sperimentare, all’interno di mense attive ed attrezzate i menù e le proposte sviluppate, per vagliarne la praticabilità in termini organizzativi, economici, gustativi; un ultimo passo che potrà compiersi è quello di diffondere conoscenze, buone abitudini e sperimentazioni concrete in materia, così da divulgare quanto più possibile la cultura del rispetto tramite il riconoscimento reciproco, attraverso la cucina e la tavola.

In questa sede ci concentriamo su due punti, in particolare, del progetto qui introdotto: la mappatura dei servizi mensa nelle scuole italiane, sottolineando le buone pratiche e con un focus sulla realtà torinese e i risultati dei questionari somministrati, anche in questo caso con un focus sui dati provenienti dalle scuole torinesi.

 

1. Una mappatura dei servizi: le mense scolastiche in Italia

Lo sviluppo di politiche alimentari e la promozione di pratiche nutrizionali il più possibile salutari sono uno degli scopi delle politiche pubbliche; sulla base dei dati raccolti, al fine di incoraggiare l’educazione alla salute il Ministero della Salute italiano promuove un sistema di monitoraggio delle mense scolastiche in collaborazione con il Governo, l’Istituto Superiore di Sanità, CNESPS Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute, le istituzioni regionali e locali e le scuole. Il programma, denominato OKkio alla Salute, ha promosso un’indagine biennale che nel 2012 ha coinvolto 2.622 classi scolastiche per un totale di 46.483 studenti (tra i 6 e i 10 anni d’età) e 48.668 genitori, su tutto il territorio nazionale [2]. L’indagine ha mostrato come il 10,6% dei bambini monitorati sia sovrappeso, dato che aumenta in modo considerevole nelle regioni del centro e del sud Italia. Sono stati registrati diversi comportamenti alimentari e non che rappresentano fattori di rischio per l’obesità infantile, la malnutrizione e la denutrizione; tra questi, l’abitudine di non fare colazione (9%) o di consumare cibi insalubri per colazione (31%), l’uso frequente di zuccheri (44%), la tendenza a non consumare verdure e frutta (22%) [4].

Dall’indagine emerge inoltre come la scuola sia fondamentale in materia di educazione alimentare e nel fornire dati attendibili per la produzione di politiche pubbliche, come si evince dalla tabella seguente:

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Le dottoresse Simona Ropolo, Aurelie Giacometto e Marcella Beraudi, nutrizioniste e dietiste del Comune di Torino [5], nel corso di un’intervista in merito, sottolineano tuttavia il carattere limitato dell’indagine OKkio alla Salute che, avendo raccolto e organizzato i dati a livello regionale, non è in grado di restituire informazioni puntuali sui singoli territori municipali: per quanto i dati raccolti siano di forte interesse, sono di aiuto relativo nel momento in cui tali istituzioni locali si trovino a produrre strategie concrete per i territori di competenza, spesso molto differenti l’uno dall’altro.

L’attuazione delle normative e direttive europee e nazionali orientate alla promozione dell’integrazione e al contrasto delle discrimnazioni culturali, etniche e religiose, dipende spesso nella pratica dalla sensibilità degli amministratori locali, chiamati a deliberare sull’effettiva praticabilità dei diritti di libertà d’espressione e di culto dei cittadini. Un processo che si sviluppa più agevolmente in ambito locale, dove anzi il progressivo consolidarsi di norme o prassi identitarie sfocia, talvolta, in un’esplicita violazione del principio di eguaglianza, tanto da potersi ritenere che vada diffondendosi a macchia di leopardo una vera e propria discriminazione istituzionale [6] nei confronti di alcune minoranze [7].

Sebbene un’indagine condotta da Slow Food [8], su richiesta del Comune di Pisa e su di un campione di 50 istituti scolastici italiani, abbia registrato che il 79% delle scuole italiane dotate di mensa offre possibilità di scelta tra menù alternativi o differenziati per motivi etico-religiosi, non pochi sono i casi di discriminazione derivante da rifiuto dichiarato o più semplice assenza del servizio.

Prima di addentrarci nella ricognizione dei casi individuati, proponiamo tre modelli distinti di risposta pubblica alle necessità alimentari di minoranze culturali e religiose, quali emersi dall’analisi dei casi scolastici:

  • modello di accoglienza familiaristico
  • modello di rifiuto ontologico
  • modello di rifiuto culturale-identitario

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1.1 Il modello di accoglienza familiaristico

Tale modello contiene tutte quelle esperienze locali che sono incentrate sul rapporto diretto tra l’istituzione scolastica o l’impresa di ristorazione e le famiglie degli studenti. Prevede l’obbligo, per le famiglie, della compilazione ed invio di modulistica per la richiesta di menù particolari.

L’applicazione di questo modello si configura come good practice, perché garantisce la libertà di espressione religiosa in accordo con i vincoli economici e logistici relativi al servizio mensa: accomunando di fatto le necessità alimentari di carattere fideistico a quelle di carattere etico-filosofico o medico-patologico, si amplia il ventaglio delle tutele ricorrendo a strategie di risposta al bisogno collaudate e istituzionalizzate, evitando così onerosi stravolgimenti organizzativi.
Quanto ai menù alternativi offerti, il ventaglio è quanto mai variegato; se l’accomunare motivi etici e religiosi è pratica assai comune, ben più differenziata è la soluzione individuata:

  • sistema a formule complete fisse, con possibilità di scelta tra menù predefiniti, che escludono determinati alimenti;
  • sistema ad indicazione puntuale degli alimenti non ammessi e delle loro alternative;
  • sistema misto, spesso comprendente formule complete fisse per patologie particolari o scelte etiche ed indicazione puntuale di alimenti ammessi e non per motivazioni religiose.

Al primo caso afferisce, ad esempio, l’esperienza del comune di Venezia, che offre (accanto alla dieta speciale per intolleranza o allergia alimentare) la possibilità di variazione di menù per motivi religiosi (esclusione di carne bovina/suina/prodotti lievitanti/altro) ed etici (dieta latto-ovo-vegetariana).

Una formula lievemente differente viene offerta dal comune di Moncalieri, che propone quattro menù differenziati:

  • menù normale;
  • menù vegetariano;
  • menù senza carne ma con pesce;
  • menù senza maiale e derivati.

Inoltre, è sempre garantita la possibilità di erogazione di diete speciali in funzione di specifiche patologie di tipo cronico o in casi di allergie ed intolleranze alimentari, oltre alla formulazione di menù conformi ad esigenze etnico-religiose e menù vegetariani. In entrambi i casi, il Comune precisa come la predisposizione delle diete speciali sia effettuata dalla dietista dell’Amministrazione Comunale, su richiesta delle famiglie, e debba essere controfirmata da un sanitario competente.

Se il servizio di mensa scolastica di Castelletto sopra Ticino accomuna a tutti gli effetti, pur citandole entrambe, necessità religiose ed etiche, formulando un menù a semplice esclusione di carne approvato dall’Azienda Regionale 13, Dipartimento di Prevenzione, Servizio di Igiene Alimenti e Nutrizione di Arona, il servizio che garantisce l’offerta più articolata appare, a questa prima analisi, quello del comune di Milano. A partire dal fatto che tutta la documentazione si può trovare in differenti lingue sul portale della società incaricata, Milano Ristorazione offre un sito completo di informazioni sui servizi offerti e di consigli dietologici per un’alimentazione sana (alimenti biologici, tracciabilità della filiera della carne – che viene somministrata 2 o al massimo tre volte alla settimana, stagionalità della frutta). Tra i numerosi progetti da segnalare promossi a Milano, vi sono senza dubbio i numerosi laboratori che coinvolgono sia i bambini sia le loro famiglie, nonché l’introduzione di prodotti legati a differenti culture e tradizioni, in settimane speciali.
Oltre al modulo per la richiesta di una terapia dietetica (in cui sono presenti venti tipologie di diete differenti) è presente la documentazione necessaria alla richiesta di un menù etico-religioso, di cui riportiamo di seguito un ritaglio:

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Molto interessante, in questa proliferazione delle proposte, una notizia del 10 marzo 2014: per sanare l’attuale impossibilità di fornire una dieta leggera temporanea agli utenti che già hanno assegnato un regime dietetico, Milano Ristorazione ha pensato a una rivisitazione del menù delle diete temporanee leggere (categoria 150: dieta leggera, max. 5 giorni). Lo stesso sarà composto esclusivamente da una giornata standard che si ripeterà per cinque giorni e dovrà prevedere alimenti compatibili con la maggior parte delle diete sanitarie/etico religiose. Milano Ristorazione inoltre elaborerà per ogni categoria di dieta e per ogni dieta personalizzata appositi menù “diete leggere temporanee” con le stesse modalità indicate al punto precedente. Si tratta di un tentativo di fare fronte a esigenze differenti e sempre più specifiche, cercando (anche) soluzioni comuni e condivisibili da differenti utenti.

