Il giolittismo del filosofo

La vera biografia di un filosofo – si legge nel Contributo alla critica di me stesso – è la sua filosofia come quella di un poeta è la sua poesia, e quella di un uomo politico la sua opera politica. Ma un umano interessamento ci porta ad indagare come questi uomini, e particolarmente i più grandi, conducessero e attuassero anzitutto l’opera del loro vivere, che condizionò la speciale loro attività: ossia quella parte di vita che si distingue come pratica rispetto alla vita della poesia e della filosofia, o come personale rispetto alla loro vita politica. Che è poi il lavoro che si dice in senso stretto biografia, e tuttavia non nasce e non è concepito se non in rapporto all’altra e maggior vita: tanto vero che, come si dice, di chi non ha fatto nulla non si scrive la vita”.

Proprio a recuperare il dovuto rapporto fra “ vera biografia” e “biografia in senso stretto” si sarebbe amorevolmente dedicato Fausto Nicolini col suo Benedetto Croce ( UTET, 1962), volume con cui Nino Valeri, quasi per fornirle un modello, diede inizio a quella collana (“La vita sociale della Nuova Italia”), impregnatissima anch’essa di storicismo crociano.

Tutto prese avvio da quando, annota il Nicolini (p. 26), dalle nozze fra Pasquale Croce e Luisa Sipari “preceduto da un altro Benedetto, morto fanciullo, e seguito da un Alfonso e una Ilaria, nasceva il 25 febbraio 1866, nel palazzo avito dei Sipari in Pescasseroli, il grande Benedetto Croce”. Napoletana tutta la sua giovinezza. Napoletanissima, fin da ragazzo, l’avidità con la quale chiedeva ed ascoltava ogni sorta di racconti e quell’affetto per il mondo dei libri, quella appassionata bibliofilia, quell’incessante fatica di ordinare e riordinare la propria biblioteca in vista e alla luce dei propri studi.

Nei dodici mesi e mezzo – ricorda il Nicolini (p. 33) – nei quali gli capitò tra capo e collo il carico del ministero dell’istruzione, solo svago, che valesse ad alleviargli la monotonia di un massacrante lavoro segnatamente burocratico, fu di consacrare la quotidiana non lunga passeggiata igienica a un giro per le botteghe romane di libri vecchi. Da allora non vi fu giornata, laboriosa quanto si voglia, nella quale egli non riuscisse a trovare il quarto d’ora necessario per compiere uno spoglio sistematico dei cataloghi o anche delle schede manoscritte, che, prima di pubblicare codesti cataloghi, gli inviavano i libri antiquari di tutta Italia.”

Forse proprio il rapporto col libro, che fin dalla sua materialità lo aiutava a ritrovare qualcosa che lo congiungesse al vivo presente, lo avrebbe portato un giorno a rilevare come probabilmente “l’uomo, piuttosto che figlio della sua gente, è figlio della vita universale, che si attua di volta in volta in modo nuovo: piuttosto che filius loci, è filius temporis”. Tale lo rese ancor più la sciagura vissuta, quando, in villeggiatura a Ischia con i suoi, all’indomani di una brillantissima licenza liceale (presa come privatista al Liceo Genovesi di Napoli), nel terremoto di Casamicciola del 28 luglio 1883 perse padre, madre, sorella. Silvio Spaventa, cugino legatissimo a tutti loro, sentì il dovere di divenire tutore e di incaricarsi dell’avvenire dei due Croce superstiti.

Per Benedetto casa Spaventa a Roma fu tantissime cose: soprattutto politique d’abord, si sarebbe detto in altri tempi. Gli si dischiuse un ambiente di deputati, professori, magistrati, giornalisti, dispute giuridiche e politiche alle quali egli assisteva silenzioso, non senza registrare eccessi di esecrazione nei confronti del “vinattiere di Stradella” e più in generale della Sinistra. Vi si respirava una pregiudiziale moralistica avversione al cosiddetto trasformismo. In termini di vita individuale, quelli del triennio romano (1883-1886) furono anni dolorosi e cupi (“i soli nei quali, diverse volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino”). Li si rivivono, anche sotto il profilo della incubazione di un liberalismo meno accigliato e solitario e più in generale della volontà di costruire “l’accordo con se medesimo”, nelle pagine di Salvatore Cingari (Il giovane Croce. Una biografia etico-politica, Rubbettino, 2000).

