ll Capitale umano (Virzì): sono i figli non i padri a fare una brutta fine

Ultimamente, mi capita spesso di chiedermi se il nostro Paese abbia sufficiente forza per sfuggire – tra i numerosi rischi sociali che corre – alla perversa tendenza a quello scontro generazionale che infesta, tra teorie sulle cause storiche e spiegazioni para-psicologiche, il dibattito odierno.

Si è discusso moltissimo di come il Paese, imbalsamato nelle sue ataviche modalità di auto-perpetuazione per lo più corporativistica, scarichi la propria stasi sulla nuova “forza lavoro”, cioè sulla generazione degli attuali trentenni, costretti alla mobilità (anzi, alla “flessibilità”) più radicale, vale a dire al precariato perpetuo. Si è anche dibattuto circa il fatto che suddetta flessibilità non andrebbe considerata come il male assoluto, ma come l’inevitabile conseguenza di una società mondializzata, nella quale fortissima è la concorrenza, e che può fungere da moltiplicatore di occasioni e di “esperienze”. Il che è vero, nelle società sane (per esempio quelle scandinave) nelle quali la mobilità è incoraggiata tramite una rete di tutele giuridiche e sociali: e sarebbe vero, se non fosse che ormai il lavoro non c’è quasi più. Molti hanno anche insistito sulla questione “valutazione e merito”: vada pure per la flessibilità, s’è detto, ma che almeno i candidati al posto di lavoro siano finalmente valutati con trasparenza e secondo merito! Un discorso che non funzionava quando la crisi non c’era, figuriamoci ora. Insomma, negli ultimi anni abbiamo assistito e preso parte a una serie di discorsi del tutto fuori tempo: discorsi (e, possibilmente, relative azioni politiche) che dovevano esser fatti quando le cose andavano bene, quando il paese era un po’ più sano, la tempesta ancora all’orizzonte e ci si fosse voluti realmente attrezzare per affrontarla più efficacemente.

Poi capiti al cinema una sera a vedere l’ultimo film di Paolo Virzì, “Il capitale umano”, avendo assistito alle inevitabili polemiche che hanno accompagnato l’uscita nelle sale (Virzì avrebbe ritratto il produttivo Nord con un eccesso caratteristico, insomma: non sono tutti così famelici e malati di denaro). Ci si aspetta, senza troppe pretese, un film che aggredisca il tema “crisi” da un punto di vista intimistico, al quale sembrerebbe alludere il titolo: un film che, aggiungendosi alla lunga serie del filone “critica sociale” e, ormai, “crisi globale” (in questi giorni esce nelle sale anche “The Wolf of Wall Street”, la storia vera di un broker schiantato dalla propria avidità finanziaria), prenda una posizione discreta ma ferma nel contesto italiano. Ci si ritrova, invece, con un film gradevole, ben fatto, ma vagamente stereotipato – troppo vero per essere vero: il freddo manager tutto lavoro, la moglie incosciente e depressa con velleità artistiche, il figlio viziato e un po’ ferito, la famiglia del cretino arricchito, insomma tutto come previsto. Ascesa caduta e ripresa, senza un momento di introspezione sufficientemente radicale da far immaginare perché tutto ciò possa accadere – e accade.

Eppure, il “capitale umano” non è solo una (brutta) espressione, ormai comune nel lessico del lavoro e implacabilmente usata nel variegato mondo delle assicurazioni (dal quale Virzì trae il senso specifico per il suo film). L’espressione racchiude un intero immaginario, un’intera ideologia non solo (e non tanto) del lavoro, ma di cosa sia l’essere umano come tale: quando Marx, nel Capitale o nei Manoscritti economico-filosofici, critica Adam Smith e l’ideologia della merce-lavoro, parte proprio dall’evidenziazione di un modello antropologico. L’uomo sarebbe un essere  vivente dotato di “capitale umano”; un essere, cioè, il cui tratto essenziale è di disporre di una determinata capacità lavorativa, che può essere venduta e comprata a un determinato prezzo, fissato nel salario. Questa compra-vendita, e in ciò risiede per Marx la mistificazione del capitale, viene formalizzata “spacciando” il contratto di lavoro per una fattispecie del contratto di compra-vendita. Ma qui si parla, appunto, di capitale “umano”: il lavoro produce altro lavoro, il che non accade con le altre merci. Tutta una serie di problematiche emergono dall’impostazione classica marxiana, ma il suo tratto più interessante (al di là delle valutazioni circa le conseguenze politiche, la validità scientifica, etc.) è l’immagine di uomo che essa proietta: ci viene sbattuto in faccia che non siamo, semplicemente, “animali che lavorano” (per usare l’espressione di Hannah Arendt), ma siamo “lavori animati”. Non ci serviamo del lavoro, è il lavoro che si serve di noi: ci serviremmo del lavoro, se esso ci assicurasse un reddito sufficiente da poter spendere sui mercati, da poter re-investire, da poter usare per dei progetti personali. Così, se non altro, l’economia – come si suol dire – “girerebbe”. Ma nella stragrande maggioranza dei casi, oggi, il salario non consente nulla di tutto ciò: è appena sufficiente alla sopravvivenza.

Dunque, i protagonisti del film di Virzì puntano sullo sfascio del paese, e vincono. Puntano sul fatto che nulla cambierà e che il loro attendismo rapace verrà, infine, premiato. Così, scampato il pericolo, il film si chiude con un magnifico ricevimento nel quale si festeggia la ripresa dei mercati, degli affari, dei guadagni, della finanza creativa, delle rendite di posizione e di tutto ciò che vi è connesso. Nel frattempo colpisce, anche se non pare questo il senso ultimo del film, il destino dei “figli”: il rampollo viziato smarrisce quel momento di coscienza balenato nel mezzo della tempesta, la figlia del cretino arricchito si ritrova col ragazzo in galera e passa i pomeriggi in parlatorio. Mentre gli adulti brindano, quelli che hanno tentato di cambiare, quando ancora ne avevano la forza, sono rimasti fregati. E, se non finiranno a fare l’elogio della flessibilità, diventeranno nel migliore dei casi i protagonisti del “Capitale umano #2”: un film per provocare i “padri”, e che dovrebbe innervosire, con molte più ragioni, i loro figli.

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