Il comune di Lavagna è un buon esempio di sistema misto, che propone un modulo per la richiesta di diete speciali predeterminate (per allergie/intolleranze alimentari o per malattia metabolica (come diabete o obesità) o di esclusione (fauvismo, celiachia, fenilchetonuria, glicogenosi) e un modulo per la richiesta di variazione del menù per motivi religiosi, nel quale è possibile indicare:

  • la religione di appartenenza;
  • gli alimenti esclusi;
  • gli alimenti alternativi.

I principi ispiratori e la missione stabilita dal Comune sono ben espressi nella pagina del sito internet dedicata alla mensa scolastica, dove si legge: «La scuola, luogo deputato alla formazione dell’uomo e del cittadino, non può esimersi dal compito di promuovere, attraverso un’attività di educazione alimentare a partire dai servizi educativi della primissima infanzia, un uso corretto dei cibi e l’acquisizione di comportamenti che porteranno i bambini ad essere consumatori consapevoli e coscienti. La mensa scolastica si propone anche come momento di educazione permanente, che favorisce il diritto allo studio e la fusione tra scuola e vita sociale».

Un caso di sistema a indicazione puntuale è quello del servizio mensa garantito dal comune di Trieste: offre la possibilità di sostituzione per motivi etico-religiosi, indicando fino a quattro alimenti da sostituire con altrettanti quattro, purché inclusi nel Capitolato. Tale clausola testimonia bene le difficoltà economico-organizzative che possono emergere in seguito alla scelta di una soluzione meno generalista possibile: all’aumentare delle particolarità, si incrementa naturalmente anche la complessità del servizio.

Per terminare la ricognizione dei casi afferenti al modello di accoglienza citiamo due esperienze particolari, che si distinguono dalle precedenti non tanto per la soluzione organizzativa adottata (menù predeterminato versus indicazione puntuale), quanto perché entrambi citano in modo specifico particolari comunità religiose di riferimento. Il comune di Sesto Fiorentino, ad esempio, offre un menù speciale culturale-religioso su richiesta, dedicato a:

  • osservanza musulmana (sostituzione carne di maiale e derivati; Sostituzione di tutti i tipi di carne e salumi);
  • vegetarianesimo (sostituzione di tutti i tipi di carne e salumi);
  • altro da specificare.

Il comune di Sestri Levante offre infine un menù religioso su richiesta per:

  • Venerdì di Quaresima;
  • Osservanza religiosa in genere (esclusione di carne e derivati).

Si tratta in effetti del primo caso incontrato finora in cui una municipalità preveda, tra le diete particolari per motivi religiosi, un menù variato, valevole per il periodo di penitenza quaresimale, dedicato ai fedeli cattolici. Non che l’astensione dalla carne sia un obbligo per le fasce di età minori: la Cei ha infatti esentato i minori di 14 anni dall’obbligo della penitenza. Si tratta tuttavia di una duplice accortezza che riteniamo importante sottolineare: un caso di pratica atta a tutelare le necessità di distinti gruppi religiosi senza ledere le altrui sensibilità. Un approccio dunque ben diverso da quello emerso in altre occasioni ed in differenti contesti, nei quali la scelta di proporre un menù “di magro” per i venerdì di Quaresima è stata imposta a tutti gli utenti della mensa scolastica, con ciò generando disparità di trattamento tra maggioranze e minoranze e suscitando conseguentemente forti critiche [9].

Infine, la cooperativa di ristorazione Cir Food si qualifica come promotrice di pratiche virtuose in materia di cibo e religione. A partire dal 2002, presso le scuole del Comune di Reggio Emilia, la Cir Food ha iniziato ad inserire nei propri menù delle giornate a tema e delle giornate etniche. Nello stesso anno, sono stati attivati dei veri e propri laboratori del gusto, atti a dare la possibilità a famiglie esponenti di culture altre di raccontare, spiegare e preparare insieme ai bambini le ricette della tradizione culinaria del proprio paese di origine, al fine di stimolare il vissuto che lega l’alimentazione ai bambini, nel suo complesso [10].

Un ultimo caso particolarmente interessante è rappresentato dalla gestione del servizio mensa della città di Roma, tra il 2002 e il 2008 in particolare, chiamato la “rivoluzione del cibo a scuola”. In quegli anni il Comune ha deciso di investire sulla qualità della mensa scolastica, in un processo partecipativo che ha coinvolto non solo istituzioni e aziende, ma anche le famiglie e i bambini fruitori del servizio in un processo partecipativo, lavorando sulla sostenibilità, sui prodotti biologici, sui prodotti equo-solidali. L’obiettivo era quello di conciliare esigenze e richieste culturali, sociali e economiche, legate alla salute e alla qualità del cibo [11]. Nel corso degli anni, le autorità cittadine hanno promosso differenti convenzioni e autorità aventi lo scopo di promuovere e migliorare la qualità del servizio

Si inserisce nell’insieme di tali attività, il progetto promosso dal prof. Aldo Morrone, Direttore Sanitario dell’AO San Camillo Forlanini, che in collaborazione con Paola Scardella, dirigente dell’UOC di promozione della Salute Nazionale presso l’INMP di Roma e Laura Piombo, biologa e ricercatrice presso l’INMP di Roma ha originato la preparazione di un Manuale di Alimentazione Transculturale [12].

Il crescente e continuo contatto con migranti e persone che hanno dovuto abbandonare il proprio Paese di origine ha spinto l’amministrazione sanitaria a sostenere un progetto di ricerca che promuovesse la cultura dell’altro. A fronte dell’importanza che le differenze nei regimi alimentari ricoprono nel processo di adattamento alla nuova cultura ed al nuovo contesto di appartenenza, il Manuale di Alimentazione Transculturale può considerarsi quale strumento utile a lenire le eventuali difficoltà.

Oggi a Roma il menù scolastico è articolato in nove settimane e ha una versione estiva e una invernale, per consentire di utilizzare al meglio ortaggi e frutta di stagione secondo il calendario dei prodotti ortofrutticoli, nonché per offrire all’utenza una maggiore varietà dei piatti proposti. Il menù è diversificato per la sezione primavera/ponte, scuola dell’infanzia, scuola primaria e secondaria di primo grado, al fine di soddisfare, a seconda delle fasce di età, le diverse esigenze di apporto nutrizionale e di preparazione dei piatti. La prescrizione delle diete speciali per motivi di salute deve essere redatta dal medico curante con apposito certificato medico predisposto secondo le indicazioni contenute nei Modelli I (motivi di salute-intolleranze e/o allergie alimentari) e L (motivi di salute-patologia cronica o transitoria) e consegnata all’Ufficio Dietiste del Municipio territorialmente competente. Si legge sul sito che anche le variazioni di menù per motivi etico/religiosi, dovranno essere richieste all’Ufficio Dietiste.

1.2 Modello di rifiuto ontologico

Il primo modello a non configurarsi come accogliente le richieste di diversificazione alimentare a matrice fideistica è definito ontologico proprio in quanto oggetto del rifiuto è l’identità religiosa dell’istanza. È il caso, ad esempio, del comune di Adro [13], che a seguito di delibera comunale del settembre 2010 permette di accedere a menù privi di carne di maiale solo su presentazione di una prescrizione medica, espungendo di fatto dalle motivazioni legittime quella a carattere cultuale. La discriminazione derivante da rifiuto ontologico riveste la differenza culturale di un carattere medico-sanitario, come se le necessità alimentari insite nell’espressione fideistica di una minoranza equivalessero ad una patologia da certificare: tale modello rifiuta tout court il diritto alla libertà di espressione religiosa, tutelando il credente solo in quanto portatore di “patologia” e relativa certificazione medica.

1.3 Modello di rifiuto culturale-identitario e filosofico-etico

L’ultimo modello riguarda il rifiuto di prestare servizio mensa differenziato su base religiosa per motivazioni legate ad un conflitto di diritti, nel quale l’esercizio del diritto degli uni si trova in percepita o autentica contrapposizione con la tutela del diritto degli altri, siano essi una maggioranza o una minoranza. Il rifiuto può essere sia culturale-identitario, legato alla salvaguardia dell’identità e della cultura maggioritaria, sia anche filosofico-etico, legato alla salvaguardia della libertà di coscienza di una minoranza.

Il primo tipo è rappresentato dal caso del comune di Castel Mella [14], che con delibera del gennaio 2007 dichiara di volere abolire le modifiche ai menù richieste per motivi fideistici, a sola eccezione delle tradizioni locali: «La scelta di negare ai fedeli di confessioni minoritarie la possibilità di fruire di pasti compatibili con i propri comandi religiosi, eterni ed inviolabili, nello stesso momento in cui si riconosce la derogabilità del servizio di mensa in ragione della presenza di non meglio precisate tradizioni locali, comporta una palese differenza di trattamento collegata alla fede dell’utente».