Per il futuro autore della Storia d’Italia dal 1871 al 1915 e della Storia d’Europa, nonché di altri scritti politici successivi, in quel tempo affascinato dalla personalità e dai corsi di Antonio Labriola, gli esacerbati rappresentanti della Destra che animava le serate di casa Spaventa, son certamente “disinteressati e sincerissimi assertori di libertà e affatto scevri di conservatorismo utilitario”. Ma non lo convince, e gli pare inutile, quel continuare a “condannare come deplorevole e incivile perversione e corruttela quel trasformismo, che pure ripeteva, conforme ai nuovi tempi, il ritmo del connubio attuato vent’anni innanzi dal genio politico di Camillo di Cavour”.

Nel periodo trascorso a casa Spaventa, prima e più che la scoperta del Labriola e del marxismo, sarebbe stata decisiva in Croce l’affacciarsi della idea successivamente elaborata di una irrinunciabile “concordia discors di liberalismo e democrazia” in Italia ed in Europa. Negli anni successivi quella idea avrebbe trovato in Croce le più originali e ad un tempo le più classiche formulazioni.

Quanto al cosiddetto materialismo storico, fu alla metà degli anni novanta che Croce rilevò come esso “sarebbe stato di grande beneficio quando fosse inteso non già come una filosofia della storia o una filosofia senz’altro, ma come un empirico canone d’interpretazione, una raccomandazione agli storici di dare l’attenzione, che sino allora non si voleva dare, all’attività economica nella vita dei popoli.” In una memoria letta all’Accademia Pontaniana il 3 maggio 1896 e intitolata Sulla forma scientifica del materialismo storico, Croce (il quale per dieci anni si era dedicato a studi eruditi di storia napoletana, a polemiche sulla critica letteraria, a ricerche archivistiche italo-spagnole e ad interrogarsi sulla natura della storia) mostrava piena e scrupolosa padronanza delle teorie della scuola austriaca dell’individualismo metodologico: quella (allora dei Menger e dei Böhm Bawerk, in seguito dei Mises e degli Hayek alla quale i marxisti sempre avrebbero guardato “come una coniuratio della borghesia per la difesa, in veste dottrinale, del capitale e del profitto”.

Croce era ormai pervenuto alla conclusione “che la teoria del Marx non fosse il fondamento di una nuova scienza dell’economia, né a questa, rigorosamente parlando, appartenesse, perché il concetto base di sopravalore era logicamente scorretto e anzi assurdo; e che la scienza vera e propria della economia assai meglio si trovasse rappresentata dalla vituperata scuola austriaca: ma che, d’altra parte, se non alla scienza economica, l’opera del Marx conferisse alla coscienza sociale, illuminando con una serie di escogitazioni e di comparazioni, il rapporto dei lavoratori coi capitalisti”.

Ovviamente, da buon liberale, nell’agosto del 1898 Croce non avrebbe mancato di levare la sua voce contro gli odiosi processi politici istituiti a Milano contro Turati e altri socialisti (ancor più iniqui, a suo dire, di quelli intentati dal governo borbonico a Settembrini e a Spaventa). A Natale poi, quando un suo bigliettino di auguri all’ancor detenuto Turati gli sarebbe stato respinto dalla posta, con la formula “al mittente”, Croce si sarebbe sdegnato al punto di pretendere che “Il Mattino” di Napoli ospitasse una sua lettera di buon Natale “al mio amico Filippo Turati, così giustamente e severamente condannato per i fatti di Milano…”.

Dagli studi di economia e filosofia Croce si era ripromesso di far ritorno, armato magari di quella nuova metodologia riconducibile al materialismo storico, ai suoi studi sull’Italia meridionale e la Spagna. Al contrario, si ridestò in lui l’esigenza di riprendere antiche meditazioni liceali sull’arte, sulla poesia, sull’estetica; non senza tornare fra il 1897 e il 1898 a rifrequentare le opere del De Sanctis, ripubblicando in volume, con propria prefazione e proprie note, le lezioni sulla Scuola democratica e sulla Scuola liberale, già raccolta dal Torraca, e bacchettando alcune astiose meschinità che nei confronti del De Sanctis aveva creduto potersi permettere il Carducci.