Il secondo tipo di rifiuto è invece descritto dal caso esemplare del comune di Albenga: di fronte alla proposta dell’assessore alle politiche sociali, particolarmente virtuosa in materia di pluralismo religioso, di introdurre su richiesta carni certificate halal nei menù scolastici, netta è giunta l’opposizione dell’Enpa (Ente nazionale protezione animali) di Savona. L’Ente ricorda che, sebbene la normativa italiana permetta deroghe alla macellazione previo stordimento per specifici motivi religiosi, non è in nessun modo accettabile che in uno Stato laico e civile sia ancora ammessa la macellazione secondo riti che urtano la sensibilità della maggior parte degli italiani [26]. Quale siano state le conseguenze, e quale sia al momento l’offerta delle mense scolastiche del comune di Albenga, non è dato sapere, perché il sito del Comune non riporta descrizione dei menù né la modulistica dedicata ai menù alternativi.

In ogni caso, è importante rilevare come l’esperienza peculiare di Albenga sia esemplare di una questione ben più ampia e dibattuta, che travalica il discorso sulle mense scolastiche: quella della macellazione rituale per giugulazione senza stordimento e della sua legittimità. Una questione, questa, che a sua volta richiama il confronto tra la promozione delle libertà di espressione religiosa e le libertà di coscienza, cui si lega la tutela della vita animale non-umana e il tema delle certificazioni alimentari a carattere religioso (halal e kosher in particolare) [15].

Tra i diversi modelli, approcci e tendenze visti sin qui, ciò che sembra mancare quasi ovunque è un investimento culturale di tempo e risorse nell’educazione al pluralismo religioso attraverso il cibo. Questo sarebbe capace di trasformare la differenza in pluralismo attraverso un programma pedagogico incentrato sulla varietà anche culturale dei cibi consumati, offrendo, accanto alle diete speciali per motivi medici/etici/religiosi, l’opportunità per gli studenti di sperimentare nuove preparazioni e con ciò di conoscere l’altro attraverso la rispettiva cultura gastronomica. Come succede, anche se solo parzialmente, grazie all’iniziativa Dream Canteen, una rete di scuole europee promossa da Slow Food; fondata per promuovere il consumo di cibi freschi e sani sul territorio europeo, la rete si è dotata di un sito internet dedicato che si configura come luogo d’incontro e confronto dell’intercultura alimentare.

 

2. La mensa scolastica di Torino

Le direttive sull’alimentazione scolastica italiana sono definite dalla SINU (Società Italiana di Nutrizione Umana) sulla base delle linee guida LARN (Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia per la popolazione italiana). Prima di entrare nel merito dei progetti e delle attività promosse nelle scuole dal Comune di Torino è importante ricordare come l’obiettivo della Città – in coerenza con le direttive nazionali ed europee – sia quello di affrontare le questioni legate alla nutrizione dei bambini seguendo un approccio multidimensionale, capace di comprendere le necessità fisiche, psicologiche, emotive e culturali della persona; occorre tuttavia notare come le necessità religiose dei bambini e delle loro famiglie non siano contemplate, anche se la dimensione spirituale rappresenta per molti individui un aspetto importante dell’alimentazione, aspetto che costituisce parte integrante della crescita della persona al pari di quelli sopra citati. Gli sforzi per migliorare le condizioni di vita, alloggio e alimentazione rimandano direttamente a quello che in letteratura viene definito come sviluppo socio-economico, nozione che riflette un approccio attento alle interrelazioni tra le diverse dimensioni della vita umana, tra le quali quella religiosa è per molte dimensione fondamentale. Come più volte ricordato, infatti, il fenomeno dell’alimentazione umana è il risultato dell’influenza più o meno diretta di molteplici fattori: anche l’appartenenza religiosa dovrebbe essere considerata maggiormente nel valutare la bontà di politiche pubbliche in materia di alimentazione scolastica.

Come nel resto d’Italia, dove da circa vent’anni va sempre più diffondendosi soprattutto nelle aree urbane, anche a Torino il servizio di ristorazione è organizzato attorno ad una struttura centralizzata.

Il sistema centralizzato di preparazione degli alimenti assicura, infatti, costi minori e maggiori controlli di qualità e igiene lungo tutta la catena produttiva, dalla cucina centralizzata alle cucine satellite delle singole scuole [16].

Il trasporto avviene mantenendo i cibi ad alte temperature o tramite refrigerazione; i cibi possono essere pre-impiattati o trasportati in grandi contenitori, per essere successivamente serviti nelle mense locali.

Stando a quanto riportato nel documentato Foodservice System: Product flow and microbial quality and safety of foods, i vantaggi del sistema centralizzato di preparazione degli alimenti sono rappresentati da [17]:

  • bassi costi di preparazione e distribuzione grazie ad economie di scala;
  • maggiori controlli sanitari sugli ingredienti e standardizzazione dei metodi di preparazione;
  • migliore programmazione del servizio;
  • meccanizzazione del servizio, che aumenta l’efficienza;
  • maggiori controlli di qualità dei cibi preparati.

Quest’ultimo aspetto in particolare richiama i diversi parametri di valutazione della qualità di un alimento; tra questi, tre risultano fondamentali: la qualità microbiologica, la qualità estetica, la qualità nutrizionale.

Come ricordato ancora in Foodservice System: Product flow and microbial quality and safety of foods, esistono alcuni svantaggi connessi alla centralizzazione della preparazione che occorre qui riportare:

  1. il ruolo dell’équipe ha un impatto maggiore rispetto alle piccole cucine scolastiche: eventuali errori coinvolgono un maggiore numero di studenti;
  2. i costi di trasporto incidono sul costo finale del pranzo;
  3. perdita di qualità percepita da parte degli utenti e delle loro famiglie, anche per l’assenza di un feedback derivante dal rapporto diretto di questi con le cucine.

Considerato che una dieta varia e bilanciata è fondamentale nel corso di tutto il processo evolutivo della persona sin dalla sua più tenera età e che proprio nelle prime fasi dello sviluppo si creano quei modelli alimentari che accompagneranno l’individuo nella sua crescita, a partire anzitutto dall’educazione alimentare che questo ha ricevuto, sino a costituire abitudini fondanti il suo gusto più strutturato, l’infanzia rappresenta il periodo più importante per insegnare un approccio consapevole al cibo. Il Ministero della Salute sostiene diverse iniziative in tal senso, con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo di buone pratiche ed abitudini alimentari, favorendo così un rapporto quanto più sano con il cibo.

Tra le iniziative sostenute a miglioramento della qualità del servizio a Torino, si possono citare:

  • Il Menù l’ho fatto io!

L’iniziativa è promossa da ASL TO 1Dipartimento Integrato di Prevenzione, Assessorato alle Politiche Educative della Città di Torino, Laboratorio Chimico della Camera di Commercio di Torino, Ufficio Scolastico Regionale del Piemonte, Laboratorio Città Sostenibile di ITER (Istituto Torinese per una Educazione Responsabile), Miur e Regione Piemonte. L’obiettivo è la promozione di un approccio di scelta critica dei cibi; l’iniziativa è rivolta anzitutto a famiglie e Commissioni mensa delle scuole, oltre che a due classi di studenti per ciascuno dei seguenti istituti torinesi:

  • Carlo Casalegno – Via Acciarini 20
  • Don Milani – Piazza San marino 107
  • G. Perotti, Via Mercadante 68/8
  • S. D’Acquisto, Via Tollegno 83
  • S. Pellico, Via Madama Cristina 106
  • S. Parato, Via Acquileia 8
  • Castello di Mirafiori, Strada Castello di Mirafiori 45.

Il progetto, che ha preso avvio nel 2013, prevede per tutto l’anno 2014 attività nelle scuole volte allo studio delle abitudini alimentari dei bambini, alla promozione di programmi educativi in materia di corretta alimentazione, alla formazione sul tema della selezione del cibo, in rapporto con la salute, la stagionalità e l’origini degli alimenti.

L’obiettivo finale dell’anno di formazione è la preparazione di un menù personale ad opera degli stessi studenti coinvolti. Come ricordano le sopracitate nutrizioniste del Comune di Torino, intervistate sull’argomento, il coinvolgimento dei bambini nella formulazione del menù fa di questo progetto l’unico che potenzialmente potrebbe comprendere anche le dimensioni religiosa e culturale del cibo servito nelle scuole.

  • Frutta nelle scuole

Il programma europeo “Frutta nelle scuole”, introdotto dal regolamento (CE) n.1234 del Consiglio del 22 ottobre 2007 e dal regolamento (CE) n. 288 della Commissione del 7 aprile 2009 è finalizzato ad aumentare il consumo di frutta e verdura da parte dei bambini e ad attuare iniziative che supportino più corrette abitudini alimentari e una nutrizione maggiormente equilibrata, nella fase in cui si formano le loro abitudini alimentari.

Gli obiettivi del programma sono:

  • incentivare il consumo di frutta e verdura tra i bambini compresi tra i sei e gli undici anni di età;
  • realizzare un più stretto rapporto tra il “produttore-fornitore” e il consumatore, indirizzando i criteri di scelta e le singole azioni affinché si affermi una conoscenza e una consapevolezza nuova tra “chi produce” e “chi consuma”;
  • offrire ai bambini più occasioni ripetute nel tempo per conoscere e “verificare concretamente” prodotti naturali diversi in varietà e tipologia, quali opzioni di scelta alternativa, per potersi orientare fra le continue pressioni della pubblicità e sviluppare una capacità di scelta consapevole.
  • Obiettivo Spuntino

La qualità degli spuntini è uno dei parametri misurati dall’indagine nazionale “Okkio alla salute”, un’indagine campionaria biennale di sorveglianza sullo status ponderale, le abitudini alimentari e lo stile di vita dei bambini di 8-9 anni, coordinata dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS). Lo spuntino di metà mattina si è subito delineato, nella prima indagine condotta nel 2008, come consumo critico emergente. L’82% dei bambini in Italia, il 78% in Piemonte ed il 79% nell’Asl Torino 3, infatti, consumava una quota calorica eccessiva nel break di metà mattina [18].
L’obiettivo posto dal progetto ha riguardato dunque la promozione di un diverso rapporto con lo spuntino in direzione del consumo di cibi più sani rispetto alle merendine preconfezionate ed i dolciumi in genere; per il raggiungimento di tale obiettivo si è deciso di coinvolgere direttamente gli insegnanti, cui è stato affidato un ruolo centrale nell’educazione degli alunni. I primi risultati ottenuti hanno registrato l’aumento della percentuale (dal 17% al 54%) di bambini disposti a consumare alimenti più sani.

  • La Pietanza non Avanza

Un’educazione alimentare completa deve comprendere anche un diverso atteggiamento nei confronti dello spreco delle risorse; partendo da questa convinzione, la Città di Torino si è posta l’obiettivo di promuovere un progetto complesso capace di coinvolgere le famiglie più indigenti, cui fare dono dei cibi preparati e avanzati dalle mense scolastiche, con ciò contribuendo al loro fabbisogno ed al contempo evitando il più possibile lo spreco di risorse alimentari [19]. Le scuole coinvolte sono state:

  • Antonelli, Via Vezzolano 20
  • Aurora, Via Cecchi, 16
  • Fontana, Via Gassino 13
  • Spinelli, Via San Sebastiano Po

L’iniziativa rappresenta, nelle volontà dei promotori, una prima sperimentazione in vista di ulteriori progetti futuri [20].
In tutti questi progetti il ruolo rivestito dalle scuole, dagli insegnanti, dai pediatri, dai nutrizionisti e dalle istituzioni locali è stato fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi educativi preposti. Come anticipato nell’introduzione a questo lavoro, per quanto tanto sia stato fatto, resta ancora molto lavoro da compiere: occorre sempre più un approccio innovativo, capace di agire direttamente sulle abitudini alimentari, informando i programmi educativi delle conoscenze scientifiche in fatto di nutrizione.

Come in altre città, a Torino vi sono differenti modalità di richiesta e di erogazione dei menù alternativi e delle diete speciali, che possono essere avanzate per motivi religiosi o patologici.

Gli utenti della Ristorazione scolastica della Città di Torino sono attualmente circa 55.000, fra questi circa 4.500 usufruiscono di un “menù alternativo” senza carne di maiale, senza alcun tipo di carne oppure privo sia di carni sia di pesce mentre altri 1.300 seguono un menù dietetico per patologie legate all’alimentazione. Considerati gli elevati numeri degli utenti, il Servizio deve attivare una serie di procedure volte a garantire sia la conformità delle richieste pervenute dalle famiglie in tempi brevi, sia la sicurezza alimentare.

Ogni richiesta di dieta speciale deve necessariamente essere inviata dalla famiglia presso gli uffici economali di circoscrizione (per le scuole statali) attraverso la segreteria delle scuole municipali o direttamente all’Ufficio Gestione Ristorazione (anche per posta).

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La modulistica di riferimento è scaricabile dal sito del comune di Torino, ed è costituita da:

  • modulo generico di richiesta di “menù alternativo” per ragioni etico-religiose e “dieta speciale” motivata da ragioni medico-patologiche;
  • richiesta temporanea di dieta speciale per sospetta allergia alimentare;
  • richiesta di dieta speciale per allergia alimentare accertata;
  • richiesta di dieta speciale per intolleranza alimentare;
  • richiesta di dieta speciale per patologie alimentari che necessitano di dietoterapia.

Come si vede da quanto riportato, è prevista una documentazione specifica esclusivamente per quel che riguarda le richieste di diete speciali per motivi patologici. È ovvio che relativamente ad esse, la documentazione debba essere quanto più completa affinché sia possibile redigere uno schema dietetico sulla base di una patologia documentata in modo esauriente da medici di base e/o specialisti.

Per quel che concerne il dato religioso però, il Comune non dispone di una modulistica così definita. Ogni famiglia può scegliere se richiedere un menù senza carne di maiale, senza carni oppure senza carni né pesce. In sede di intervista, Filippo Valfré [21] ha sottolineato come i principali richiedenti delle diete speciali per motivi religiosi siano gli utenti di fede islamica la cui legge si compone di prescrizioni piuttosto specifiche e severe in fatto di dieta.

Ogni fenomeno culturale segue e dipende da logiche specifiche e consolidate che è necessario indagare allo scopo di definire con precisione l’utenza culturalmente e religiosamente variegata del servizio di refezione scolastica. In particolare in un contesto così stratificato da un punto di vista migratorio: ogni migrazione, sia essa prolungata oppure forzata, comporta sempre la necessità di mantenere un legame con le proprie radici, abitudini e cultura.

L’analisi condotta permette di evidenziare alcune caratteristiche peculiari all’organizzazione del servizio:

  • segue un approccio di accoglienza familiaristico, incentrato sulla specifica richiesta di menù particolari da parte delle famiglie;
  • prevede una documentazione specifica esclusivamente per quanto concerne le richieste di diete speciali per motivi patologici, che devono essere accompagnate da certificato medico;
  • i menù alternativi offerti includono motivazioni etiche e religiose, proponendo per entrambe l’esclusione della carne o della carne e del pesce;
  • l’esclusione della carne di maiale è prevista – da modulo – solo per coloro che richiedono anche una dieta speciale: con modalità non contemplate dal modulo standard è possibile fare richiesta, per motivi religiosi, di un menù privo della sola carne di maiale [22];
  • la formulazione delle diete speciali e dei menù alternativi avviene senza un confronto diretto con le rappresentanze religiose cittadine e neppure con esperti del settore.

 

3. In mensa con le religioni: l’indagine conoscitiva

3.1 Un accenno metodologico

Allo scopo di meglio definire il rapporto tra le mense scolastiche, le culture e le abitudini alimentari – dettate da regole religiose e non – ivi rappresentate, un questionario semi-strutturato auto-compilato è stato elaborato e somministrato ad un campione di tre scuole primarie di primo grado di Torino, due di Roma ed un colegio di Zaragoza.

Il campione
Nella difficoltà di definire un campione statisticamente rappresentativo della popolazione di riferimento, l’équipe di ricerca ha optato per una strategia di campionamento di comodo delle scuole, procedendo successivamente all’indagine censuaria delle famiglie afferenti a ciascuna scuola.
Alcune considerazioni teoriche hanno guidato l’équipe nella definizione dell’approccio metodologico; tali considerazioni si riassumono in:

  • la rilevanza dei mutamenti sociali determinati dai processi migratori, che portano ad un aumento delle presenze stabili di persone originarie di regioni distanti – geograficamente e culturalmente – e che, nelle plurime interazioni che scaturiscono, contribuiscono alla nascita di nuovi modelli sociali, culturali, economici, ecologici, tra cui le forme dello stare insieme e dell’essere e costruire famiglia, tra stranieri e tra italiani e stranieri;
  • l’importanza del cibo come elemento che, in ogni società e cultura, concorre a costruire, rappresentare e riprodurre identità e appartenenze culturali, etiche e religiose ed i differenti stili di vita che ne scaturiscono;
  • il ruolo della famiglia, come luogo formativo primario e fondamentale, e come soggetto in profonda mutazione (si pensi alle nuove forme dello stare insieme, alle convivenze, alla diminuzione del numero di matrimoni a partire dai primi anni Settanta del XX secolo; si pensi alle coppie miste, in ascesa negli ultimi vent’anni almeno, nelle quali alla diversa cittadinanza vanno ad aggiungersi diversità plurime che producono nuovi tipi di relazione, equilibri e ruoli di familiari, genitoriali, di genere, come anche inedite compresenze di culture, religioni, etiche e stili di vita);
  • il ruolo della scuola, in quanto agenzia educativa fondamentale ma anche in quanto luogo nel quale tale pluralismo di appartenenze prende quotidianamente vita;
  • la centralità della mensa scolastica quale contesto entro cui tali appartenenze si tramutano in bisogni concreti, attraverso le scelte praticate dai bambini – italiani e stranieri che siano – e dalle loro famiglie.