Fra il 1899 e il 1902, Croce andò maturando la gran parte di quelle “tesi fondamentali”, che, insieme con la successiva prima stesura della Logica, vennero ristampate nel 1925 a cura di Adelchi Attisani. E questo in un tempo della sua vita lungo il quale a Napoli il commissario Saredo (1901) lo aveva voluto suo collaboratore per l’istruzione pubblica e, quindi, dedito ai faticosi problemi delle moltissime scuole elementari che allora dipendevano dal Comune.

Comunque sia, grazie all’editore Remo Sandron di Palermo, che gli elargì un compenso di cinquecento lire, Estetica come scienza dell’espressione e linguisticagenerale (con dedica “alla memoria dei miei genitori Pasquale e Luisa Sipari e di mia sorella Maria”) finalmente vide la luce nell’aprile del 1902. Fu opera attraverso la quale innumerevoli recensioni di consenso e di dissenso fecero sì che la fama di Croce divenisse di colpo internazionale”. “Deliberai, dunque – annotava l’autore – di considerare quel libro come una sorta di programma o di abbozzo, da compiersi, per una parte, mercé la pubblicazione di una rivista, e, per l’altra parte, con una serie di volumi, teorici e storici, che determinassero più particolarmente il mio pensiero filosofico…”. A quel programma Croce tenne fede.

La Critica, rivista di storia, letteratura e filosofia”, il cui programma culturale venne enunciato nel novembre del 1902, nacque all’insegna di una stretta sintonia intellettuale con Giovanni Gentile ( 1875-1944). Difformità di temperamento e di idee sussistevano e sarebbero poi emerse, ma allora entrambi erano animati da comune sentire antipositivistico, entrambi si sentivano hegeliani (con anima spaventiana Gentile ed anima desanctisiana Croce), entrambi alla filosofia erano approdati da studi di storia e filologia letteraria.

Il 20 gennaio del 1903, quando fu pubblicato, il primo fascicolo de “La Critica”, indicò il tracciato per l’adempimento da allora al 1915 di quel complesso di opere a loro modo implicite nell’Estestica (dalla Logica alla Filosofia della pratica e alla importantissima Teoria e storia della storiografia, passando per Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel e per quelle “fatiche vichiane” ispirate a “reverente commozione filiale”). Ne seguì l’incontro con Giovanni Laterza (1873-1943), appunto nel 1903, e qualche anno dopo prese forma il loro straordinario sodalizio editoriale. Accanto alla rivista, Croce e Laterza fecero vivere e prosperare collezioni, iniziative, traduzioni fino ad allora neanche immaginabili negli orizzonti dell’editoria italiana.

Risale al 7 maggio del 1914 il matrimonio, celebrato a Torino, con Adele Rossi, studentessa torinese conosciuta due anni prima a Napoli, dove si era recata ( segnalata a Croce da Arturo Farinelli) per ricerche su Vittorio Imbriani. Dal loro matrimonio, oltre un Giulio scomparso piccolissimo a causa di una polmonite, nascevano quattro figliole, Elena, Alda, Lidia, Silvia, sempre dispensatrici di gioia, intelligenza, buon umore. Intanto, sin del 26 gennaio 1910, su proposte del Sonnino, al quale il nome era stato segnalato da Giustino Fortunato, Croce era entrato a far parte del Senato del Regno.

Forse ancor più importanti, per il formarsi della sua coscienza di uomo pubblico, due diverse esperienze (l’una precedente, l’altra successiva, alla sua nomina a senatore).Fra il 1903 e il 1904 gli era capitato di dover fare a Napoli il giudice popolare. (“ Quando – aveva scritto al Vossler – si vedono sfilare i testimoni e si ascoltano le arringhe degli avvocati, non si crede più, come accadde al Vico, alla verità delle testimonianze storiche…”). Nel luglio del 1914, alle elezioni amministrative napoletane, in alternativa al “blocco” costruitosi fra democratici, massoni e socialisti, Croce aveva accettato di guidare un “fascio dell’ordine” di liberali, moderati, cattolici, di stenderne il programma e persino di illustrarlo innanzi alla Chiesa di Santa Maria in Portico a Chiaia. Fu un contatto con la politica abbastanza casuale, che non gli era affatto piaciuto.

Assai più partecipe quel ruolo politico, tutto giolittiano, che volle disegnarsi al fianco di Cesare De Lollis nelle accese dispute tra “neutralisti” e “interventisti”. Prima o poi, argomentava Croce, accanto all’uno o all’altro dei due gruppi combattenti, l’Italia avrebbe finito con l’”entrer dans la fournaise”, ma non per questo ci si doveva dimenticare che “la terapeutica delle bugie non è fortificante né per un individuo, né per un popolo”. Un liberale come lui certo non poteva riconoscersi nelle cosiddette “radiose giornate” del maggio 1915, allorché l’esecutivo, per strappare i necessari pieni poteri a un Parlamento irrisoluto, o comunque riluttante, tollerò che la piazza fosse aizzata contro il Parlamento stesso, autoerigendosi in “paese reale” non più rappresentato dal “paese legale”.

Prima, durante, dopo la guerra, senza aver ancora conosciuto Giolitti di persona, Croce aveva serbato un profilo politico nitidamente “giolittiano”. Sicché, caduto nella seconda metà del giugno 1920 il governo Nitti e affidato a Giolitti l’incarico di comporre il nuovo governo, non era imprevedibile (né fu imprevisto) che Olindo Malagodi, allora direttore de “La Tribuna”, inviasse a Napoli un comune amico a pregare Croce di venire al più presto a Roma per conferire col presidente del consiglio, il quale intendeva averlo al governo come ministro della pubblica istruzione. Fra Croce e Giolitti si passò rapidamente dal “lei” al “tu” e nacque una collaborazione nella quale lo statista avrebbe riconosciuto al filosofo “molto buon senso” e questi se ne sarebbe compiaciuto.

Per Croce si trattò forse, come egli stesso ebbe a dire dopo qualche mese, del “maggior sacrificio fatto per adempimento di dovere. Lo faccio, perché penso che tanta gente è stata chiamata per farsi ammazzare e dunque io devo prestare una sorta di servizio militare e non lamentarmi”. Tanto più, aggiungeva Croce, che nei confronti di Giolitti “mi sentivo, nel rispetto, piccolo piccolo”, tanto che “considerando me stesso come entrato incidentalmente e transitoriamente nell’operosità politica, che non mi apparteneva, non pensai neppure a farmi suo discepolo, in vista dell’avvenire”.

Qualche anno dopo, però, la crociana Storia d’Italia dal 1871 al 1915, della quale si continua a ripetere che maggior protagonista fosse in realtà l’ “uomo di Dronero”, da questi fu apprezzata per avervi trovato materia per apprendere. E Croce interpretò il suo apprezzamento nel senso che il vecchio uomo di Stato avrebbe appreso non da lui, uti singulus, bensì “dalla virtù della storiografia il significato dell’opera, che egli, come il poeta la poesia, aveva eseguito nel fatto, senza, nel travaglio del fare, potersi mettere sopra a essa e guardarla nello sfondo della verità storica”.

Giolittiano il liberalismo di Croce lo fu sempre: dalla sottovalutazione giolittiana del Mussolini che lo indusse fra l’ottobre del 1922 e il dicembre del 1924 a qualche eccesso di attendismo e perfino di accondiscendenza (l’aver preso posto al San Carlo alla vigilia della marcia su Roma nel palco dei senatori, quando il discorso del futuro “duce” aveva ostentato truce ”guapparia”) all’insistenza (anch’essa giolittiana) perché Amendola si adoperasse per un sollecito ritorno degli aventinisti alla Camera, per arrivare dal 1925 al luglio 1943 alla inflessibile opposizione al fascismo dettata da sentita e sofferta continuità con gli ideali dell’Italia di Cavour e dell’Italietta di Giolitti. Ed è qui che la storiografia ebbe ad occupare più spazio della filosofia nelle operose giornate di Croce.

Il suo liberalismo sarebbe andato definendosi, sviluppandosi, precisandosi soprattutto nel lavoro storiografico. Lo rileva e lo riassume bene Giuseppe Galasso (Croce e lo spirito del suo tempo, Bari, 2002). Nella Storia del Regno di Napoli del 1924 Croce aveva introdotto la nozione di storia “etico-politica” e nella Storia d’Europa nel secolo XIX del 1932 avrebbe fornito, proprio in termini di meditazione sulla storia, al liberalismo europeo una identità che era anche religione.