Tutto ciò considerato, si è qui preferito fare riferimento alla popolazione scolastica nel suo complesso: anziché concentrarsi su una specifica componente (isolando ad esempio le scuole contraddistinte dalla più alta presenza di stranieri), si è optato per la costruzione di un campione di scuole il più possibile eterogeneo, capace di rappresentare – seppur in modo non statistico – la complessità socio-culturale che permea la scuola italiana. Questo perché l’alimentazione dei bambini deriva – anche – dal livello di reddito e dal livello di scolarizzazione (dalla collocazione sociale) della famiglia, dalla sua cultura di provenienza e dalla religione, dalle abitudini incentivate o disincentivate, dalla più ampia cornice culturale con la quale si interagisce e dall’interazione con le culture degli amici/compagni di classe. In questo contesto, il pluralismo (culturale, religioso, linguistico…) significa innovazione, anche alimentare. Se i fattori elencati appaiono tutti come rilevanti e meritevoli di osservazione, alcuni in particolare (il luogo di nascita, la religione di riferimento) sono di più agile reperimento: è stato possibile chiedere alle famiglie a quale o quali religioni afferiscano, come anche il luogo di nascita del figlio e dei genitori; non è stato chiesto di indicare il loro livello di scolarizzazione dei genitori, ed occorrerà rimediare in futuro; si è invece preferito non includere nel questionario domande sul reddito familiare, argomento largamente ritenuto delicato – più della stessa appartenenza confessionale.

Una volta elaborati, i dati ottenuti hanno permesso di rilevare informazioni sul pluralismo religioso nel contesto scolastico ma anche in quello famigliare, sul rapporto tra generazioni immigrate e generazioni di nati in Italia ma stranieri in quanto privi di nazionalità italiana, sulle coppie genitoriali miste in quanto a luogo di nascita ed in quanto a religione. Per quanto non in modo esaustivo, tali informazioni concorrono tutte a rappresentare un fenomeno, quello del mélange etnico, linguistico, culturale e religioso, che quotidianamente contribuisce a plasmare le abitudini, gli atteggiamenti, i comportamenti, i bisogni e le aspirazioni: nella scuola, in famiglia, sul lavoro, nel tempo del loisir e, naturalmente, sulla tavola.

Date le premesse e nell’assenza di dati disponibili sulla composizione della popolazione scolastica di tutti gli istituti elementari presenti sul territorio di ciascuna Circoscrizione, il campione è stato costruito sulla base dei dati territoriali e circoscrizionali disponibili. La Città di Torino, in particolare, mette a disposizione banche dati complete ed aggiornate sulla popolazione residente, suddivisa per fascia d’età, sesso, provenienza geografica e Circoscrizione. Assumendo come riferimento la presenza sul territorio di bambini stranieri in età scolare elementare, sono state selezionate le Circoscrizioni 1, 3 e 6, che rappresentano rispettivamente i territori con il numero di casi minore, più prossimo alla media, maggiore. Le scuole sono state successivamente individuate secondo facilità d’ingresso da parte dell’équipe di ricerca.

La tabella 1 riporta i dati sulla popolazione straniera in età scolare elementare per ciascuna Circoscrizione (sono evidenziate quelle selezionate).

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La mappa 1 rappresenta l’estensione territoriale delle Circoscrizioni selezionate a Torino; i marcatori segnalano la collocazione della scuola presa in esame nel territorio di riferimento. Come mostrato, la Tommaseo (Circ. 1) si trova all’interno del centro storico torinese; la Santorre di Santarosa (Circ. 3) sorge in Borgo San Paolo, quartiere un tempo periferico, storicamente popolare; come anche Barriera di Milano, il quartiere servito, tra le altre, dalla scuola Gabelli (Circ. 6): un’area per lungo tempo depressa ed oggi oggetto di prime iniziative di recupero e ristrutturazione urbana, anche attraverso progetti di rinnovata offerta culturale e tessitura sociale.

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Il questionario
Distribuito a tutte le famiglie, il questionario ha avuto tassi di risposta variabili: a Torino, in media, le famiglie rispondenti sono state il 38% (sul totale di 1.374 famiglie contattate). Il questionario è stato costruito con l’obiettivo di raccogliere dati su:

  • rilevanza del pluralismo culturale e religioso a scuola;
  • (caratteristiche anagrafiche degli studenti elementari e delle loro famiglie);
  • abitudini e restrizioni alimentari;
  • percezione del pluralismo culturale e religioso in riferimento alla mensa scolastica.

Dato il carattere multiculturale e conseguentemente multilinguistico della popolazione di riferimento, onde evitare la sottostima della sua componente non italofona, il questionario è stato predisposto in sette diverse lingue: arabo, cinese, francese, inglese, italiano, romeno, spagnolo.

Come anticipato, il questionario ha interrogato le famiglie coinvolte su tre dimensioni fondamentali d’indagine: le si vedrà nell’ordine sopra riportato.

3.2 Rilevanza del pluralismo

I primi dati interessanti che emergono dall’analisi del campione sono relativi alla cittadinanza degli alunni ed al luogo di nascita di alunni e genitori.

Per quanto concerne la cittadinanza [23], il grafico 1 mostra le percentuali relative alla cittadinanza italiana o estera degli alunni; come ipotizzato in fase di costruzione del campione, le scuole selezionate rappresentano tre casi distinti, che riflettono le differenze riscontrate in seguito all’analisi della composizione della popolazione per circoscrizione. Sul totale degli alunni iscritti, il 59% risulta possedere cittadinanza italiana, contro un corrispondente 41% di bambini con cittadinanza straniera.

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Quanto alla nazionalità, il grafico 2 riporta i dati relativi alle tre scuole torinesi coinvolte: a fronte del 59% di bambini con cittadinanza italiana, la prima cittadinanza straniera per numero di rappresentanti è quella marocchina, seguita da quella rumena, nigeriana, cinese, egiziana, albanese, peruviana e filippina; a seguire altre 29 nazionalità, con valori inferiori all’1%. Le nazionalità rappresentate sono in tutto 38.

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Superando il dato di cittadinanza e passando dunque al luogo di nascita, come si osserva nel grafico 3 la grande maggioranza degli alunni è nata in Italia (87,2%), con basse percentuali di soggetti nati in Romania (4,7%) e Marocco (1,8%) e percentuali non rilevanti di nati altrove: nel complesso, le nazioni rappresentate sono 20. Il grafico 4 mostra la più complessa situazione dei genitori: poco più della maggioranza è nata in Italia (54,7%), contro più alte percentuali di soggetti nati in Romania (14,8%) e Marocco (11,8%) e percentuali minori e ancora non rilevanti di nati altrove. Le nazioni rappresentate sono in questo caso 35.

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Il grafico 5 mette a confronto le percentuali di alunni e genitori nati in Italia o all’estero: l’evidente disparità segnala la consistenza del fenomeno delle seconde generazioni, quelle rappresentate da figli di immigrati nati sul suolo italiano, che costituiscono il 29% degli alunni nel campione considerato.

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Il grafico 6 riproduce la frequenza delle coppie genitoriali miste, con ciò intendendo le coppie formate da individui nati in Paesi diversi. Queste rappresentano il 12% delle famiglie del campione: nel 10,5% dei casi si tratta di coppie formate da un genitore nato in Italia ed uno nato all’estero; l’1,5% dei casi riguarda genitori nati entrambi all’estero.

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I risultati rilevati non si distanziano troppo dai dati Istat 2012 sui matrimoni misti [24]: come rappresentato nell’infografica [25] riportata qui sotto, questi costituivano il 13% dei matrimoni totali in Italia ed il 16% dei nel solo Nord-Ovest. A variare in modo più netto è invece il dato sulle coppie composte da due persone straniere: nel caso dei matrimoni misti il 4,4% in Italia ed il 4,2% nel Nord-Ovest, nel caso delle coppie miste da noi rilevate l’1,5% rispetto a quelle raggiunte.

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Grazie ai dati raccolti, è stato possibile ottenere informazioni anche in merito alla composizione religiosa delle famiglie; non esistendo banche dati [26] sull’argomento, nazionali, locali o territoriali che siano, tali informazioni sono risultate fondamentali per delineare il contesto sociale cui il campione fa riferimento. I dati sull’appartenenza religiosa delle famiglie, riportati nel grafico 7, restituiscono pienamente il carattere plurale che permea la scuola italiana: in base al campione di riferimento (che dunque non riflette statisticamente la composizione della società italiana o della popolazione scolastica), circa il 55% delle famiglie si dichiara cristiano cattolico, seguito dal 16% di fede musulmana, dal 14% circa di fede cristiana ortodossa. Oltre il 13% si dichiara non credente, il 4% cristiano protestante e, a seguire con valori non significativi, baha’ì, buddhista e testimone di Geova.

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Quanto alle coppie miste formate da due genitori che si dichiarano credenti (4,2% sul totale delle coppie), il grafico 8 riporta la distribuzione per religione: pur trattandosi di numeri ridotti, la convivenza tra fedeli di credo differenti è dunque realtà tra le famiglie di alunni elementari torinesi. Prevalgono le coppie cattolico-ortodosse (1,9%), seguite in misura minore da quelle cattolico-musulmane e cattolico-protestanti (0,8%), da quelle legate a diverse forme di protestantesimi (0,4%) e da quelle buddiste-cattoliche (0,2%).

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3.3 Abitudini e restrizioni alimentari

Un secondo set di domande è stato progettato per raccogliere informazioni circa:

  • l’esistenza di regole alimentari di natura cultuale;
  • la loro importanza percepita;
  • la volontà di rispettare tali regole nell’alimentazione casalinga e scolastica;
  • il parere rispetto all’eliminazione dai menù scolastici 1) della carne, 2) della carne e del pesce.

Rispetto alla presenza di restrizioni alimentari di natura culturale (grafico 9), a fronte di un 1,3% che dichiara di non sapere, circa il 28% delle famiglie componenti il campione afferma di appartenere ad un credo che impone regole particolari in fatto di nutrizione; il 77,5% di queste dichiara di rispettare le regole religiose nella preparazione di pasti casalinghi.

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Il grafico 10 illustra la distribuzione dei “sì” tra le famiglie credenti; al fine di verificare l’ipotesi di una diversa frequenza e osservanza della regola religiosa in materia di alimentazione, il campione è stato suddiviso per religione di riferimento: le percentuali non si riferiscono dunque alla totalità del campione ma sono relative al totale di fedeli dichiaratisi appartenenti a ciascun credo. Non è qui compresa la non credenza, né lo sono i culti risultati minoritari nel campione; per questi ultimi, il ridotto numero di casi ha imposto l’astensione da calcoli specifici. Un dato del tutto inatteso desta anzitutto attenzione: si tratta della percentuale di cattolici, la cui religione, come visto nei capitoli precedenti, è tra quelle che contemplano la presenza minore di prescrizioni alimentari. Seppur sia possibile immaginare che la domanda posta sia stata mal compresa, un’ipotesi più convincente agli occhi di chi scrive è quella secondo la quale, per quanto limitate, le regole prescritte dal cattolicesimo siano conosciute e vissute da una quota minoritaria di fedeli. Un’importanza relativa che nulla sembra togliere al dato ottenuto: a dichiarare che la propria religione prevede regole alimentari particolari è il 21% del totale di famiglie cattoliche, il 26% circa di quelle ortodosse, il 19% di quelle protestanti ed il 41% delle famiglie musulmane. Quanto al rispetto di tali regole nell’alimentazione di casa, i più osservanti si rivelano essere musulmani e protestanti: le famiglie a conoscenza di norme alimentari religiose dichiarano di applicarle in cucina. Nel caso dei cattolici – in modo più netto – e degli ortodossi il dato diminuisce: il 17,5% delle famiglie cattoliche osserva le regole a casa (-3,5% rispetto a quanti conoscono la regola), comportamento tenuto dal 24,3% delle famiglie ortodosse (-1,4%).

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Le domande precedenti interrogavano il campione circa le regole e le abitudini alimentari religiose della famiglia latu sensu; entrando nello specifico delle pratiche nutrizionali dei bambini, si è domandato di indicare il grado di importanza attribuito al rispetto delle regole religiose da parte del figlio.

Il grafico 11 presenta i risultati relativi al contesto casalingo e scolastico: nel primo caso, sebbene il 63% circa delle famiglie abbia risposto “per nulla”, il 16% ritiene la questione importante, per quanto sia disposto a rinunciarvi, ed oltre il 21% la ritiene “molto importante”: questi ultimi due dati, sommati, costituiscono il 37% circa dei casi. Per quanto riguarda invece il rispetto delle regole alimentari a scuola, l’importanza attribuita diminuisce di qualche punto percentuale, pur restando significativo il dato degli “importante ma posso rinunciare” (13,5%) e dei “molto importante” (17,6%), che sommati rappresentano il 31% circa dei casi.

Il contesto scolastico sembra dunque disincentivare alcune famiglie religiose dal fare osservare ai propri figli le regole alimentari: da casa a scuola, l’importanza attribuita diminuisce tanto nel caso dei “molto importante” (-3,7%) quanto in quello degli “importante ma posso rinunciare” (-2,5%). Un’ipotesi qui richiama la possibilità di una maggiore difficoltà nell’ottenere pasti religiosamente corretti, accompagnata eventualmente da una forma di sottomissione culturale che agisce nel senso della rinuncia all’osservanza.

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Carni e pesce

Tra gli elementi alimentari più soggetti a regole religiose, le carni occupano senz’altro un posto di grande rilievo: siano esse di origine avicola, bovina, cunicola o suina, sono spesso soggette a restrizioni e rappresentano pertanto un ostacolo alla piena condivisione del menù. Quanto alle carni di origine ittica, sebbene le regolamentazioni religiose prevedano sostanziali restrizioni solo nei casi di crostacei e molluschi – in ogni caso troppo cari per il contesto scolastico – l’astensione dal consumo di pesce può rappresentare una forte apertura nei confronti delle restrizioni etico-filosofiche legate al vegetarianesimo; al contempo e per altro verso, il pesce è un ottimo elemento sostituivo delle altre tipologie di carne. Muovendo da tali considerazioni, si è proceduto alla raccolta dell’opinione delle famiglie in merito, con risultati piuttosto inattesi.

Il grafico 12 rappresenta la frequenza delle opinioni contrarie, indifferenti e favorevoli all’eliminazione della sola carne e di carne e pesce dai menù scolastici: come è possibile osservare, la percentuale di contrari aumenta notevolmente (+20%) nel caso in cui si proponga l’esclusione delle carni ittiche: si rinuncia al pesce in misura sensibilmente minore rispetto alle altri carni. Altro risultato di grande rilievo riguarda la disponibilità ad estromettere la carne: qualora venga mantenuta l’offerta di pesce, la grande maggioranza delle famiglie intervistate si dichiara indifferente o esplicitamente favorevole. Il grafico 12.1 oppone le modalità neutra e positiva alla sola modalità negativa: il 65% circa delle famiglie del campione torinese è pronto a rinunciare alla carne nei menù scolastici dei figli.

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Registrata l’elevata propensione all’esclusione della carne dalle diete scolastiche, occorre confrontarsi con il parere di quanti si sono dichiarati discordi; è stato pertanto chiesto loro di motivare la posizione espressa. Si è successivamente proceduto all’analisi semantica delle affermazioni raccolte che, suddivise per parole-chiave e ricondotte a tipologie standard di risposta, sono finalmente andate a costituire modalità trattabili attraverso l’analisi delle frequenze. Come riportato nel grafico 13, che rappresenta la frequenza delle motivazioni addotte dal 35,4% di contrari all’esclusone della carne, il principale motivo di opposizione (56% circa, ovvero il 20% del campione) è rappresentato dalle preoccupazioni sul carattere equilibrato del menù: una preoccupazione comprensibile cui, tuttavia, ben rispondono le considerazioni sulla sostituibilità della carne con altri elementi alimentari più salutari. A seguire, escludendo il 19% circa dei contrari che non si esprime, le motivazioni maggiormente rappresentate riguardano questioni di gusto (“il pesce non piace a tutti”; “mi piace la carne”), di principio (“la religione non può imporre restrizioni a tutti gli alunni”; “i bambini devono sperimentare tutti gli alimenti”; “la carne fa parte della dieta italiana e mediterranea”) e preoccupazioni di carattere economico/qualitativo rispetto al servizio offerto.

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Un’ultima domanda sul tema riguarda il ruolo rivestito dalla religione nell’orientamento delle famiglie rispetto al consumo di carne. Confrontando i risultati raccolti con i dati sull’appartenenza religiosa e la non credenza, si è ottenuta la distribuzione delle opinioni contrarie, indifferenti e favorevoli riportata nel grafico 14: tra i più discordi si trovano protestanti e cattolici (rispettivamente circa 57% e 48% circa); situazione ben diversa per ortodossi, non credenti e musulmani, con valori di accoglienza netta alti e molto alti negli ultimi due casi in particolare.

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Il grafico 15 rappresenta una classifica della desiderabilità media di diversi alimenti, espressa dalle famiglie coinvolte in riferimento alla mensa scolastica.

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Il grafico 16 riporta invece i risultati ottenuti in merito alla percezione del grado di appartenenza dei medesimi alimenti alla tradizione gastronomica religiosa (i risultati si riferiscono ai soli casi di famiglie credenti, suddivisi per religione di riferimento).7

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3.4 Percezione del pluralismo culturale e religioso in riferimento alla mensa scolastica

L’ultima dimensione d’indagine riguarda la percezione, da parte delle famiglie, del pluralismo religioso nel contesto della classe del figlio. Al fine di rilevare tale dimensione è stato predisposto un set di domande che, muovendo dal tema dei “pasti speciali” nelle mense scolastiche, si proponeva di registrare variazioni significative nelle percentuali di “non so” dati come risposta in merito a:

  • conoscenza di “casi speciali” nella classe (casi di richiesta di menù speciali per motivi religiosi);
  • conoscenza del numero di “casi speciali” per motivi religiosi;
  • conoscenza delle religioni di appartenenza degli alunni richiedenti menù speciali;
  • conoscenza del servizio mensa, nello specifico del tipo di offerta per diete speciali
  • opinione in merito ai menù speciali.

Il metodo prescelto è stato dunque quello di utilizzare la modalità del “non so” come indicatore di disattenzione da parte delle famiglie nei confronti del pluralismo religioso che, senza dubbio presente nel contesto scolastico osservato, permea l’esperienza scolastica dei figli: dalla prossimità con culture e religioni altre alla più piena condivisione di luoghi e pratiche della quotidianità.

Il grafico 17 sintetizza le frequenze dei “non so” rispetto alle cinque domande poste.

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Dinanzi a percentuali piuttosto elevate di “non so” e, di conseguenza, ad una ipotizzabile disattenzione e scarsa percezione del pluralismo alimentare, culturale e religioso da parte delle famiglie, si è proceduto alla verifica dei possibili fattori intervenienti; tra questi, il livello di coinvolgimento dei soggetti nelle questioni aperte dal tema dell’alimentazione religiosamente orientata appare come uno dei fattori determinanti. Il livello di coinvolgimento delle famiglie è stato desunto dai risultati ottenuti in merito all’importanza attribuita – dai genitori – al rispetto delle regole religiose nell’alimentazione scolastica dei figli: l’ipotesi qui adottata è che ad una più alta importanza attribuita corrisponda un più elevato coinvolgimento nel problema. Come visto in precedenza, tale variabile prevede tre modalità di risposta: “per nulla importante”, “importante, ma posso rinunciare”, “molto importante”.

Dall’incrocio tra i “non so” e l’importanza attribuita al cibo-mensa (grafico 18) emerge un dato interessante: l’assenza di un parere in merito è molto elevata in corrispondenza di quei casi identificati come di “minor coinvolgimento”; frequenze che diminuiscono sensibilmente all’aumentare del coinvolgimento delle famiglie nella questione – tutta aperta – del rispetto delle prescrizioni religiose nell’alimentazione scolastica.

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4. Conclusioni

Alcune riflessioni conclusive partono dalla convinzione che l’educazione scolastica sia uno strumento d’intervento importante e tra i pilastri fondamentali del benessere, insieme alla nutrizione, alla salute, all’educazione; se si pensa che nel contesto della mensa si concentrano tutti e tre, è chiaro quanto sia importante fare in modo che le mense rappresentino per i bambini e per le loro famiglie un modello eccellente di riferimento. “A prima vista, l’idea di servire nelle scuole cibo fresco, sano e prodotto localmente sembra piuttosto semplice da realizzare. Purtroppo non è affatto così in gran parte dei paesi europei”, scrivono Kevin Morgan e Roberta Sonnino [27]. I motivi vanno ricercati soprattutto in una cultura popolare sbagliata che vede ancora oggi nel cibo qualcosa di molto banale: un’industria come tutte le altre, per la quale il primo obiettivo è ridurre i costi. Il cibo, come si è detto, è un fatto culturalmente orientato e costruito e di qui occorre partire anche per leggere i risultati di questa indagine in profondità.

Il problema infatti, in Italia e più nello specifico nel caso studio torinese, non è tanto l’inadeguatezza e neppure lo iato tra richieste, bisogni e risposte, perché i servizi paiono attivi ed efficaci ed anzi un cibo di qualità che sia anche culturalmente e religiosamente corretto non sembra essere una necessità della maggioranza. Il problema, tuttavia, risiede proprio nel se e come sia costruito tale bisogno e come esso sia legato ad altre (in)adeguatezze ed ai limiti relativi al tema della qualità e sostenibilità economica, sociale, ambientale. La questione va letta quindi in termini di inclusione ed esclusione che le pratiche alimentari a scuola e l’educazione (ancora piuttosto inefficace) generano. Per quanto concerne i menù infatti, occorre domandarsi quanto siano inclusive o meno le diete speciali, il numero – a volte enorme – di alternative che producono una sorta di balcanizzazione del cibo ed anche, in alcuni casi, una ghettizzazione (si pensi ai menù senza carne per i cosiddetti “integralisti” o al sistema differente di somministrazione delle diete speciali, consegnate spesso in packaging singoli). D’altro canto neppure la standardizzazione (da cui tra l’altro si partiva con la costruzione di un menù scolastico unico, valido per tutti, senza eccezioni) è una soluzione. La questione dunque deve essere posta relativamente alla possibilità di inventare nuovi menù più omogenei, inclusivi e rispondenti alla mobile identità culinaria e gastronomica italiana, che riflette il pluralismo contemporaneo. La maggiore omogeneità potrebbe partire da un ripensamento della quantità e dell’incidenza della carne che, come si evince dai risultati dell’indagine, rappresenta il problema maggiore nella costruzione delle alternative, ma la cui esclusione non rappresenta un problema per la maggioranza delle famiglie. A ciò si lega, anche, il rischio di sopravvalutare il pasto a scuola che non rappresenta (o almeno dovrebbe rappresentare) che un terzo dei pasti giornalieri, un quarto su base settimanale.

Tra tutela della tradizione e del patrimonio plurale culturale e religioso, esiste la possibilità di un menù innovativo?

La cucina è una dei sostantivi che più facilmente dovrebbe potersi accompagnare all’aggettivo che fa riferimento al nostro paese: volendo esagerare, la cucina, o è italiana, o non è. La cucina italiana c’è, è conosciuta e riconosciuta in tutto il mondo, perché gli italiani, si sa, sono pizza e spaghetti. Eppure, la cucina italiana, intesa come un modello fisso e unitario, codificato in regole precise, valida da nord a sud, da est, a ovest, in campagna e in città, attraverso strati sociali, gruppi culturali e, soprattutto, attraverso la storia, non è mai esistita. È banale a dirsi, ma anche solo per una questione di materie prime, sul suolo italiano si sono sviluppate e continuano a svilupparsi cucine differenti, legate al territorio, alle disponibilità ed alle sue esigenze.

Se però la pensiamo come una rete di saperi e di pratiche, come reciproca conoscenza di prodotti e di ricette provenienti da città e regioni differenti, uno stile culinario italiano esiste, fin dal Medioevo, a partire dagli ambienti cittadini che concentrarono e rielaborarono la cultura alimentare delle campagne, e al tempo stesso la misero in circolazione, attraverso il gioco dei mercati e i movimenti di uomini, merci, libri. La cultura del pane, del vino e dell’olio, simboli della civiltà agricola romana, si mescolò con la cultura della carne e del latte, del lardo e del burro, simboli della civiltà ‘barbarica’, legata all’uso della foresta più che alla pratica dell’agricoltura e ne nacquero delle cucine italiane.

Se l’identità della cucina italiana è un’identità in divenire, sfaccettata e plurale, questa va cercata nella storia alimentare e gastronomica italiana come uno spazio di valori comuni, di saperi e sapori, mai fermi, mai dati una volta per tutte. Chi metterebbe oggi in discussione l’italianità della pasta, del pomodoro, del peperoncino? Eppure appartenevano, in origine, a culture diverse e lontane. In questo senso, un’identità culinaria italiana esiste da molto tempo e anzi, già alla fine dell’Ottocento, l’identità del paese non coincideva con le sue forme politiche, ma si realizzava piuttosto nei modi di vita, nei gusti letterari, artistici, e anche gastronomici. L’unità politica del paese non fece che accelerare questo processo, allargandolo progressivamente a fasce più ampie della popolazione. Dapprima entrò in gioco la piccola borghesia cittadina, che il ricettario di Pellegrino Artusi riuscì a integrare perfettamente nel nuovo spirito nazionale. Il progetto “unificatore” di Artusi consisteva nel riunire tutte le soste gastronomiche della sua esperienza, rivisitando i piatti contadini delle feste trasformandoli così nella cucina borghese italiana conosciuta in tutto il mondo. Con la grande guerra anche i ceti popolari cominciarono a conoscersi meglio, ma spetterà ai mass-media accompagnare gli italiani nella modernità alimentare; tuttavia, proprio la persistenza di modelli tradizionali, la cui vitalità si incrocia col nuovo, continua a garantire una cultura gastronomica forte, capillare e condivisa, e a preservarla, almeno in parte, dai processi di delocalizzazione, globalizzazione e destagionalizzazione e regionalizzazione (da bancone di un qualsiasi Wholefood newyorchese, dove si trovano il sugo siciliano, lucano, bolognese, romano, pugliese, ma non più quello italiano), processi forzati che sono tipici della società post-moderna. Volendo usare un esempio antico e resistente: è il cibo di strada mai soppiantato da alcuna catena, da alcuna altra forma di cibo fast: è la tradizione culinaria legata per natura a reti e spostamenti, comune a tutt’Italia, dal pà c’a meusa, alla pizza, dal panino con la porchetta, al lampredotto, alla piadina, alle caldarroste. Se l’identità italiana che riconosciamo è basata sulle reti, sulle identità plurime, sugli scambi, se è uno spazio sia materiale sia mentale fatto di modelli di vita e di cultura, oggetti e saperi, uomini e abitudini, la gastronomia è una metafora.

Per queste ragioni crediamo che anche a scuola un menù di qualità, sano, sostenibile e italiano dovrebbe essere ripensato grazie alla sinergia di differenti tradizioni, usi, cucine, sapori, significati culturali e alimentari [28].

 

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Note
[1] I primi risultati del lavoro sono consultabili in un report, disponibile in francese, inglese e italiano
[2] Il coinvolgimento delle famiglie italiane è stato elevato: solo il 3,1% dei genitori ha rifiutato di partecipare all’indagine; per maggiori dettagli si veda http://www.epicentro.iss.it/okkioallasalute/pdf/OKkio%20alla%20SALUTE%20sintesi%202012_finale.pdf, 23rd.Oct.2013.
[4] Ibidem.
[5] Le dottoresse Simona Ropolo, Aurelie Giacometto e Marcella Beraudi lavorano presso la Struttura Semplice Dipartimentale, ASLTO1, Torino, intervista del 17/09/2013.
[6] Sul concetto di discriminazione istituzionale: D. Strazzari, Discriminazione razziale e diritto, Cedam, Padova 2008, p. 9.
[7] N. Fiorita, Le istituzioni e la lotta alla discriminazione, dagli atti del convegno Ambiti e forme della discriminazione: approcci teorici, casi concreti e politiche pubbliche di contrasto, Bologna, 3 febbraio 2010.
[8] N. Fiorita, Scuola pubblica e religioni, Libellula edizioni, Lecce, 2012, p. 152.
[9] A tal proposito si vedano, tra gli altri, il caso di Roma, di Ravenna e di Genova. Quanto ad un approccio definibile di tipo “comunitaristico”, non esiste in Italia nessun caso di rapporto tra l’istituzione pubblica della mensa e le istituzioni particolari coinvolte dalla specifica istanza (come comunità o associazioni religiose, associazioni vegetariane, associazioni animaliste ed associazioni legate a malattie rare). La scelta dell’interlocutore comunitario, nelle vesti dei suoi rappresentanti riconosciuti, avrebbe il merito di accogliere le necessità alimentari emergenti dalla composizione culturalmente sempre più varia della popolazione italiana, inserendole a tutte gli effetti nella cornice del pluralismo religioso attraverso il riconoscimento delle comunità come soggetti collettivi rappresentativi. A tale scelta potrebbe inoltre conseguire una semplificazione dell’offerta di servizi, con l’introduzione di menù appositamente dedicati a specifiche appartenenze fideistico-comunitarie. Da un altro punto di vista, tuttavia, e nella consapevolezza del fatto che la varietà dei livelli di aderenza dei fedeli alla dottrina è fenomeno comune a tutti i credo, occorre domandarsi se tale modello, configurandosi come valido per tutti gli appartenenti alla comunità di fedeli, non ingeneri più o meno volontariamente generalizzazioni forzose rispetto alle abitudini alimentari delle singole famiglie, privandole di fatto della possibilità di accedere ad un servizio dedicato ed aderente alle necessità particolari. Per un caso di questo tipo, si veda l’Accordo tra la Regione Lombardia e la Comunità Ebraica di Milano per il servizio di assistenza religiosa nelle strutture sanitarie di ricovero e cura lombarde. Siglato l’11 marzo 2009 dall’allora presidente della regione Roberto Formigoni e dal presidente della comunità ebraica Leone Soued, anche in tema di pasti kasher prodotti da servizi facenti capo alla Comunità Ebraica, si veda qui.
[10] E. Messina, Geografia delle good practices. Mensa, ospedale, cimitero, lavoro, in A. Melloni, Rapporto sull’analfabetismo religioso, Il Mulino, Bologna 2014, p. 456.
[11] R. Sonnino, Quality food, public procurement, and sustainable development: the school meal revolution in Rome, cit.. K. J. Morgan, R. Sonnino, The school food revolution: public food and the challenge of sustainable development, Earthscan, Oxford 2008. L. M. Ashe, R. Sonnino, At the crossroads: new paradigms of food security, public health nutrition and school food, in «Public Health Nutrition» 16(6), 2013, pp. 1020-1027.
[12] A. Morrone, P. Scardella, Manuale di Alimentazione Transculturale, Editeam, Roma 2009.
[13] N. Fiorita, Scuola pubblica e religioni, cit., p. 152.
[14] N. Fiorita Scuola pubblica e religioni, cit., p. 151.
[15] Chizzoniti, A.G., Tallacchini, M. (a cura di), Cibo e Religione: diritto e diritti, Quaderni del Dipartimento di scienze giuridiche, Università Cattolica del Sacro Cuore, Libellula Edizioni, Tricase (Le), 2010.
[16] Cfr. Unklesbay, N.F., Maxcy, R.B., Knickrehm, M.E., Stevenson, K.E., Cremer, M.L., & Matthews, M.E, Foodservice system: Product flow and microbial quality and safety of foods, North Central Regional Research Publication No. 245, MO: University of Missouri-Columbia College of Agriculture, Agriculture Experiment Station, Columbia 1977.
[17] Intervista al Direttore del Servizio Mensa del Comune di Torino, Dr. Filippo Valfrè, 20/05/2013.
[18] Gruppo Tecnico provinciale di Torino, Educazione Alimentare e mensa scolastica: stato dell’arte nella nostra provincia, Pixart printing Srl, Torino, 2011, p. 86 – 88.
[19] Dottor S. Oltramonti Prelz, intervista del 17/06/2013.
[20] Ibidem.
[21] Intervista a dr. F. Valfrè, direttore del Servizio Gestione Ristorazione del Comune di Torino, 20/05/14.
[22] Come si legge nel modulo, i menù senza carne (in molte scuole definiti “integralisti”) e senza carne né pesce vengono forniti su richiesta della famiglia, che deve compilare l’apposita modulistica scaricabile dal sito. L’opzione “no maiale” è attivabile via modulo solo per coloro che scelgono una “dieta speciale” patologica; per i non patologici, si può fare specifica richiesta alla scuola, che comunica la possibilità di scegliere l’opzione tramite: circolare interna; personale insegnante; direttamente alla segreteria e in molte scuole. La scuola poi comunica i suoi dati alle econome comunali.
[23] Le statistiche sulla cittadinanza degli alunni sono state ottenute dall’elaborazione dei dati forniti dalle scuole Gabelli, Santorre di Santarosa e Tommaseo; tali dati fanno riferimento all’anno scolastico 2013-2014 e contemplano l’intera popolazione studentesca iscritta ai tre istituti (1.374 casi). Visto il vigente ius sanguini in materia di diritto alla cittadinanza italiana, in sede di questionario si è preferito domandare il luogo di nascita di alunni e genitori, così da potere verificare l’incidenza delle cosiddette seconde generazioni sul totale del campione selezionato.
[24] Occorre qui sottolineare un’importante differenza: oltre a riferirsi all’anno precedente il presente lavoro, i dati Istat riguardano propriamente i matrimoni misti, intesi come le unioni civili e quelle religiose valide a scopo civile, celebrate fra una persona di cittadinanza italiana ed una di cittadinanza straniera. Se la caratteristica dirimente nel caso dei matrimoni misti è la cittadinanza, nel caso delle coppie miste, intese in questa sede come il duo genitoriale di riferimento per il bambino, la caratteristica fondamentale considerata è il luogo di nascita. Per approfondimenti si veda il contributo di Ghiringhelli B., I matrimoni misti in Italia, in A. Melloni (a cura di), Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, cit., pp. 435-439.
[25] A. Melloni (a cura di), Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, cit., p. 490.
[26] Come già riportato in precedenza, le stesse scuole italiane non producono statistiche in merito all’appartenenza religiosa degli alunni iscritti; i dati sulle richieste di menù speciali per motivi religiosi potrebbero rappresentare una prima rudimentale fonte di dati, se soltanto la religione rappresentasse un fattore rilevante e fosse dunque rilevato: i moduli ad uso dei genitori per l’iscrizione al servizio mensa non fanno menzione di culti, limitandosi all’elenco delle opzioni al menù standard, corredate da campi vuoti a disposizione dei genitori per stilare un elenco delle necessità particolari delle famiglie. Per tutte le scuole considerate dal campione, questa è stata la prima occasione per confrontarsi con i dati sul pluralismo religioso – e per confrontare questi con la percezione costruita nel quotidiano.
[27] K. Morgan, R. Sonnino, The Food Revolution and the challenge of sustainable development, Earthscan, London 2008, Introduction.
[28] Rimandiamo alla sfida del nostro progetto di costruire e sperimentare nuovi menù per le scuole, documentata in un articolo apparso su la Repubblica, di Vera Schiavazzi, dal titolo Frittate e zuppe il menu in classe mette d’accordo tutte le religioni.

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