Nel secolo XIX la religione della libertà aveva avuto in Cavour lo statista che con “metodo moderno” aveva portato l’Italia a farsi Stato nazionale come già altri in Europa e Croce ne ripercorse la vicenda, prosaica eppur poetica, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915. Nel secolo XX la sfida di nuove dottrine totalizzanti imponeva ai liberali antitotalitarismo intransigente, come nel miglior cristianesimo, senza più indugiare o patteggiare col dover disfarsi opposizione intransigente. A conclusione della Storia d’Europa si leggeva:

Una storia informata al pensiero liberale non può, neppure nel suo corollario pratico e morale, terminare con la ripulsa e la condanna assoluta dei diversamente senzienti e pensanti. Essa dice soltanto a quelli che pensano con lei: -Lavorate secondo la linea che qui vi è segnata, con tutto voi stessi, ogni giorno, ogni ora, in ogni vostro atto; e lasciate fare alla divina provvidenza, che ne sa più di noi singoli e lavora con noi, dentro di noi e sopra di noi. – Parole come queste, che abbiamo apprese e pronunciate sovente nella nostra educazione e vita cristiana, hanno il loro luogo come altre della stessa origine, nella religione della libertà”.

Qualche anno dopo, nel gennaio del 1938, La Storia come pensiero e come azione sarebbe stata laboratorio del “travaglio”, della passione politica che si depura nella ricostruzione storiografica, della tensione drammatica tra l’urgenza dell’azione ed il suo trascendersi nel pensiero. E qui torna alla mente un bel libro, storico e ad un tempo filosofico, di Alfredo Parente (Croce per lumi sparsi, Firenze, 1975). Quanto agli scritti degli anni quaranta (dal Perché non possiamo non dirci cristiani del ’42 in polemica con Bertrand Russel, al L’Anticristo che è in noi apparso su “Il Mondo” nel 1949 e poi, sempre sulle pagine del settimanale di Mario Pannunzio dell’8 ottobre 1949, La città del Dio ateo) parlare di un “Croce minore” sarebbe riduttivo.

Recensendo il romanzo di Orwell, 1984, Croce intuisce come il protagonista Winston Smith rischi di apparire l’ultimo dei liberali, deciso a resistere tra interminabili dolori delle ingegnosissime torture e il fuoco di fila delle persuasioni a cui è sottoposto. Solo che alla fine è vinto anche lui e si sente intimamente assimilato agli altri del regime: all’improvviso in lui si accende una scintilla che è l’amore per il “grande fratello”; sicché questa sembra l’ultima parola, parola di sconfitta, del romanzo di Orwell.

“Certo – conclude Croce ne La città del Dio ateo– se la tecnica di mor­tificare nell’uomo la facoltà del pensiero e di so­praffarlo con l’asserzione della menzogna (di que­ste cose ci informano gli eventi dei paesi europei caduti sotto il regime russo), a grado a grado avvol­gesse l’intero mondo e lo consegnasse con mecca­nica precisione, quale l’Orwell lo rappresenta, il genere umano non si può dire neppure che torne­rebbe alla vita animale, di sana animalità ( di gene­rosa animalità, avrebbe detto il Vico), prodromo di rinascente sana umanità, ma si disfarebbe e si an­nullerebbe nella morte di un mondo umano… E in ogni caso, chi, come l’Orwell, ha guardato il mo­stro e non si è perso d’animo, e lo ha posto a sé, fuori di sé a fronte di sé, oggetto di disanima e di critica, ha scritto il suo libro non certo per rendergli omaggio ma per esortare a raccogliere le forze di resistenza di difesa e offesa, e perché non si dimen­tichi mai che nella attuazione di quel sistema tota­litario accadrebbe qualcosa di immensamente più vasto e profondo della caduta della civiltà greco-romano perché il genere umano stesso soccombe­rebbe senza speranza dì resurrezione : morirebbe del gran peccato contro natura, contro la natura umana di aver corrotto in sé il pensiero, che è il preservatore di ogni corruttela”.

Alla fine del secondo conflitto mondiale, Croce intuisce come i mostri incombenti del totalitarismo siano infinitamente più mostruosi, se così può dirsi di quelli dell’assolutismo, contro i quali era insorto ed aveva vinto il liberalismo delle origini. Aggrappato al suo Vico, Croce univa la propria voce a quella antitotalitaria di Orwell, di Talmon, della Arendt.

Nel febbraio del 1946 Croce aveva compiuto ottant’anni. Reduce dall’esperienza del governo provvisorio fra il 1943 e il 1944, presidente del Partito liberale e membro della Consulta, egli declinò – gentilmente ma altrettanto fermamente – il proposito di celebrare ufficialmente il compleanno. Erano i mesi che lo vedevano impegnato nella preparazione del progetto dell’Istituto Italiano per gli Studi storici – resa ancora più ardua dalla scomparsa di Adolfo Omodeo, il predestinato direttore che poi fu sostituito da Federico Chabod.

Ma erano anche i mesi in cui più intenso si faceva il suo impegno politico, sullo sfondo del dibattito istituzionale volto a fissare i contorni del nuovo Stato ed i confini entro i quali si sarebbe sviluppata l’opera della Costituente. Sono i mesi che avrebbero visto, nel giugno di quell’anno, il suo “no” categorico e netto alla proposta, lanciata da Nenni, di assumere le funzioni di Capo dello Stato.

Nel supremo distacco dalla carica offertagli, Croce era consapevole che il politico, prestato per un momento alla patria, equivaleva “a chi – lo dirà lui stesso – non essendo vigile del fuoco, in un incendio apporta o trascina anch’egli una secchia d’acqua per estinguerlo, augurandosi di non trovarsi più in mezzo agli incendi e di tornare al suo lavoro consueto”. Come a lui era già capitato nel primo dopoguerra, quando Giolitti lo aveva voluto ministro.

La sua intransigenza contro i nuovi dispotismi, dentro e fuori le frontiere della patria, lo aveva nel secondo dopoguerra portato ad attenuare certi motivi della sua antica insofferenza allo “spirito democratico” concepito come spirito astratto, utopistico, livellatore, come negazione dello storicismo liberale che è varietà, molteplicità, dissoluzione continua del mito. Ma tenne sempre ferma la distinzione fra liberalismo e liberismo: quasi ad evitare, anche in polemica col suo grande e nobile amico Luigi Einaudi, che nelle critiche ad un certo sistema economico fossero coinvolti i principi eterni di quella concezione liberale della vita, che si riannodava poi alla stessa intuizione cristiana.

Croce non arrivò mai ad identificare tout court il liberalismo col partito liberale: neppure negli anni immediatamente successivi alla Liberazione in cui aveva assunto direttamente responsabilità nella lotta politica, particolarmente nella contrastata vicenda del governo di Bari e della Luogotenenza di Umberto di Savoia, e magari nell’indicazione dei nomi di De Nicola ed Einaudi. Nomi che si sarebbero rivelati “azzeccatissimi”, l’uno come capo provvisorio e l’altro come primo Presidente della Repubblica, perché liberali crocianamente legati alla storia della moncarchia.

La sua teoria dei partiti politici come pure classificazioni di comodo, come convenzioni strumentali, come “generi letterari”, Croce non l’ammainò neppure a proposito del Partito liberale, che identificò con una specie di “prepartito”, condizione o giustificazione alla vita e alla lotta delle altre formazioni politiche della democrazia italiana. Si potrebbe dire che questo atteggiamento, per certi versi ingeneroso nei confronti del suo stesso partito, servisse a Croce per operare una sorta di fusione fra l’eredità spaventiana (con quel senso minoritario, conventuale e quasi monastico dello Stato) e l’eredità desanctisiana (con quel senso di uno Stato dinamico, progressivo, articolato e moderno), se si vuole, fra liberali e democratici. Di qui la sua incomprensione e il suo dissenso dall’azionismo.

“Il solo bene che ci resti intatto – affermò Croce alla Costituente a proposito di quello che sarebbe stato l’articolo 5 della Costituzione – il solo bene che ci resti intatto degli acquisti del Risorgimento è l’unità statale che dobbiamo mantenere saldissima se anche nel presente non ci dia altro conforto ( ed è pure un conforto) soffrire in comune le comuni sventure”. Forse erano parole dettate dal non voler far propria la disponibilità al regionalismo di Vittorio Emanuele Orlando. Ma la passione risorgimentale, nel suo cuore giolittiano, era quella del Grappa, a suo modo la stessa di Orlando.

  1. Il “cuore giolittiano” di Croce è tesi ardita e interessante, degna di di essere sviluppata assieme quell’altra assai più celebre relativa al “cuore liberale” di Berlusconi.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *